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Breve storia di due parole: festa e lavoro
Festa
L'origine del termine neolatino "festa "(it.), 'Tiesta (sp.),
féte (fr.), riconduce al femminile sostantivato dell'aggettivo
"festus ",riferito a "dies", nel senso di giorno
festivo, oppure al neutro plurale dello stesso aggettivo sostantivato.
(La prima interpretazione è di G. Devoto, Avviamento alla etimologia
italiana, Dizionario etimologico, Le Monnier, Firenze, 1968). La radice
di "festa "è connessa con quella di 'Tériae"
che era un antico 'Tésiaee subì quell'alterazione della
's' intervocalica, chiamata "rotacismo " che la lingua latina
conobbe fino al IV sec. a.C.
Il Devoto inoltre afferma che esiste connessione tra la parola "festa
" e il sostantivo latino "famim" (tempio) da un antico
"fasnum" privo di esempi consimili fuori d'Italia, e rimanda
alla voce "profano ". Quest'ultimo termine presenta problemi
di interpretazione non per quanto riguarda la sua formazione linguistica,
ma per la diversa accezione. (Una parentela con la radice indoeuropea
Bha, antesignana non solo di "feiní" e di "fari"
ma anche di "fatum" e della loro famiglia: fama, facondo,
favola, fiaba, fata, confessare, affabile, ineffabile, fandonia, nefando.
Il Devoto per la formazione del termine propone il confronto con quelle
simili di "proprio ", 'pro' " 'privus' e di "proporzione",
'pro' " 'portione'. Nella definizione di "profano " così
si esprime: "Dal latino 'profanus'. Dalla locuzione 'profano',
'davanti al tempio', considerata come parola unica al caso ablativo
si è tratto il nominativo 'profamis' e tutto il restante paradigma"
(diremmo 'declinazione'). E ancora. proseguendo, afferma: "'Fanum'
è legato a Tas', 'diritto sacro', e quindi deriva da un più
antico Tasnom'; v. Fasto (2)" (op. cit., pag., 333).
In quanto egli afferma non v'è traccia di (significati) traslati.
Ma il latino accerta già la duplice connotazione del termine
e, nel definire profano, distingue un iniziale significato, poi le diverse
accezioni. La connotazione primaria si riferisce propriamente a ciò
'che sta dinanzi al sacro recinto', a ciò 'che non è consacrato'
o 'non più sacro' (contrapposto a 'sacer' e a 1consacratus')
ed è detto di luoghi, di animali (di malaugurio come 'bubo',
il gufo, 'avis', l'uccello), o di cose ed oggetti non attinenti la religione.
Per traslato, tale termine, riferito alle 'parole' (in Ovidio) o alla
'guerra' (in Plinio), assume il significato di 'empio', 'sacrilego',
e 'scellerato'. In contesti particolari poi, si trova usato per indicare
colui che 'non è iniziato', come ,(procul este profani!) state
lontani voi non iniziati, che non dovete prender parte al viaggio dell'Oltretomba!
(Virgilio, Eneide, 6-258). Di qui una seconda traslazione per indicare,
ad esempio, chi non è iniziato al culto delle Muse (il 'vulgus'
di Orazio), poi in senso cristiano, per indicare chi è estraneo
alla verità "profani a sacramento Veritatis" o "a
veritate" adoperato da Lattanzio. Il termine Tanum' indica, oltre
al tempio, tutta l'area consacrata alla divinità, il recinto
sacro o il luogo dei sacrifici. Sono consacrati dalle parole proferite
dai soli sacerdoti. E 'fanum' è connesso a Tas', che conferma
la parentela con "feiní", attraverso il suo intensivo
'Tasco", che significa appunto: 'dichiaro', 'affermo', 'dò
parola' e al verbo latino Tari'.
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'Fas' è inoltre collegato a Tasto', fasti, e a festa (per alternanza
vocalica a/e): tutti questi presentano interesse consimile alle parole
"mistero" e "mistico", anche se non hanno lo stesso significato.
Mistérion deriverebbe dalla radice di "myo" ('sono chiuso', 'tengo la
bocca chiusa', oppure 'tengo gli occhi chiusi'); di fronte al sacro,
non v'è parola o vista umana capace di esprimere o penetrare il tutto.
Il 'mistero' greco è cerimonia, pratica segreta, e myster (da cui l'italiano
'mistico'), è l'iniziato a questa arcana dottrina ed obbligato a non
divulgarne i precetti e i riti.
Tale concetto è ripreso nella stessa accezione di 'arcano' dai neopositivisti
logici della contemporanea 'filosofia del linguaggio'.
E vien fatto di pensare a Wittgenstein: "Non "come" il mondo sia, è
ciò che è mistico, ma "che" esso sia". Questo 'mostrarsi' del mondo
accade nel silenzio e non c'è parola umana atta ad esprimerlo (cfr.
Tractatus Logico-Phi1osophicus, 6.44 e 6.522, Astrolabio, Roma, 1969).
Tale inciso vien fatto a proposito, allorché si analizzi la pregnanza
di significato della parola Taturn', da 'ciò che è stato annunciato
' (dal sacerdote), a 'destino'; un termine che ha attinenza sia con
l'insondabile, con l'irrevocabile, sia col profetizzabile, quindi col
superstizioso, e, di riflesso, con le sacre formule della 'divinatio'
latina.
Ritornando alla parola Tasti', analizzata dal Devoto, vi troveremo scritto:
"(dies) giorni autorizzati, dalla legge divina, per amministrare la
giustizia, in opposizione ai 'nefasti' (non autorizzati); da 'fas',
diritto divino col suffisso -to (come "iovestos" iustus, da joves -ius),
lontanamente legato forse alla radice Blia di facundus, fama, fabula,
nel senso di "rivelare"; rimane però non chiaro l'ampliamento in -s,
da Fa a fa -s".
Ma alla voce Tor, faris, fatus sum, fari' è riportata la frase di Svetonio:
"Fasti sunt dies, in quibus ius fatur" dove, forse per caso, si trovano
connesse ambedue le parole.
Ora, la difficoltà etimologica della comprensione dell'ampliamento in
-s della radice Bha, rimane, ma è certo che la parola 'festa' ha un
indiscutibile significato religioso, in contrapposizione a 'ius', che
indica ciò che è sancito dal diritto umano, e a 'mos', che indica ciò
che è lecito in quanto consacrato dal divino.
Nell'etimologia delle parole è, quasi sempre, racchiuso il segreto e
la recondita essenza delle cose e dell'uomo che ad esse diede esistenza.
Ogni festa è un atto di culto, pronto ad assumere sia le vesti del rito,
quanto più esso soggiace alle esigenze della purificazione, sia a quelle
della rinascita spirituale, quanto più è garantita da ciò che sta al
di là della vita e della morte e cioè dal divino.
La funzione catartica di qualsiasi cerimonia festiva, quando sussista
l'impulso per un certo rito, può avvenire nei due modi più conosciuti
dei nostro retroterra suburbano: nei modi di una religiosità naturalistica
e propiziatoria, e in quelli di una religiosità spiritualistica e di
contrizione.
Emergono da un lato reminiscenze greco-latine e dei popoli primitivi
odierni, delle manifestazioni orgiastiche collettive, delle rappresentazioni
simboliche di morte e resurrezione, del concorso di folle in danze e
processioni,
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cioè di un complesso di riti relativi al fondamentale bisogno
di liberazione e di esorcizzazione degli istinti; dall'altro canto emergono
anche gli esempi delle adunanze di devoti in mistica ascesi, di processioni
liturgiche, di mortificazioni, di rievocazioni di storia sacra, proprie
del cerimoniale del Cristianesimo, il cui rito della purificazione e
della rinascita fa tutt'uno coi sentimento dell'espiazione e del riscatto.
La religione romana è stata definita, dagli storici di tale materia,
'originale' per il carattere razionale della sua organizzazione (Grenier,
Le génie romain dans la religion, la pensée et l'art,
Paris, 1925). Il romano si regolava nei suoi rapporti con la divinità
come col proprio simile: il diritto divino era concepito secondo il
diritto civile.
Se i vincoli giuridici intercorrevano fra uomo e uomo, anche i riti
o gli uffici erano intesi come legame tra l'uomo e la divinità;
il 'dio' obbligato da tali cerimonie ed offerte, era tenuto ad esercitare
la funzione alla quale era preposto. E al 'dio', più che il sentimento
dell'orante, era accetta la formula (carmen) con cui preghiera e sacrificio
eran accompagnati. Il rito propiziatorio aveva dunque un ruolo fondamentale.
Oltre a ciò, nel testo Storia delle religioni (AA.VV., Utet,
Torino 1954) troviamo testimonianze interessanti per quanto riguarda
la suddivisione del calendario romano, ad opera dei 'pontifices'.
Si sa che da Numa Pompilio fu affidato ad essi il compito di redigere
il calendario civile e di regolarlo al fine che, composto di dodici
mesi, coincidesse con l'anno solare. 1 pontefici, mediante accorte modifiche,
potevano intercalare o sopprimere alcuni giorni, osservando probabilmente
le costellazioni e le stagioni, visto che non si era ancora introdotto
il concetto di anno bisestile, ed era riposto perciò nelle loro
mani un immenso potere: quello di accorciare o dilungare certe vertenze
giuridiche, a loro discrezione ed interesse, visto che i giorni permessi
per tali mansioni erano da loro stabiliti. Infatti essi decretavano
quali fossero i giorni consacrati al culto degli dei (dies festi) e
quali fossero concessi agli uomini per il disbrigo delle loro faccende
e dei loro affari (dies proferti). Di questi ultimi stabilivano quali
si addicessero al pretore per amministrare la giustizia (dies fasti),
quali fossero propizi per tenere le adunanze e i comizi (dies comitiales)e
quali fossero quelli "in quibus lex agi non potest ", in quanto
consacrati al culto di divinità superiori o infernali (dies nefasti).
Il calendario romano ebbe poi il nome di 'Fasti' dall'importanza che
tali giorni assunsero nella vita sociale del tempo (probabilmente fin
d'allora il nostro popolo aveva vocazione per la giurisprudenza!).
A riguardo dei 'dies festi', occorre aggiungere che essi, consacrati
al culto religioso solenne, spesso coincidevano con le 'fériae'
e cioè coi giorni in cui non s'intraprende alcun lavoro, in cui
si riposa (in rapporto con cerimonie di culto). Oltre alle Teriae latinae',
incontriamo le 'novendiales', le 'forenses', di ciceroniana memoria,
le Teriae messium' reperite in Svetonio e le 'scholarum feriae' citate
da Prudenzio. Quest'ultime pare che coincidano col 19 marzo ed erano
dedicate a Minerva: tale giorno è chiamato dagli studenti Iminervae'
e da operai, artigiani, ed artisti ('feriati' in onor della dea), Iquinquatrus'
o perchè durava cinque giorni, o perché cadeva il quinto
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giorno dopo le Idi (Storia delle Religioni, op. cit.,
pag. 873). A Giano poi erano dedicate, non solo il primo mese dell'anno,
ma soprattutto le Kalendae: in tal giorno si gustavano le focacce chiamate
"ianuae";si evitava di proferire qualsiasi vocabolo di cattivo
augurio, si distribuivano parole di felicità e doni, 'strenae'.
Poiché nella vita privata era inoltre considerato 'deus agomus'
e perciò presiedeva a tutte le attività umane, tutti i
'cives' erano dispensati dal lavoro. Interessante, inoltre, è
il fatto che esistevano anche alcune feste dedicate agli schiavi, ad
esempio quella di Diana, ricorrente il 13 agosto, data di consacrazione
del tempio sull'Aventino ad opera di Servio Tullio che, a quanto pare
per tradizione, era figlio di schiavi.
La religione romana ebbe un altro pregio, che il cristianesimo non poté
misconoscere, anzi dovette accettare, "ribattezzando" usi
e costumi. Ciò fu il sincretismo proprio del culto romano che
accolse nuove divinità e le fece ospiti del proprio Olimpo. t
il caso di Minerva che, accolta dall'Etruria, fu riconosciuta nell'Atena
greca; è il caso di Cibele frigia che, all'epoca di Claudio,
ebbe onori quali traslato di Mater Magna o Mater Terra. Per condurre
il discorso al cristianesimo occorre ricordare che nella festa di Cibele
(dal 15 al 27 marzo) eran tenute, nell'ultimo giorno, processioni trionfali
in campagna e, in onore a Cerere, un mese dopo (il 12 o 13 aprile),
i cosidetti 'ambarvall' (amb-arvus; arvus o aruus-aro: che fa il giro
dei campi); ambedue le processioni sono antesignane delle Rogazioni
cristiane, che, pur collocate in un tempo diverso dell'anno (per lo
più l'Ascensione), hanno lo stesso carattere propiziatorio.
La Chiesa, nascente all'ombra dell'Impero romano, dove non riuscì
ad estirpare le manifestazioni di religiosità popolare di substrato
pagano (deriva da 'pagus', villaggio, e si conosce la resistenza al
cambiamento degli abitanti dei 'pagi'), le seppe adattare, trasformare,
dando ad esse un nuovo e più alto significato.
Il termine 'pagano' si dimostra interessante per l'evoluzione storica
del suo significato.
All'inizio non aveva connotazioni negative, ma indicava una diversità
di usi, di luoghi di provenienza, così come il latino 'gentilis'
(usato in tal senso da Tacito a S. Gerolamo) e al greco euvikò,
etnico, proprio di tiri popolo, di una razza.
A partire dal sec. V tale vocabolo designa in particolare i 'rustici',
i contadini. Isidoro di Siviglia nelle sue Etymologiae (VIII - 10) così
li definisce: "Pagani ex pagis ... Dicti ubi exorti sunt. Ibi enim
in locis agrestibus et pagi gentiles lucos idolaque statucrunt".
Poi Sulficio Severo identifica i 'rustici' con i 'gentiles" ed
i 'pagani': "Rustica turba vetat divelli fana protana" (citati
in Le Goff, Tempo della Chiesa, tempo del mercante, Einaudi, Torino
1977, pag. 106).
Il 'rusticus paganus' è inoltre legato, per tradizione, alle
vecchie superstizioni preromane, poi alle usanze ed ai riti dei dominatori
latini. Quindi particolarmente difficile si presenta l'evangelizzazione
delle campagne, ma la Chiesa ricorda l'insegnamento, l'ammonimento di
S. Pietro che nella "conversione di Cornelio il Centurione ...
annunciava che egli non doveva considerare immondi i pagani e che doveva
ammetterli alla propria fede (AAVV, Storia delle religioni, op. cit.,
pag. 519)
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n'unica struttura etimologica di 'labor' che non rispecchia e non contiene
il senso dell''operare' primitivo; "sotto un'apparenza pressoché
identica, il contenuto è diverso" (Devoto, op. cit., pag.
217).
Attraverso la famiglia cui appartiene 'labor', ci si trova di fronte
all'immagine oppressiva della sua radice che ríconduce appunto
a 1abi', ma anche a 1ava' e a 'labes' (caduta, rovina, disastro, peste
...).
Il Devoto stesso ne garantisce la matrice quando sottolinea il significato
essenziale del termine in esame: "inclinarsi e scivolare, sia nel
senso materiale di chi si piega sotto un peso (superiore alle sue forze)
e sia in quello figurato della sottomissione a chi detiene il potere"
(op. cit., pag. 217).
I millenni precristiani ci hanno lasciato imponenti e meravigliosi monumenti
inconcepibili, nella loro realizzazione, agli occhi nostri: non possiamo
però dimenticare che essi sono stati resi possibili da società
che concepivano il lavoro come maledizione e, perciò, imposto
agli schiavi.
Il cristianesinio, condannando la schiavitù, operò, Anche
in questo campo, una specie di riscatto. Nei primi secoli però,
riappare la radice 'Op' e S. Paolo, ai Tessalonicesi, nella seconda
lettera, così si esprime: "Quis non vult operari, nec manducet!",
reso in italiano "chi non lavora, non mangia". Ma il Devoto
non accetta questa traduzione, in quanto l'italiano parla di un 1avoro'
imposto a tutti, non svincolato dalla maledizione antica, mentre invece
l'apostolo sottolineava un carattere diverso dei termine, e cioè
di un 'lavoro' accettato consapevolmente e liberamente: "In labore
ci in fatigatione nocte et die operantes".
In quest'ultima frase, dello stesso apostolo, i due termini risultano
ravvicinati, ma chiaramente non sinonimici; si può dire comunque
che la nozione di 'lavoro', nella nuova concezione cristiana, sia, per
lo meno, redenta dal significato di schiavitù.
Resta però da notare che nella tradizione romanza il termine
mantiene ancora connotazioni che ricordano la "maledizione"
o la "tortura"; parole moderne come il francese 'travail'
ricordano nell'etimologla ciò che si trova anche nel genovese
"travagiu": il supplizio saraceno dei tre pali.
Questa associazione alla nozione di 'lavoro' attesta la persistente
aderenza al concetto di oppressione contenuto nella Genesi (cfr. Devoto,
op. cit- pag. 218).
Indubbiamente il termine '1avoro' incontrò, nella sua storia,
accezioni diverse, non ultima, nel medioevo, la concezione positiva
della 'regula' benedettina di 'ora et labora'. In essa il concetto di
lavoro risulta non solo riscattato e ricuperato alla primitiva dignità,
ma vien ritenuto quale indispensabile dimensione di realismo per il
monaco, per l'asceta.
Occorre dire che chi soggiaceva alla norma benedettina non percepiva
compenso per il lavoro compiuto: ciò era quanto di più
naturale ci fosse per mantenere solidi contatti con la realtà
oggettiva della vita di un popolo cui s'indirizzava l'evangelizzazione.
Che alcuni dei termini moderni, sopra citati, non abbiano conosciuto
ulteriore evoluzione o sostituzione è dovuto, probabilmente,
al fatto che al termine 1avoro' s'è sovrapposto un terzo significato,
quello di 'costrizione' (Devoto, op. cit., pag. 218).
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Esiste nelle tradizioni popolari, accertata da Theodor
Gaster (Le più antiche storie del mondo, Torino, 1960) una singolare
capacità di adattamento alle nuove forme di vita e di cultura,
e, quindi, persino ad una nuova religione. Chiari esempi sono le sovrapposizioni
cristiane di alcune date care al paganesimo. Una di queste feste può
essere lo stesso "Natale", fatto coincidere nei giorni in
cui ricorreva la festa pagana (del) 'natalis solis invictl', mentre
in Oriente la nascita del Redentore veniva celebrata nel giorno dell'Epifania.
Un altro esempio di sostituzione può essere quello del "solstiziod'estate",
fatto coincidere con la festa di S. Giovanni e le numerose tradizioni
di origine pagana che ancora pullulano in Toscana e nell'Italia meridionale.
Altro carattere propiziatorio per la fecondità e l'abbondanza
avevano i 'Calendimaggi'. Le "regine di maggio", che ricorda
anche il Poliziano, furono detronizzate e, ci piace supporre che quasi
per crearne contrasto, si rendano in tale mese omaggi di fiori ed offerte
alla Regina Virginum, cioè a Maria.
Resta da puntualizzare il fatto che se la religione antica aveva principalmente
un carattere propiziatorio (almeno nell'occidente), la religione cristiana
tese, nel suo intento, ad inserire il concetto più elevato di
ascesi, di rinascita spirituale, di riscatto e di riconciliazione, nel
senso eli riallacciare i rapporti con Dio (religatio/religione).
Lavoro
Se la parola 'festa', testè esaminata, presenta
una ricca storia di significati molteplici, la parola 1avoro' risulta
esser tra le più interessanti per la controversia delle connotazioni,
attestanti 'caduta' e 'redenzione', intrinseche al termine stesso.
Nella fase più elementare della società umana, il lavoro
era un'attività necessaria, legata alla sopravvivenza, alla i"accolta
del cibo, asservita al concetto stesso di vivere: cosa naturale quindi,
e la terminologia più antica del lavoro, nelle lingue indoeuropee,
è priva di risonanze negative. Infatti essa riconduce ad 'opus'
e alla radice Op che sopravvive nel tedesco 'úben' (praticare,
esercitare) ed anche nel sanscrito 'apiias', senza però che appaia,
in questi termini, connotazione negativa. Quest'ultimo significato s'è
introdotto perché "della parola si è impadronita
ad un certo punto la classe sacerdotale, e questa ha lasciato la sua
impronta" (Devoto, Civiltà di parole, Vallecchi, Firenze
1965, pag. 216).
Il primo libro della 'Genesi' ricco di esperienze dolorose d'un popolo,
attesta essere il lavoro caduto sulle spalle dell'uomo quale maledizione
divina: dalla disobbedienza originale, l'uomo non avi"ebbe goduto
dei frutti della terra, se non col sudore della propria fronte.
Tale maledizione è largamente comprovata dalla radice di 1abor,
"cris, lapsus sum, labi', il vacillare sotto un peso, che in Virgilio
(Eneide, 6, 277) troviamo personificato in 'Labos', quale Dolore, Sofferenza,
Pena.
Risalendo, infatti, da lavorare a 1aborare' (lat.), si opera nei sensi
di u-
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Non occorre riandare alle memorie della 'servitù della gleba'
per comprendere il significato di tale affermazione.
Finche il salario è stato sufficiente al solo fabbisogno naturale
ed essenziale dell'individuo, non s'è potuto parlare di lavoro
'nobilitante'; il lavoro come 'costrizione' è perdurato per secoli,
la minaccia della disoccupazione è una realtà non solo
odierna ...
Ma nulla in sé è definitivo e quindi la storia della parola
può ricominciare o procedere migliorando o peggiorando la propria
connotazione.
Dopo quanto è stato detto, riprendendo in esame il nostro proverbio
'1 lavori de' festa i và fora pa la finéstra e soprattutto
l'immagine sacra del Cristo della Domenica, risulta spontaneo chiederci
per quale ragione santificare la festa significhi astenersi dal lavoro
e, in particolare, da che tipo di lavoro.
Da un lato le 'feriae' romane prevedevano l'astensione dalle attività
per concedere, a determinate categorie, di festeggiare, con cerimonie
e riti, la loro divinità protettrice. Ciò aveva lo scopo
manifesto di alternare periodi di produzione a periodi di riposo e di
'otium' che rinfrancassero lo spirito e la Chiesa non ebbe sott'occhio
solo questo.
Interviene, dall'altro lato, la concezione ebraica del riposo 'sabbatico'
e il cristianesimo la accoglie e la trasforma, ligia al discorso evangelico
di Cristo e Marta.
Cristo però non disprezza l'affannarsi sollecito di Marta alle
prese con pentole e fornelli, ma sottolinea il fatto che deve esserci
anche un tempo in cui entrare in colloquio col Creatore.
In particolare poi il Cristo contesta il concetto del sabato ebraico
quando chiede al suoi accusatori se, caduto un loro asino nel pozzo,
non s'adoprassero a salvarlo anche se ciò dovesse accader di
festa ...
Il nostro viaggio a ritroso nel tempo si perde non appena ci si addentra
nelle oscure vicende del medioevo e nell'ambiguità di certe affermazioni
ecclesiastiche di quell'epoca. La Chiesa, come s'è visto, sovrappose
il proprio insegnamento a quanto già esisteva nell'uso e nel
costume dei nuovi adepti e fu particolarmente difficile evangelizzare
le popolazioni disperse nei villaggi. "Ribattezzando" quanto
preesisteva fece del suo meglio, finche non s'accorse dei potere politico
che andava acquistando via via che nuovi popoli accettavano la sua religione.
Per di più, si prodigò per dare ad essa una dignità
ed una autorità letteraria pari a quella dei secoli trascorsi.
È il caso di ricordare l'opera di S. Gregorio Magno che, tra
l'altro, ordinò che sulle pareti delle chiese apparisse effigiata
la catechesi per un volgo analfabeta.
L'iconografia diventò lezione.
Questo è senz'altro il motivo principale per cui vita attiva
e contemplativa, vizi e virtù ornano lì portali e le pareti
delle chiese: per fornire ai predicatori l'illustrazione dei loro insegnamenti
morali. A noi oggi rimangono, per questo, tanti esempi di arte sacra
popolare, per lo più anonima, ed anche il 'Cristo della Domenica'
risulta esser un elenco figurato di quali opere
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servili non siano permesse, nel giorno del Signore,
ad un popolo semplice, devoto, ma incolto, qual era quello che allora
abitava la zona del Feletto e dei villaggi circumvicini.
Nel medioevo la Chiesa si fregiò di grandi asceti e studiosi di letteratura,
filosofia, teologia, quali S. Gerolamo, S. Agostino, S. Ambrogio che
ritradussero dal greco e dal latino aureo antologie e pensieri in chiave
cristiana cattolica. Poi, nel sec. XIII, S. Tommaso, nella Summa Theologiae,
così si esprime a proposito del lavoro: "Labor manualis ad quattuor
ordinatur. Primo quidem et principaliter ad vietum quaerendum; secundo,
ordinatur et tollendum 'otium' ... ex quo multa mala oriuntur ... Tertio,
ordinatur ad concupiscentiae refrenationem, in quantum per hoc, maceratus
corpus
Quarto antem ordinatur ad elemosynas faciendas,> (Storia d'Italia -
I caratteri originari. Einaudi, Torino, vol. 1, pag. 259-68). Il lavoro
è finalizzato al provvedere alla semplice sussistenza del lavoratore
e della sua famiglia; in fondo tale asserzione era il riflesso di una
situazione economica e sociale esistente: una constatazione, e forse
anche una mentalità diffusa.
A questo proposito c'è chi azzarda affermare che, in qualche modo, la
Chiesa si sia resa complice di un certo tipo di retribuzione.
Si sa comunque che, negli anni del medioevo, essa conobbe periodi piuttosto
duri, ma l'affermazione di S. Tommaso, a nostro avviso, è rivolta più
alle funzioni, agli scopi del lavoro, che alla sua remunerazione. Ma,
come spesso accade, fu mal interpretata e tale discorso in un'altra
ottica fece senz'altro l'interesse delle classi più abbienti ...
E c'erano i giorni di festa in cui non erano tollerati i lavori manuali
retribuiti, le 'opere servili'.
Tali feste inoltre, non erano solo religiose, infatti, già alla fine
del Quattrocento A Savonarola diceva di Lorenzo il Magnifico e dello
sviluppo da lui dato alle feste profane: "Occupa il popolo in spettacoli
e feste, acciocché pensi a sé e non a lui" (Storia d'Italia, op. cit.,
pag. 809).
Le feste sacre in cui erano vietati i lavori manuali, nella diocesi
di Udine e in quella di Aquilela, anticamente erano 92; in seguito,
durante il Trecento e il Quattrocento furono portate a 101 (una festa
quindi quasi ogni tre giorni), se non che le ragioni economiche e i
sentiti bisogni di riforma indussero la Serenissima nel 1774 a rivolgersi
al Nunzio Apostolico per diminuire le feste e si venne ad un accordo
(così si ritrova scritto in Ostermann Valentino, Le arti e le tradizioni
popolari d'Italia - la vita in Friuli, Udine 1940, pag. 470 e seguenti).
A Genova poi, le feste da 82 nel 1375 furono ridotte a 69 nel 1410 e
a 40 nel 1437, per risalire poi a 96 nel 1588, oltre alle feste mobili
e alle domeniche. Esisteva tolleranza per i lavori agricoli, ma rifiuto
per i lavori dei settori produttivi (cfr. Storia d'Italia, op. cit.,
pag. 264).
Il 21 aprile 1499 è registrato presso l'archivio arcivescovile di Udine
un ordine significativo: "l'Ave Maria del mezzodì venga pur suonata,
ma si
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abbandoni l'abitudine di cominciar la festa il pomeriggio del sabato,
considerata da una circolare patriarcale "abusum et damnabilem morem"
(Ostermann, op. cit., pag. 470). Le opere servili son quindi lecite
fino al tramonto del sabato.
E ancor oggi, la sera d'ogni sabato, nei nostri paesetti s'ode quello
scampanìo festoso che annuncia la 'vigilia' della festa (in friulano
dette Ivigilis' o 'veis' con varianti attestate da luogo a luogo)".
Nel medioevo i mercati si tenevano nel giorno della sagra ("sacratum",
da 'sacer' e da 'sanctus' cfr. sagrestia, sagrato, sacerdote, sacrestano
... ) e con una solennità che non conosceva i confini politici dell'epoca.
E la 'mercatura' fu considerata, in questi casi, opera liberale: infatti
l'istituzione di fiere e mercati, a quel tempo, fu una necessità, connessa
a motivi contingenti di barriere e conflitti, di pedaggi e di dazi che
inceppavano ogni forma di commercio, facendo rincarare i prodotti. "I
principi accordavano perciò volentieri a città e a borghi i mercati
"franchi"e lo stesso Barbarossa, ad esempio, nel 1184 confermò tale
uso ad Aquileia, salvo la corresponsione della 'gabella" sul sale" (Paschini,
Storia del Friuli, Il pag. 56 citato in Ostermann, op. cit., pag. 475).
Durante le fiere si organizzavano pubblici spettacoli, giostre e feste
da ballo; di quest'ultime pare essere l'inventore il Beato Beltrando
da Cividale, il quale più tardi, divenuto patriarca, stabilì che nei
giorni di festa non fosse permesso far mercato (bolla datata 10 agosto
1342, presente all'archivio notarile di Udine). Accordò comunque che
la fiera di Pontebba si tenesse nei tre giorni antecedenti e nei tre
giorni seguenti la Natività della Beata Vergine Maria (8 settembre)
(Ostermann, op. cit., pag. 476).
In seguito, nei dì festivi, era severamente proibito aprir le botteghe
e i negozi, quindi di commerciare: ai contravventori le leggi comminavano
pene, talvolta anche gravi. Il 12 luglio 1424 il comune di Udine decretò
che anche le 'osterie' presso la Chiesa di S. Pietro Martire non potessero
restare aperte durante le prediche e gli uffizi divini.
Nel 1778, per snellire il commercio, fu concesso di vendere e comprare,
anche di festa, ma quattr'anni dopo fu rinnovata tale restrizione e
tale divieto fu rinnovato dall'Austria nel 1855: ebbe vita fino alla
liberazione del Veneto (Ostermann, op. cit., pag. 471).
I proverbi e i detti popolari ripescano nel torbido di una realtà avita
e colorano con similitudini ogni dato di esperienza, caricando il tutto,
talvolta, con un pizzico di superstizione: "I lavori de festa i và fora
pa la fenèstra".
Viste le vicissitudini, medioevali e postume, della 'mercatura', ora
considerata opera liberale, ora servile, s'è notato che molta parte
in ciò ebbe la Chiesa che inoltre s'impose aumentando o diminuendo le
feste come i Ipontifices' romani, ma, certamente, con altri scopi.
E c'è chi dice che il potere ecclesiastico tentò d'ostruire quello politico
(Storia d'Italia, op. cit.).
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Il Cristianesimo non possiede il senso della proprietà privata,
ma asserisce che quanto li singolo possiede in sovrappiù lo dia
al povero distinguere allora le opere servili da quelle liberali, avrà
avuto probabilmente il senso di riequilibrare i guadagni.
È chiaro che i mercanti del medioevo erano semplici agricoltori
dei contado limitrofo e che il loro guadagno era proporzionato alle
fatiche di una settimana o di un dì, quindi plausibile ed accettabile.
La fiera, il mercato, erano inoltre motivi d'incontro, di distensione,
di colloquio per tutta quella povera gente laboriosa dei paesi, dei
villaggi dispersi nelle campagne del Comune.
Momento quindi, la festa, di dialogo sia con Dio, sia con l'uomo, col
fratello. Può darsi che la Chiesa abbia avuto in mente il concetto
di 1avoro, nel senso di volerlo redimere da schiavitù a dignità
umana. Fatto stà che la Chiesa aumentò e ridusse il numero
delle festività infrasettimanali, non solo in contrasto o in
accordo con il potere civile, ma anche in coincidenza di come fosse
in quel tempo concepita l'attività manuale e lavorativa. li progetto
implicito a tutta la Bibbia è quello della liberazione di un
popolo dalla schiavitù, e la Chiesa, fedele al messaggio della
resurrezione, ha dimostrato di rifarsi alla primordiale aspirazione.
Quando il lavoro fu concepito come 'schiavitù' essa si rese garante
dei momenti di 'relax' per il popolo sottomesso, anche se poi non sempre
fu rispettato, nel propagarsi territoriale, lo spirito originario del
messaggio, visto che in altra maniera se ne appropriò la tradizione
popolare nei termini figurati e superstiziosi dei proverbi.
Ad esempio si riscontra ancor oggi la presenza della concezione proverbiale
che tessere la domenica equivarrebbe a filare i capelli della Madonna.
Esempi consimili sono infiniti.
Il Cristo della Domenica, effigiato sulla parete della Chiesa di S.
Pietro di Feletto, è ferito, oltraggiato dal lavoro che si compie
nel giorno a lui dedicato.
Quando il lavoro fu concepito come dignitoso, la Chiesa non esitò
a diminuire le festività e ciò è attestato nei
momenti della rinascita culturale o industriale ...
Riteniamo opportuno, prima di commentare gli strumenti di lavoro che
fari corona all'iconografia del Cristo della Domenica della Chiesa di
S. Pietro di Feletto, analizzare alcuni temi caratteristici della vita
del medioevo, alla luce di studi etnologici, sociologici ed antropologici
riguardanti: 1) le classi sociali all'epoca della ricomparsa della moneta;
2) i rapporti tra città, confraternite, consorterie e contado;
3) il concetto di 'tempo' in uso allora e di conseguenza i lavori illeciti
nel 'tempo' da dedicarsi a Dio.
"Così, malgrado il nostro desiderio di inabissarci nella
profondità vivente dell'opera, noi siamo costretti a distanziarci
da essa per poterne parlare" (Sergio Bettini, Introduzione a Julius
von Schlosser Sull'antica storiografia italiana dell'arte, Vicenza,
Neri-Pozza, VI 1969, pag. 31).
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Le classi sociali all'epoca della ricomparsa della moneta.
All'inizio del medioevo la società si presenta
composta e divisa in tre categorie, l'un2 complementare all'altra: 'orantes',
'bellatores', 'laborantes', cioè coloro che pregano, combattono
o lavorano. La tripartizione, in seguito, fu intesa come asservimento
dello stato inferiore ai primi due e forse in connessione con la maledizione
di Cam a favore dei fratelli Sem e Jafet.
Nell'atto medio evo noti è facile stabilire quale dei primi due
stati avesse la preminenza, anche se gli 'orantcs' son citati per primi
e spesso la società appare ripartita in due ordini: chierici
e laici. La tripartizione sembra però essere la più attendibile,
in quanto è suffragata dal simbolismo concernente il numero tre.
A sostegno di tale tesi Le Goff (Tempo della Chiesa e tempo del Mercanie,
Emaudi Paperbacks, Torino, 1977) cita l'antropologo LéviStrauss
che fornisce tale soluzione in Les organisations dualistes existent-elles-
(pag. 43).
Fatto sta, però, che le classi più importanti erano le
prime due e che la terza (laborantes), dalla caratterizzazione meno
immediata, è disprezzata e spesso ignorata dalle fonti: di qui
una delle difficoltà di ricostruzione storica.
Le eredità presenti nella mentalità dell'alto
medio evo sono molteplici, sovrapposte e concatenate, comunque sempre
piuttosto negative nei confronti del lavoro manuale, anche se si tentano
varie distinzioni di cui si hanno testimomanze più chiare solo
nel sec. XII e per quanto riguarda l'oscillazione tra i termini 'otiuni'
e 1 negotium', riferito ai monaci ",'otiurri monasticum' e la definizione,
nel sec. XII, di un`otiurn negotiosum, dei monaci" (op. cit., pag.
77).
In seguito, l'eredità greca porta con sé, nelle traduzioni
e negli studi dell'epoca, la contrapposizione di téchne e di
pónos, cioè di un lavoro inteso conte sapere tecnico e
l'altro lavoro, inteso come sforzo gravoso nelle mansioni. Quella latina,
s'è visto, oscilla tra le ambiguità di tiri 1abor', dalle
connotazioni pessimistiche di pena e fatica (nonostante si legga Virgilio
che è legato più alla vita rurale che a quella artigianale)
e di un 'opus' ('l'operare' di S. Paolo), L'oscillazione dei significati
a carico dei significanti (labor / opus), nel codice medioevale, è
dovuta alla persistenza del concetto di schiavitù e nasce la
connessione, etimologicamente antitetica, di 'opus servile', 'opera
servilia' A'antitesi del lavoro e della libertà ... il peso dei
legame tra lavoro e schiavitù" (op. cit., pag, 78).
L'eredità giudaico-cristiana è tanto presente con le interpretazioni
'vulgatae' dei Genesi, da essere oppressiva o, per lo merio, condizionante:
Dio, creatore del mondo, "lavoratore e stanco dopo lo Flexamenon",
dopo i sei giorni; "l'uomo condannato dal peccato originale al
lavoro coime castigo e pemtenza"; le figure contrapposte di Abele
e Caino che diventano condanna per la vita tecnologica ed economica
(urbana) "Caino fondatore della prima città e inventore
dei pesi e delle misure" ma che dan luogo a controversie quanto
alla valorizzazione dei lavoro rurale (Abele) (le citazioni sono in
op. cit., pag. 79).
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La concezione di lavoro-punizione o schiavitù
è rafforzata inoltre da una quarta eredità, quella dei
barbari invasori, per lo più discendenti di quei Germani di cui
parla Tacito: "Nec arare terram aut exspectare annum tam facile
persuaseris quam vocare hostem et vulnera mereri. Pigrum quin immo et
iners videtur, sudore acquirere quod possis sanguine parare. Quotiens
bella non incunt, non multum in venatibus, plus per otium transigunt,
dediti sorrino ciboque, fortissimus quisque ac bellicosissimus nlhil
agens" (Germania, cap. XIV-XV).
Da ciò deriva il disprezzo del guerriero per le attività
economiche e per il lavoro manuale. L'eredità barbarica conferirà
inoltre prestigio sociale agli artigiani metallurgici, considerati,
nella mitologia germanica, sacri o maghi.
La tripartizione della società medioevale risulta essere, dal
sec. X in poi, insufficiente a differenziare i nuovi stati sociali.
Incontriamo infatti in Francia il termine 'laboreur', inteso come contadino
che possegga un paio di buoi e strumenti propri di lavoro (cfr. Le Goff,
La civiltà dell'Occidente Medioevale, Sansoni, Firenze 1969,
pag. 313 e seguenti).
Da ciò si può dedurre che la famiglia della parola 'labor'
è adoperata, in questo tempo, in accezione economica, agricola,
coi significato di conquista di una certa indipendenza, di un miglioramento
e quindi di una diversa considerazione sociale: Aaborator è colui
la cui forza economica è sufficiente per produrre più
degli altri" (ibidem). Ma vi sono altri braccianti, nelle 'villae'
o nei castelli, che non godono di questa rivalutazione; per di più
si delinea nel sec. XI la crescita numerica di quello che sarà
chiamato 'quarto ordine', piuttosto sospetto, inviso sia a chierici,
sia a guerrieri: quello dei mercanti. E c'era il mercato nel giorni
stabiliti, per lo più festivi, come s'è detto.
È da precisare che non sempre le fiere eran frequentate da soli
mercanti improvvisati, cioè da semplici contadini che offrivano
una parte della loro produzione in 'baratto', soprattutto per un pò
di sale (non di loro produzione), ma da estranei e stranieri, veri e
propri mercanti che acquistavano prodotti agricoli, tipici del luogo,
vendevano peculiarità (talora di lusso) di altre regioni, e,
soprattutto, concedevano prestiti con interesse.
Per questo, tutta la società h taccia d'usura.
Nell'antichità, come principale (se non unica) forma di prestito,
era conosciuto il prestito di consumo e l'interesse era considerato
non solo disonesto, ma illecito guadagno. "L'interesse sul prestito
di consumo era proibito tra i Cristiani e costituiva l'usura, pura e
semplice, condannata dalla Chiesa ... Tre testi biblici (Esodo XXII,
Levitico XXV 35-37 e Deuteronomio XXIII 19-20) condannavano il prestito
a interesse tra gli Israeliti" (op. cit., pag. 278). Nel medioevo
non circolava molto la moneta, (cfr. anche Mare Bloch); questa anzi
non era altro che un termine di paragone per la valutazione degli oneri
da corrispondere al signore del castello, o per le decime, o per stabilire
'il giusto prezzo' di un determinato oggetto o prodotto.
I registri dei censi riportano equivalenti in denaro, ma la valutazione
monetaria non era forzatamente legata a un pagamento in moneta".
La moneta non era altro che un riferimento "serviva di misura al
valore, era una 'apreciadura', una valutazione" (op. cit., pag.
301). Di qui forse anche
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il nostro italiano 'apprezzare'.
Vi sono però alcuni prodotti, indispensabili anche al contadino
povero, che non possono essere acquistati se non col denaro, ad esempio
il sale; ciò fa supporre che, anche se la produzione delle zecche
fosse piuttosto esigua, circolasse un certo quantitativo di moneta (salario
? saldare).
"Il denaro non è mai sparito dalla pratica del medioevo
... il contadino stesso non poteva vivere completamente senza compere
in denaro: il sale per esempio, che non producesse, che non riceveva
e che poteva raramente pagare con baratto, doveva essere acquistato
a prezzo di denaro. Ma in quest'ultimo caso è probabile che i
contadini abbiano trovato le poche monete di cui avevano bisogno, più
per mezzo dell'elemosina che con la vendita dei loro prodotti"
(op. cit., pag. 301?302). A quel tempo è inoltre problematico
stabilire il valore della moneta e l'oro non viene più coniato,
sia perché raro nell'occidente medioevale, sia perché
duttile e soggetto a consunzione: infatti, per stabilire il valore reale
del metallo prezioso che contiene la moneta, visto che esso non era
coniato, come oggi avviene, la si doveva pesare.
Con la ripresa economica vi fu anche una rinascita monetaria nel sec.
XIII e la classe che da ciò trasse i maggiori vantaggi fu proprio
quella dei mercanti.
Il Cristianesimo, per tradizione, dimostra sfiducia nei confronti del
denaro (Giuseppe venduto dai fratelli; Cristo venduto da Giuda per 30
denari ... ), ma la rarità della moneta conferisce prestigio
a chi la possiede: <,battere moneta è segno di potenza"
(op. cit., pag. 304).
La morale conosce allora dei cambiamenti: la 'superbia' era stato il
peccato feudale per eccellenza, considerata la madre di tutti i vizi,
ed ora, l'avarizia', comincia a contenderle il primato.
Dante viene definitivamente ricacciato nella 'selva oscura' dalla lupa
"che di tutte le brame / sembrava carca nella sua magrezza"
(Inferno, Canto 1, vs. 49?50) che rappresenta, allegoricamente, secondo
la maggioranza dei critici, l'avarizia, la cupidigia. Scrittori ed artisti
la condannano, la stigmatizzano: il mercante, l'usuraio, l'avaro, appesantiti
dalla loro borsa carica di denaro, che li trascina nel fuoco eterno,
son esposti, ad esempio, al disprezzo e all'orrore dei fedeli nelle
sculture o nelle pitture delle cattedrali gotiche.
Un'altra classe andava sorgendo in questo periodo e beneficiava di quest'evoluzione
economica: quella che sarà chiamata 'borghesia', cioè
un nuovo strato sociale di prestigio, ma anch'esso piuttosto sospetto.
"Dio ha fatto i chierici, i cavalieri, i lavoratori dei campi;
ma il diavolo ha fatto i borghesi e gli usurai" (sermone inglese
del XIV sec. citato in Le Goff, op. cit., pag. 315).
li nascere di queste nuove classi (i 'laborantes' proprietari, i mercanti,
i borghesi) conducono alla trasformazione del concetto di tripartizione
della società e ad esso fa seguito quello di società degli
stati o delle professioni..
Il numero varia a seconda degli autori: dalle 10 (come i cori angelici)
riscontrate in uno scritto di Bertoldo di Ratisbona, alle 28 reperite
in una
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raccolta tedesca di prediche del 1220.
" Papa; Il Cardinali; 111 Patriarchi; IV Vescovi; V Prelati; VI
Monaci; VII Crociati; VIII Conversi; IX Monaci girovaghi; X Preti secolari;
XI Giuristi e Medici; XII Studenti; XIII Studenti erranti; XIV le Monache;
XV Imperatore; XVI Re; XVII i Principi e i Conti; XVIII i cavalieri;
XIX i Nobili; XX gli Scudieri; XXI i Borghesi; XXII i Mercanti; XXIII
i venditori al dettaglio; XXIV gli Araldi; XXV i contadini obbedienti;
XXVI i contadini ribelli; XXVII le donne e ... XXVIII i frati predicatori!
Di fatto è una duplice gerarchia parallela di chierici e di laici
condotti i primi dal Papa, i secondi dall'Imperatore" (op. cit.,
316).
Ora, mentre lo schema tripartito è sostituito dall'individuazione
di molte classi, varia anche lo schema delle sette arti liberali: vengono
infatti ravvicinate arti liberali e arti meccaniche, discipline intellettuali
e tecniche: la stessa 'mercatura' nei dì di fiéra e mercato
è rivalutata, purché non si commetta usura. Il mercante
diviene il prestatore insostituibile, anche se odiato, ma necessario
e utile.
Già all'inizio del XIII sec. nel suo manuale di confessione Tommaso
Cobham scrive: "Vi sarebbe una grande indigenza in molti paesi
se i mercanti non portassero ciò che abbonda in un luogo, in
un altro in cui?queste stesse cose mancano. Perciò, essi possono
a buon diritto ricevere il prezzo del loro lavoro" (citato in Le
Goff, Tempo della Chiesa, Tempo del mercante, op. cit., pag. 64). Ciò
che giustifica il mercante, è il suo lavoro, la sua utile attività,
rimane sempre condannato l'eventuale guadagno illecito. San Tommaso
così si esprime: "Se ci si dà al commercio in vista
della pubblica utilità, se si vuole che le cose necessarie all'esistenza
non manchino nel paese, il lucro, invece di essere considerato come
fine, è solo rivendicato come remunerazione del lavoro"
(ibidem).
Col tempo quindi, la Chiesa accettò questa evoluzione della società
e ritenne che qualunque mestiere, qualunque condizione può essere
giustificata se indirizzata al bene dell'anima.
Ma questi riconoscimenti esigevano una diversa sorveglianza, nuove regole
morali attinenti a ciascuna professione e, già dagli inizi del
sec. XII, diventarono numerosi i manoscritti che rilevavano i peccati
specifici e distintivi di ciascuna classe: sono le cosiddette 'figlie
del diavolo ' sposate alle diverse professioni. Uno di questi manoscritti,
(Fiorentino, Laurentiano Plut. 23?10) reca scritto : "Il diavolo
ha IX figlie che ha maritato:
la simonia ai................................chierici secolari
l'ipocrisia................................ ai monaci
la rapina................................ ai cavalieri
il sacrilegio................................ ai contadini
la simulazione................................ ai sergenti
la frode................................ ai mercanti
l'usura ai................................ borghesi
la pompa mondana................................ alle matrone
e la lussuria che non ha voluto maritare, ma offre a tutti come amante
comune" (in Le Goff, Civ. occ. M?E, pag. 317).
39
segue, da pag.39
a 57
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