Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°3 - 1980- Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigianae

Rapporti tra città, confraternite, consorterie e contado.

I rapporti tra città, consorterie di castello e contado sono piuttosto complessi.
La comunità rurale di Feletto, con le sue quattrocento anime, sparse nelle piccole valli dominate dalla Pieve di S. Pietro, era legata alla consorteria del castello di Conegliano e dal sec. XII ne seguirà le vicende 4inirà con essa sotto la zampa sicura e prestigiosa del leone veneziano di S. Marco fino all'epoca napoleonica, quando verrà eretta l'amministrazione indipendente e prenderà quindi consistenza il comune di S. Pietro di Feletto" (Don Nilo Faldon, op. cit., pag. 7?8).
In generale, la base economica medioevale degli abitanti del villaggio e della campagna è essenziale: mira al mantenimento della famiglia con l'allevamento brado, ad esempio del suino e della capra; con la raccolta del legname da lavorare o da ardere; "con la coltivazione agricola dei prodotti tipici e indispensabili al loro fabbisogno e al pagamento degli oneri dovuti al signore.
Come si vanno differenziando le classi nella città, così anche nel contado la comunità non è egualitaria (s'è visto il labórator); infatti alcuni capi famiglia più agiati fanno gli affari per conto di gruppi di persone, godono di prestigio e, probabilmente, concedono prestiti "sia prestiti individuali, sia per somme numerose ed elevate: multe, spese di giustizia, canoni" (Le Goff, Civ. Occ. M?E., op. cit., pag. 348).
In particolare, anche a Feletto, si attesta la comparsa di persone più ragguardevoli del semplice, povero e laborioso contadino, e che partecipavano alla vita del comune di Conegliano "Vicariano, Vacello, Manfredino da Feletto e Aldrigheto da Bagnolo" ed inoltre una pergamena del 1223 enumera Ae decime feudali che Vaccello, figlio di Vicariano da Feletto, doveva al vescovo di Ceneda, Alberto da Camino, discendente di quella rinomata famiglia che su queste terre aveva avuto ed esercitato, per qualche tempo, diritti di padronanza,> (Don Nilo Faldon, op. cit., pag. 7).
Si nota infatti una certa solidarietà, sia economica, sia morale, tra villaggi e comuni, quand'essi risultino vicini. "Queste 'viciniae' o 'vicinantiae' sono state il nucleo delle comunità dell'epoca feudale ... a cui si oppongono i fenomeni e le nozioni connesse con gli stranieri. Il bene viene dai vicini, il male dagli stranieri,, (Le Goff, Civ. Occ. M?E., op. cit., pag. 348).
Spesso però risulta che le nuove città, o i comuni, o la consorteria del castello vicino, continuano ad essere di sfruttamento per il contado; si comportano in guisa dell'antico signore feudale. Acquistano a basso prezzo i prodotti dell'agricoltura, dell'artigianato; s'approvvigionano, commerciano ed impongono alla povera comunità rurale le proprie merci, soprattutto il sale di cui solo essi sono gli intermediari, tanto che, (s'è visto anche quando s'è parlato del Barbarossa) diventerà una vera e propria gabella: "il sale ... diventerà una vera tassa, poiché obbliga i contadini a comprarlo in quantità determinata, a prezzo fisso" (op. cit., pag. 354).
C'era inoltre il 'hanno', "bando, proclama del signore feudale" (Devoto, op. cit., pag. 42) ed era un potere che poteva essere militare e costringere vassalli e contadini al servizio nell'esercito (eribanno), poteva esser giudiziario

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o economico, o legato ad esempio al mulino, al forno, alla taverna, dove la gente della campagna era obbligata a portar la farina, acquistare il pane e a consumare. "Le signorie collettive hanno potere 'banale': le città, per esempio, esercitano questo potere nel circondario ('banleuca', da cui il francese 'banlieu', periferia, dintorni della città, contado), " (Le Goff, Civ. occ. M-E., pag. 354). Da molti storici la signoria dei sec. XI e XII fu chiamata 'banale' e, per l'etimologia italiana del termine attuale, il Devoto fornisce la spiegazione che segue: "dal francese 'banal', che appartiene ad una circoscrizione feudale, cioè 'a tutti'; questo dal franco 'ban'" (ibidem, op. cit., pag. 41). Ad esso si connette anche il verbo italiano 'abbandonare' " dal francese 'à ban donner', mettere a disposizione di chicchessia" (ibidem, op. cit., pag. 1).
Benché questo potere fosse antico, risalente ai re carolingi, perdurò nei secoli successivi, utilizzato a profitto dei 'domini castellani' che esercitavano vari poteri pubblici e privati. Vi è dunque un certo parallelismo tra sviluppo ed evoluzione urbana e quelli del contado, ma vi sono anche resistenze e relazioni complesse tra le due comunità. Malgrado i miglioramenti della propria sorte, ottenuti anche dai contadini, dal XII sec. in poi, alcuni signori "non riconoscono loro neppure alla fine del sec. XIII ... altra proprietà all'infuori della loro persona, completamente nuda,> (Le Goff, Civ. Oce. M-E, pag. 357). La società medioevale è caratterizzata, tra l'altro, anche da fame e miseria: l'impoverimento si accentuerà soprattutto per la gente dei campi. Influisce la crescita demografica che non conosce un'adeguata estensione delle superfici coltivate, né un miglioramento degli utensili: di conseguenza non v'è aumento di produzione.
Per di più gli appezzamenti di terreni coltivati si vanno frazionando, col risultato che i piccoli proprietari dovettero mettersi al servizio di contadini più agiati, oppure indebitarsi con l'usuraio, o col mercante (o con l'ebreo, da tempo considerato mercante-usuraio) o con l'oste della taverna banale. Gli agricoltori vendevano in anticipo, dietro prestito con pegno, la raccolta dell'annata, che poi era piazzata dal mercante in altro luogo. Molti di essi, ad esempio, "contrattava prestiti in autunno, al momento dei matrimoni e del pagamento dei censi al signore e s'impegnava a rimborsare in agosto e in settembre, dopo la mietitura e la vendemmia"
, (Le Goff, op. cit., pag. 305).
Così, come la schiavitù, anche la fame, conseguenza e castigo del peccato originale, si concentrava soprattutto nelle classi minori: ma fame e lavoro erano state concepite nell'alto Medio Evo come meritate punizioni e riscatto di ogni uomo. "Dopo la caduta (l'uomo) non poté riscattarsi altro che con il lavoro. Dio gli impose dunque la fame, perchè lavorasse sotto la costrizione di questa necessità e potesse così ritornare alle cose eterne" (Le Goff cita l'Elucidarium, op. cit., pag. 289).
Invece, il concetto negativo perdura nei confronti dei lavori servili del contadino, disprezzati dai signori; ciò è ribadito più volte dai testi e tale ostilità si estende alla figura morale del lavoratore dei campi.
Da 'villano' "'appartenente alla villa (rustica)'~, (Devoto, Avv. Et. It., op. cit., pag. 457), l'epoca feudale ha derivato 'villania', quale bassezza morale, atto disdicevole, scherzo pesante o licenzioso.

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Al contadino è una bestia selvaggia: i testi lo ripetono a sazietà" (Le Goff, Civ. Occ. M-E., pag. 357).
Eppure non mancano esempi letterari medioevali in cui il coltivatore rivesta i ruoli del personaggio astuto, sempliciotto o deforme ma non ottuso, in episodi sapidi e piacevoli dove la connotazione negativa è attenuata, non solo da facile ironia, ma talora da arguta riflessione dell'autore.
Il contado, piuttosto diffidente nei confronti del signore, oppone resistenza passiva, come quando si cercò di introdurre il cavallo nei lavori agresti, perché più veloce, e i contadini, preferendo il bove, rallentarono il ritmo dell'aratura compiuta dai cavalli del signore.
Oppure oppongono la sorda guerriglia come quella "del furto nei campi del signore, del bracconaggio nelle sue foreste, dell'incendio dei raccolti", (ibidem, pag. 357).
Per questo allora c'è distinzione, nelle classi precedentemente citate, tra "contadini obbedienti" e "disobbedienti".

Il concetto di 'tempo' in uso allora e il 'tempo' da dedicarsi a Dio

li concetto di 'tempo' proprio del medioevo è particolarmente interessante: per la sua tripartizione; per il potere che conferisce alla classe che lo sa 1eggere', dominare ed assegnare al lavoro delle varie classi; per le diatribe che ne conseguiranno nei sec. XIII e XIV, quando gli strati sociali assumeranno maggior importanza.
Il tempo agricolo è organizzato secondo il giorno, la notte, le stagioni.
La produzione artistica di quell'epoca è copiosa di figurazioni plastiche e pittoriche dei cicli dei mesi o delle stagioni.
Inoltre, questa dipendenza dal tempo rurale di tutta una mentalità, si manifesta anche nei cronisti che annotano soprattutto gli avvenimenti straordinari: epidemie, intemperie, carestie.
Questo concetto di tempo finiva anche per condizionare altre classi sociali, quali gli artigiani e i commercianti: vi erano ritmi diversi rispetto alle stagioni di alcune attività, ad esempio, i muratori, già alla fine del sec. XIII, riscuotevano salari regolati a seconda della 'bella' o 'morta' stagione.
Il tempo, per di più, è inteso come durata: il giorno e la notte sono visti come momenti di attività e di riposo.
La notte è minacciosa per un mondo in cui la luce artificiale è procurata da ceri o semplici candele (progredirà solo coll' uso del vetro dal sec. XIII, ma sarà in possesso dei pochi che possono permetterselo); quest'illuminazione è pericolosa, perché causa di incendi, in una società che adopera per le costruzioni soprattutto il legno. La notte è tempo delle insidie, dei pericoli anche soprannaturali, come la tentazione, i diavoli, i fantasmi ed ogni buon
In primo luogo, il 'tempo' è soprattutto tempo rurale: la terra è essenziale; dei suoi prodotti vive tutta la società (poveramente o riccamente) legata quindi ai cicli della natura. t il tempo perciò di chi si dedica all'agricoltura intriso di fatiche, di paziente attesa delle scadenze naturali, ma anche delle scoraggiante ricominciare dopo le intemperie. (C'è chi trae da ciò interpretazioni o giustificazioni di lentezza o di immobilismo, propri di questa classe, quanto ai cambiamenti sociali).

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cittadino sbarra la sua porta e non esce. La veglia, la preghiera notturna è propria dei mistici che intercedono per quanti, nella notte, agiscono male o sono in pericolo.
Che Gesù Cristo sia nato di notte significa, allora, che Egli giunse a portare la "luce" a quanti vagano "nella notte dell'errore" (Le Goff cita l'Elucidarium in op. cit., pag. 221).
Si può quindi asserire che, in tutte le opposizioni che la natura presenta, quest'epoca veda una sorta di dualismo manicheista: la luce contrasta il buio; il personaggio 'bello come il giorno' appare, quale salvezza, nella foresta o ,selva oscura'; la calura s'oppone al rigore del freddo; i 'maggi' son manifestazione di gioia procurata dalla fine del noioso inverno; così l'attività combatte l'ozio; sono contrapposizioni simili a quelle tra vita e morte, bene e male. A proposito del giorno e della notte, la più accusata tra le professioni è quella del mercante, ritenuto responsabile di acquistare e vendere il 'tempo altrui'.
"L'usuraio agisce contro la legge naturale universale, perché egli vende il tempo, che è comune a tutte le creature. Agostino dice che ogni creatura è obbligata a far dono di sè: il sole è obbligato a far dono di sè per illuminare; lo stesso la terra è obbligata a far dono di tutto ciò che può produrre e lo stesso l'acqua. Ma niente fa dono di sé in maniera più conforme alla natura del tempo: volente o nolente, le cose hanno il tempo. Poiché dunque l'usuraio vende ciò che appartiene necessariamente a tutte le creature in generale, ( ... ) è una delle ragioni per le quali la Chiesa perseguita gli usurai. Donde risulta che è specialmente contro di loro che Dio dice: 'quando riprenderò il tempo, cioè quando il tempo sarà in mia mano in modo tale che un usuraio non potrà venderlo, allora giudicherò conformemente alla giustizia" (nota di Le Goff in Tempo della Chiesa, Tempo del Mercante, op. cit., pag. 3-4: in essa si attesta esser queste le espressioni di Guillaume D'Auxerre (1160 - 1229) in Summa aurea, 111 21 g. 225 v., che furono riprese da Papa Innocenzo IV). Tale concetto fu sviluppato in seguito dal domenicano Stefano di Bourbon in cui si leggono chiari riferimenti alla notte ed al giorno, quali tempi di riposo e di attività: "Siccome gli usurai non vendono che la speranza di denaro, cioè il tempo, essi vendono il giorno e la notte. Ma il giorno è il tempo della luce, e la notte il tempo del riposo; vendono dunque la luce e il riposo. Perciò non sarebbe giusto che godessero della luce e dei riposo eterni" (ibidem).
Costoro, spesso confusi e accumunati ai mercanti, sono accusati di vendere il tempo altrui, perché tra l'altro, accumulano riserve in previsione di carestie, comprano nei momenti favorevoli, si tengono informati sull'economia dei vari comuni tramite i corrieri (ciò può avvenire anche di notte), tengono perciò conto dell"interesse',del guadagno oltre il 'necessario' (Iucri causa').
"A questo tempo si oppone il tempo della Chiesa, che appartiene solo a Dio e non può essere oggetto di lucro" (op. cit., pag. 5).
Più tardi, dopo alterne vicende, la professione di mercante sarà parzialmente riabilitata, quando l'economia dell'occidente medioevale non avrà per scopo la sola sussistenza e l'immobilismo della comunità tripartita sarà infranto.

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Sono feste, comunque, in cui si lavora. [Vi è tra l'altro, e forse è solo una coincidenza suggestiva, visto i secoli che vi si frappongono, la consuetudine, fra i nostri coltivatori, di non sfrattare un fittavolo (o mezzadro) se non a vendemmia conclusa, - circa S. Martino quindi - e tale data, - San Martin", viene espressamente richiamata all'attenzione di chi intenda cedere il podere ad altri o di colui che, acquistandolo, intenda procedere a diverso utilizzo].
Ma il tempo del medioevo è soprattutto tempo religioso (se ne è parlato diffusamente): l'anno solare è anche anno liturgico.
Le grandi feste ecclesiastiche, che ricordano il dramma della vita di Cristo e di Maria, si fissano nella memoria di tutto il popolo, non solo per le cerimonie speciali o per gli spettacoli che le accompagnano, ma perché son spesso anche date di scadenza nella loro vita economica: o per i censi, o per il riposo di artigiani, operai e braccianti.
"Tempo clericale perché il clero è per la sua cultura il padrone della misura dei tempo. Soltanto lui ha bisogno per la liturgia di misurare il tempo, soltanto lui è capace, per lo meno approssimativamente, di farlo. Il computo ecclesiastico, e prima di tutto il calcolo della data di Pasqua ( ... ) sono alla base dei primi progressi di misura del tempo" (op. cit., pag 228).
Tempo clericale, signorile e rurale finiscono però per Interagire, sovrapponendosi: l'estate e una parte dell'autunno, per esempio, restano sgombri da grandi feste (ad eccezione dell'Assunzione della Santa Vergine e forse proprio per non ostacolare il tempo naturale-rurale dei raccolti, dell'unità di tempo di lavoro però, almeno fino al sec. XIV e nelle stessa città, resterà la giornata, concepita come quella rurale, cioè dal sorgere de sole, al suo tramonto.
È un programma di economia regolato da ritmi naturali, teso solo produrre il necessario all'esistenza per un popolo poco esigente, anche perché "cercare di procurarsi più del necessario è peccato, è la forma economIC2 (una delle più gravi) della superbia" (Le Goff, Civ. Occ. M-E., op. cit., pag 271).
All'interno del concetto di tempo naturale-agricolo, o meglio insieme a( esso, convivono altre dimensioni con scadenze stabilite: quella del signor e quella della Chiesa.
Il tempo del signore è soprattutto il momento dei censi, della riscossioni delle tasse, delle decime, in natura o in denaro, e spesso tali date coincidono( con grandi feste che si fisseranno nella memoria del popolo rurale, gli scandiranno il tempo delle gabelle, del prestito o della vendita 'sulla parola nel corso dell'anno ...
Queste feste, per così dire 'civili', variano da regione a regione, da domini( a dominio, ma fra tante vi è una data in comune: il termine dell'estate, i momento del raccolto su cui il signore opera il prelievo che gli si deve, ii natura. "La grande data dei 'termine' è S. Michele (29 settembre), talvolta; sostituita da S. Martino (11 novembre)" (Le Goff, Civ. Occ. M-E., pag 223).

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calendario agricolo. Interessante inoltre, a tale proposito, è seguire le vicissitudini della data di 'Ognissanti'.
Questa festa, introdotta nell'occidente da Papa Bonifacio IV, nel sec. VII, su esempio della Siria, si festeggiava il 13 maggio, fino alla fine del sec. vili.
Fu quindi trasferita al I' di novembre, perché "il Papa ritenne che fosse meglio celebrare la festa in un momento dell'anno in cui, essendo fatte le vendemmie e le mietiture, i pellegrini potevano più facilmente trovare da nutrirsi" (Le Goff, Civ. Occ. M-E., pag. 229 cita Jacopo da Varagine e la Legenda aurea).
E le campane, suonate, non solo per annunciar la festa, ma anche per gli uffizi ecclesiastici di monaci e sacerdoti, eran punti di riferimento della giornata a cui guardava tutta una popolazione, compresa quella urbana.
Anche qui interverranno alcuni spostamenti, ad esempio quello dell'ora 'nona'.
Nel sec. X era suonata verso le quattordici; lentamente s'anticipa sino a coincidere intorno al nostro mezzodì, nel sec. XIII, ed è probabile l'interpretazione che vede in questo, non tanto la pausa per una giornata lavorativa iniziata all'alba, quanto "un'importante suddivisione del tempo del lavoro: la mezza giornata, che d'altronde si affermerà nel sec. XIV" (op. cit., pag. 27).
In questo secolo infatti, per regolare la giornata lavorativa delle arti o dei mestieri, appariranno nuove e diverse campane: quelle delle torri cittadine.
Il povero contado, invece, resterà legato al tempo indicato dal rintocco dei campanili delle chiesette più vicine, a tal punto che l'universitario Giovanni di Garlandia, all'inizio dei sec. XIII dava, del termine 'campana', un'etimologia piuttosto estrosa o cervellotica, ma indicativa e rivelatrice della mentalità di quel tempo: "Campanae dicuntur a rusticis qui habitant in campo, qui nesciunt judicare horas nisi per campanas" (Le Goff la cita sia in Civ. occ. M-E., pag. 228, sia in Tempo del mercante, tempo della Chiesa, pag. 26).
L'etimologia moderna, invece, attesta la derivazione dal latino dei "'(vasa) campana' dalla regione dove sono state costruite per prime" (Devoto, op. cit., pag. 63).
I loro rintocchi annunciavano anche la 'vigilia' dei giorni di festa e segnavano la conclusione delle attività lavorative che recavano oltraggio al Signore.

Quali erano i mestieri proibiti?
É piuttosto arduo non solo enumerarli tutti, ma anche seguire l'evoluzione che, variante da luogo a luogo, si presenta legata al tipo di società che vi si incontra, per cui il concetto di 'negotia illecita' o 'turpia' assume sfumature giuridiche diverse, quali: 'inhonesta mercimonia', 'artes indecorae', 'vilia officia' ed altri. (Le Goff, Tempo della Chiesa, tempo del mercante, op. cit., pag. 54).
Per poter formulare una risposta verosimile a tale domanda, che introduce al commento dell'effige presa in esame, riteniamo utile esporre alcune considerazioni o ulteriori osservazioni rinvenute e raccolte nel corso dell'analisi.

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1) I mestieri illeciti coincidono spesso con le attività proibite ai chierici e che poi, per traslato, furono oggetto di disprezzo.
D'altra parte, vista la mentalità essenzialmente religiosa del nostro medioevo, proibire una certa attività ai rappresentanti della Chiesa non equivale, certo, a conferirle prestigio. "t chiaro che proibire una professione a un chierico in una società religiosa e clericale, come quella dell'occidente medioevale, non è una raccomandazione per questa professione, ma le vale al contrario un discredito che ricade sul laici che l'esercitano. Chirurghi e notai l'hanno, tra l'altri, provato" (op. cit., pag. 54).

2) I lavori manuali sono disprezzati dai signori feudali, eredi degli invasori germanici e della loro mentalità guerriera che non teneva in nessun conto l'attività dei laborantes: questo loro atteggiamento si protrasse a lungo nei secoli.

3) In seguito, quando la società tripartita cedette il posto a numerose classi costituite da nuove professioni, anche l'economia della sussistenza subì un'evoluzione.
Già, nell'alto medioevo, per gli strati superiori, la sussistenza era intesa "come soddisfazione dei bisogni più grandi, dovendo loro permettere di mantenere il proprio rango, senza decadere" (Le Goff, Civ. Occ. del M-E., pag. 270).
Poi ogni mestiere diventa degno di un ruolo materiale e di un valore spirituale, quando risponda alla 'necessitas vivendi', non alla 'lucri causa' e miri soprattutto al servizio del prossimo, all'utilità comune.
"Nessun mestiere pone ostacoli alla salvezza dell'anima, ciascuno ha la sua vocazione cristiana, ciascuno raggiunge quella 'familia Christi' che raggruppa tutti i buoni lavoratori" (Le Goff, Tempo della Chiesa, tempo del Mercante, pag. 66, in seguito alle affermazioni di Tommaso di Cobharn e S. Tommaso d'Aquino a proposito del ricupero del 'mercante').
Ma la mentalità attinente il disprezzo di alcuni mestieri perdura e converge soprattutto sugli strati inferiori: a tutti la Chiesa indistintamente ricorda i loro 'peccati' precipui; a quelli inferiori la nuova società nega le funzioni municipali (cfr. arti maggiori e minori a Firenze). Per di più gli intellettuali, gli studiosi s'affrettano a ben chiarire la loro posizione ed a schierarsi con le arti 'liberali' di un tempo. "Io non sono lavoratore del braccio" (Le Goff, idern pag. 70. La frase è di Rutebeuf).

4) Di conseguenza le categorie di mestieri, hanno sì una realtà sociale ed economica, ma nella loro gerarchia sono condizionate da una mentalità piuttosto diffidente e tarda nell'accogliere mutamenti, anzi resistente alle evoluzioni. D'altra parte è sempre esistita questa dicotomia tra le situazioni concrete delle società e le immagini mentali (o sicurezze psicologiche) precedenti.

"Senza dubbio la mentalità è ciò che cambia più lentamente nelle società

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e nelle civiltà, ma è comunque forzata a seguire - nonostante le sue resistenze, i suoi ritardi, le sue differenze - ad adattarsi alle trasformazioni delle infrastrutture" (op. cit., pag. 53).

5) Il termine 'necessitas' presenta alterne connotazioni, testimonianze certe di una radicale evoluzione della società.
Da un lato è usato per sottolineare il tenore di vita economica attinente soprattutto le masse, e cioè il provvedere alla sussistenza fisica, nel senso stretto della parola: nutrimento in primo luogo, vestito e alloggio, poi; dall'altro lato si presenta, già dal sec. XII, come eccezione a certe regole religiose o morali.
La deroga più diffusa, nelle raccolte dei libri dei confessori è la 'necessità' che assolve il sacerdote dall'obbligo di rispettare il riposo festivo e gli permette, qualora sia indigente, di esercitare anche alcuni mestieri: , "il prete, a cui numerosi mestieri sono vietati, sarà talvolta autorizzato a lavorare per la propria sussistenza" (Le Goff, Civ. Oce. M-E., pag. 270).
Tollerato sarà anche quel contadino che "una domenica, mette al riparo il suo raccolto di fronte alla minaccia della pioggia" (Le Goff, Tempo della Chiesa, tempo del Mercante, pag. 61).
Più curioso invece, è il fatto che siano scusati, per 'necessità', ... i ladri: ciò avviene agli inizi del sec. XIII, non ha attinenza ai soli dì di festa, ma è segno di un certo cambiamento della mentalità. "Non commetterà né furto, né peccato se agisce a causa della necessità" (Le Goff, idem pag. 271, cita diffusamente il cronista Raimondo de Pefiafort, autore di una Summa). In seguito, le scuse, congiunte alla seconda interpretazione di 'necessitas', sono numerose e con sfumature diverse, riferite alle 'buone' intenzioni, come, ad esempio, quanto concerne lo svago delle fiere paesane, dei fabbricanti o venditori di giocattoli, rimedi contro la tristezza, la consuetudine di una vita monotona e di pensieri malinconici: "ad recreationem vel rimedium tristitiae vel noxiarum cogitationum" (Le Goff, Tempo della Chiesa, Tempo del Mercante, pag. 61).
Così anche il mercante diventa utile e necessario.

6) Ciascuno però deve ricordarsi del bene dell'anima "cosa che è ancora più necessaria" (Le Goff cita, in Civ. Occ. M-E., pag. 271, il carolingio Teodolfo ed asserisce che tale ideale "resta valido per tutto il medioevo").
Il lavoro, che risulta essere utile e necessario, è importante per l'anima, perché evita di cadere nell'ozio, la porta di tutti i vizi, di tutti i peccati capitali e quindi di tutte le tentazioni del Diavolo; permette di fare penitenza, di soffrire, di umiliare il corpo.
Il concetto di mortificazione della carne è onnipresente nel contesto medioevale e trova radici profonde nella tradizione cristiana "L'anima nella mortificazione si fa più perfetta" (AA.VV., Storia delle Religioni, op. cit., pag. 542).
Inoltre, mentre il cristianesimo nascente tendeva a metter sotto accusa ogni attività secolare ('negotium'), e a privilegiare Totiurn' latino che concedeva il tempo di riflettere ... <un ozio che è fiducia nella Provvidenza" (Le Goff, Tempo della Chiesa, Tempo del Mercante, pag. 58), il medioevo

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condannava ogni forma di ozio inteso come vagabondaggio, indolenza, pigrizia, cioè come peccato capitale. Il lavoro, d'altra parte, deve essere utile al prossimo.
"Il lavoro ha quattro scopi. Prima di tutto e soprattutto deve fornire da vivere; in secondo luogo deve far sparire l'ozio, fonte di numerosi mali; terzo, deve frenare la concupiscenza, quarto permette di fare le elemosine" (Le Goff, Civ. occ. M-E., pag. 270 così traduce e presenta il pensiero di S. Tommaso della Summa Theologiae che precedentemente s'è citata in latino con diversa interpretazione)
In conclusione le notizie quanto ai mestieri illeciti nel 'dies dorninica' presentano un quadro che non è statico, ma in evoluzione; spesso alcune attività oscillano tra un recupero di prestigio (e non son proibite) o un regresso, come ad esempio quella dei Taber'.
In linea di massima possiamo dire allora che sono interdette: le 'opera servilia' e manuali non concesse ai chierici; le mansioni che possono incorrere nei peccati capitali e non mortificano il corpo; le attività disprezzate dalle 'arti maggiori' dell'epoca, in quel determinato contesto sociale, variante, cioè, da luogo a luogo.

La raffigurazione del 'Cristo della Domenica' di S. Pietro di Feletto risulta esser piuttosto rara: due esempi consimili si trovano nell'Italia del Nord e due, lungo il corso del Reno (attestato in Don Nilo Faldon, op. cit., pag. 31).
Vi si notano molti arnesi, simboli e stilizzazioni delle attività interdette (non tutti di facile interpretazione o riconoscimento, anche per l'usura del tempo) che non elencheremo, ma raggrupperemo procedendo nell'esposizione. Seguiremo le interessanti osservazioni che Le Goff (nel cap. Mestieri leciti e mestieri illeciti in Tempo della Chiesa, tempo del Mercante, op. cit., pag. 55-56), quale antropologo e storico, fa a proposito delle attività proibite nel giorno festivo, interpretandole come eredità ataviche, reminiscenze di 'tabù' delle società primitive.
Tabù del sangue, innanzi tutto, che colpisce: i macellai (il coltello in alto a sinistra e le cesoie) ed anche i chirurghi o i barbieri, che praticano ì salassi; i soldati (la balestra in basso a sinistra) ed anche l'andar a caccia (arco in centro a sinistra).
Tabù dell'impurità e della sporcizia che interessa i tintori, i tessitori (fuso in centro a destra), i cuochi (spiedo, pennuti legati a capo in giù, teglia: gruppo al centro a sinistra).
Tabù, soprattutto, del denaro (la mano che conta otto monete in alto a sinistra).
Maneggiar denaro è proibito, perchè vi sono professioni il cui esercizio non è possibile senza peccare ed un manoscritto del XIII secolo ne elenca quattro: "la contabilità 'cura rei familiaris', il commercio 'mercatio', il mestiere del procuratore Iprocuratio' e quello dell'amministratore 'administratio'" (op. cit., pag. 56)
Accanto a questi tabù la Chiesa aggiunge, s'è visto, tutte le opere servili, interciuse ai chierici, guardate sfavorevolmente anche dai signori, quali i

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mestieri agricoli (arnesi del contado in basso a destra, nonché l'aratro a ruote e i buoi in alto a sinistra); inoltre sono condannate tutte quelle attività passibili di incorrere nel peccati capitali.
La lussuria è motivo di condanna di molte professioni. Tra di esse quella dei locandieri. La taverna è luogo sospetto perché vi si vendono la voluttà del vino e del gioco (la brocca, la botte e i tre dadi in centro a destra).
"Il curato ... tuona contro questo centro di vizio dove il gioco d'azzardo e l'ubriachezza prendono libero sfogo e che fa la concorrenza alle riunioni parrocchiali, alle pratiche, alle funzioni religiose" (Le Goff, Civ. Occ. M-E., pag. 371)
La taverna non riunisce solo gli uomini del villaggio, anche viandanti, forestieri, diviene talora banco di prestito, forse nella figura dell'oste; è il luogo in cui giungono le notizie, si intrecciano le conversazioni, nascono miti e leggende.
Meglio sian chiuse nelle festività.
La condanna della lussuria colpisce anche le operaie tessili (il fuso e la conocchia in basso a destra) perchè, sembra, fossero considerate di facili costumi: per lo stesso motivo anche il mulino è visto quale luogo di perdizione, perché, nel 'far la coda' ad aspettare la farina, si stringono dubbie amicizie (in basso a sinistra v'è un portatore con cesto, forse di pani). A tale proposito si ricorda, nel sec. XII, che "San Bernardo incita i monaci a distruggere questi focolai del vizio" (ibidem).
È poi messa all'indice l'avarizia, la cupidigia di denaro e si riferisce ai mercanti, al notai, ai giudici e agli avvocati (calamo con stilo in alto a sinistra).
Condannare poi la gola, significa penalizzare ancora il cuoco, ma la massa contadina dell'epoca si doveva accontentare di pasti molto frugali: comparve tuttavia, nel sec. XII e XIII, il 'companagium', il companatico, ancora molto povero, ma che si estese a tutte le classi sociali. La critica al lusso della 'buona cucina' e quindi al vizio della gola è rivolta soprattutto ai signori, ma la si ricorda anche ai meno abbienti.
È bandita inoltre la vanità che scredita il barbiere, il profumiere (forse: i bagni pubblici, le 'stufe) (gruppo in alto a destra: specchio, boccetta di profumo, pettine, tonsore e pennello da barba). Ma soprattutto quella donna che s'attardi allo specchio, peccando inoltre di pigrizia, s'agghindi' e si profumi quasi per attirare con false lusinghe, per ostentar bellezza che non possiede... Potrebbe esser questo anche peccato di superbia. Il gruppo infatti è posto vicino agli arnesi di lavoro dei fabbro (incudine, martello, tenaglie, in alto a destra) e questo artigiano era aureolato da singolare prestigio, considerato quasi come uno stregone e forse punito sia per il suo lavoro manuale, sia per il suo vano orgoglio. Coi tempo, infatti, tale mestiere si differenzia in armaiolo, orefice, semplice fabbro- ferralo, maniscalco ... (ferro da cavallo in alto a sinistra) e queste ultime attività, arti minori, sono screditate nel secolo XIV (cfr. Le Goff, Tempo della Chiesa, tempo del Mercante, pag. 55).
Tale secolo inoltre disprezza anche i mestieri del carpentiere (la ruota al centro a destra) e del conciatore (le scarpe verso il centro a sinistra); i calzaioli eran presenti anche nelle liste di proscrizione del sec. XIII e col

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legati all'attività del boia e del macellaio (cfr. note ibidem).

La rassegna può dirsi ultimata, restano comunque alcune curiosità.
La bugia

Il lavoro di notte era costantemente proibito nell'alto Medio Evo e non solo la 'vigilia' del dì di festa. 1 motivi erano molteplici: attinevano il tempo, inteso come durata naturale, e la prevenzione degli incendi in una società che edificava soprattutto in legno. A questi si aggiungono, in seguito, altri significati, come la difesa corporativa della precisione degli oggetti prodotti: infatti le associazioni dei mestieri combattono la frode, la cattiva fabbricazione, la contraffazione ed appongono, sotto ogni loro produzione, l'etichetta del 'giusto prezzo' per non incorrere nell'usura.
"Uinterdizione del lavoro notturno, per esempio, protegge in definitiva i mestieri, lotta contro i difetti di fabbricazione." (Le Goff, Tempo della Chiesa, Tempo del Mercante, pag. 61).
A partire dal sec. XIII, questo 'tempo' di lavoro è messo in discussione: gli 'operai' stessi chiedono più ore (di lavoro) e quindi, per conseguire un miglior salario, l'allungamento della giornata. Cosicchè nel sec. XIV, in Francia "vediamo Filippo il Bello autorizzare il lavoro notturno, e la sua ordinanza è ricordata e confermata da Gilles Haguin, prevosto di Parigi, il 19 gennaio 1322." (idem pag. 28).
Ma nascono rivendicazioni contrarie: coloro che son preposti alle arti, alle consorterie dei mestieri, nei momenti di crisi suppongono all'allungamento della giornata di lavoro, per salvaguardare l'economia di mercato e piazzare un prodotto esente da imperfezioni; si moltiplicano così le 'campane' civili delle torri urbane che regoleranno il lavoro degli artigiani e segneranno, la sera, la conclusione delle attività (in op. cit., pag. 26, sec. XV).
Può darsi allora che i contrasti sulle disposizioni, quanto al lavoro notturno, siano state mutate, in tempi e luoghi diversi, con diverse accezioni.
Dapprima fu proibito sempre, come peccato di 'superbia' economica, poi, nel sec. XIV, considerato come "una specie di eresia urbana, in generale sanzionata da proibizioni e ammende" (op. cit., pag. 27).
In seguito, lo spostarsi dell'ora 'nona' e il rispetto della vigilia della festa per alcuni operai e braccianti, portano Le Goff ad ipotizzare la nascita del concetto di 'mezza giornata' (ibidem, op. cit., pag. 27).
Si ricorderà inoltre l'ordine arcivescovile di Udine del 21 aprile 1499 (citato nella prima parte) in cui si precisa invece una restrizione e cioè che l'Ave Maria del mezzodì sia pur suonata, la vigilia del giorno festivo, ma ciò non debba più significare abbandono dell'attività nel pomeriggio. bensì al calar del sole.
Ciò allora attesterebbe che, anche nelle nostre zone, era invalsa la consuetudine di lavorare, ad esempio il sabato, per metà giornata, e che ciò fosse poi ratificato quale 'abusum et damnabilem morem', per consentire altre ore di lavoro, ma sino alla sera. Resterà allora proibito lavorar la notte della vigilia.

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Contar denaro

Il 'tabù' del denaro, proprio nel medioevo, è già noto. La mano, ben visibile nell'effigie, è riprodotta nell'atto di far scivolare tra pollice ed indice otto denari.
Consapevoli del fatto che quell'epoca è particolarmente legata al simbolismo, ci siamo chiesti se ciò fosse un caso fortuito, una pura coincidenza oppure celasse allegoricamente un significato. Il simbolo, presso i greci (símbolon) era un segno di riconoscimento rappresentato dalle due metà d un oggetto diviso tra due persone. Era un contratto, un riferimento all'unità perduta e richiamava quindi un'unità superiore e nascosta, una 'ierofania'.
Ora il pensiero medioevale considerava "cigni oggetto materiale come la figurazione di qualcosa che gli corrispondeva su un piano p elevato e che diventava così simbolo" (Le Goff, Civ. Occ. M-E., pag. 38 89).
Gli esempi sono innumerevoli: simbolismo della parola e del linguaggio, fatto di allegorie, metafore, senso figurato; della natura, dai minerali ai vegetali, agli animati; dei numeri presenti e finee direttrici in architettura musica e 'scientia', in senso lato e come misura delle proporzioni. Intere santi si dimostrano gli studi dei medioevali sulla simbologia dei numeri sul loro diverso significato. "In un trattato, edito nella Patrologia latin dei Migne, Ugo da San Vittore esponendo i dati numerici simbolici secondo le Scritture, spiega il significato delle ineguaglianze fra i numeri." (Le Gol op. cit., pag. 396).
Il 7<6 è il riposo dopo il lavoro; l'8<7 è l'eternità dopo la vita terrei (cfr. l'ottagono dei tiburi delle chiese romaniche e gotiche); il 10 è la perfezione; 9>10 è la mancanza di perfezione e 1'11<10 rappresenta lo smisurato.
Esiste inoltre una simbologia che si riferisce alle dita: pollice ed indi incrociati significano matrimonio; pollice inclinato con indice che lo sovrasta rappresentano la vedovanza; il pollice, in generale, raffigura Dio l'indice la ragione dimostrativa (cfr. ibidem).
Alcune di queste simbologie si confanno al nostro caso: il pollice l'indice del dipinto son separati da otto monete. Sarebbe suggestivo pot ipotizzare che maneggiar soldi la domenica significhi perdere la felicità i traterrena (8) in quanto essi separano Dio dalla ragione, dalla mente di l'uomo.
Qualcosa senz'altro è sottinteso nella figurazione, in quanto la sua funzione è prettamente didascalica e anche allegorica, comunque riteniamo e tale ipotesi sia, almeno per il momento, piuttosto vaga o addirittura azz2 data. Ciò nonostante l'abbiamo riferita a titolo di curiosità.
C'è invece certamente un nesso logico tra le posizioni occupate dai v, simboli.
Ora, se è abbastanza facile riconoscere i gruppi delle attività servili, il] strati dagli arnesi che rappresentano il lavoro dei campi e piuttosto vie tra loro, problematica risulta la posizione della mano col denaro. È circondata infatti dalla bugia, dal coltello del macellaio o del chirurgo (spesso queste due attività si trovano appaiate nelle citazioni medioevali) e dalcalamo con stilo, forse di giudice o notaio.

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Potrebbe allora risultar avvalorata l'interpretazione che l'insieme delle rappresentazioni riguardi la speculazione, l'usura di macellai, chirurghi, notai e il guadagno illecito di quanti lavoran di notte.
Ciò sarebbe attinente con quei mestieri sovente tacciati di 'superbia' economica.

L'aratro a ruote e gli utensili: legno e ferro

Il medioevo occidentale è il mondo del legno come materiale di qualsiasi tipo di costruzione e, soprattutto, usato per gli arnesi da lavoro; inoltre questo prodotto è "uno dei principali materiali da esportazione" (Le Goff, Civ. Occ. del M-E., pag. 25 1).
Il ferro invece, è talmente raro che diviene oggetto, nell'agiografia (dei Santi), di miracoli. Per di più, San Benedetto "nella Regula monachorum consacra un intero articolo, il XXVII, alla cura che i monaci devono avere delle 'ferramenta', l'attrezzatura di ferro posseduta dal monastero" (idem, pag. 252).
L'attrezzatura agricola è soprattutto lignea; il fabbro, nell'alto medioevo, è un personaggio straordinario. Forse per questo S. Giuseppe, nella nostra tradizione non è più un fabbro ferraio, come prima, ma un semplice falegname. "Dobbiamo ritrovare questo senso medioevale del materiale nell'evoluzione dei personaggio di S. Giuseppe nel quale l'alto medioevo tendeva a vedere un Taber ferraius' e che divenne poi l'incarnazione della condizione umana medioevale del legno: un carpentiere?" (op. cit., pag. 255). Gran parte degli attrezzi di ferro servono per il lavoro del legno, come marre, scuri, succhielli, roncole, ma, in questo periodo, sono di poca efficacia.
Nella tradizione ebraica il legno è bene, il ferro è male ... non deve essere adoperato da solo, ma "deve essere unito al legno che gli toglie la parte nociva" (ibidem).
L'aratro, nel primo medioevo era in legno e di conseguenza i solchi eran poco profondi, la terra non era ben lavorata; grattata, non spaccata. Il vomere poi risulterà, in seguito, talvolta rivestito di ferro, ma più spesso costituito dal solo ferro temperato a fuoco. 1 seguito vien perfezionato.
"L'aratro a vomere disimmetrico e a versoi con l'avantreno mobile, munito di ruote, tirato da un attacco più vigoroso, che si diffonde durante il medioevo, rappresenta un sicuro, ragguardevole progresso" (op. cit., pag. 256). La scena della porta di S. Zeno a Verona, della fine del sec. XI, che rappresenta un aratro a ruote "è considerata la prima figurazione in questo senso" (op. cit., figura 92 e commento pag. 272).
Interessante questo fatto che conferma la datazione dell'opera intorno al Trecento.
Quanto al ferro di cavallo (alto a sinistra) e la ruota da carro (centro a destra) molte sono le notizie che parlano di un certo commercio e trasporto soprattutto dai vini tipici della zona dei Feletto e, forse, tali attività sono riferite anche alla tessitura dei panni e della lana (Borgo Anese da Lanesio, citato da Don Nilo Faldon, op. cit., pag. 31, località sita nelle vicinanze della Pieve).

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Certo le strade erano mal agevoli e i cavalli furori ferrati ai piedi da tecniche nuove che si diffusero nel XII sec. "L'attacco moderno consistette essenzialmente nel trasferire il peso di trazione sulle spalle e nel completare il collare di spalla con la ferratura a chiodi, che facilitava l'andatura dell'animale e proteggeva i suoi piedi" (Le Goff, Civ. oce. M-E., pag. 261, ibidern per la data testè citata).
Il cavallo però risulta essere un simbolo di prestigio. Ricordiamo le riserve delle popolazioni mediterranee che, nei lavori agresti, preferivano il bue all'introduzione, forzata dal 'dóminus', dell'uso del cavallo. 1 motivi principali erano stati: il bue, di facile manutenzione, oltre la lavoro fornisce la carne; l'avena, basilare alimento dell'equino, è poco coltivata; è caro di conseguenza il nutrimento di questo animale.
Che l'operare del maniscalco sia proibito nel giorno di festa significa che s'è già verificata quella differenziazione delle attività del fabbro dell'alto medioevo, considerate allora tutte magiche. Il mestiere del maniscalco è quindi considerato un'arte minore.

Cesti: mezzi di trasporto

Il facchinaggio era molto in uso a quell'epoca data la cattiva manutenzione delle strade e rimase a lungo l'unico mezzo di trasporto; limitato infatti era l'uso dei carretti e delle carriole: "a carriola, che fece la sua comparsa nel sec. XII e nei cantieri di costruzione, non si diffuse che alla fine del sec. XIV, probabilmente perché poco maneggevole" (Le Goff, op. cit., pag. 263). Il trasporto allora era fatto di preferenza a mano o a schiena: le miniature mostrano uomini curvi sotto sacchi, gerle, cesti di ogni tipo. Nella nostra raffigurazione ne appaiono tre di ben visibili, un cestino ed un'anfora (quest'ultima è a destra tra gli arnesi dei contadino). Si propende a pensare che uno di essi sia ricolmo di pani e collegabile all'attività del fornaio; un altro forse di frutta, ma poco visibile; il terzo, tra i piedi del Cristo non si comprende cosa contenga.
Ora, questo tipo di trasporto (a mano) era richiesto, non solo quale penitenza ed opera pia per la costruzione della cattedrale, ma anche per il commercio: infatti vi sono testimonianze che lo ritengono migliore, piuttosto che col carretto o con l'animale, perché meno costoso. Il peso della soma ha per misura di base il sale.
" (Il vettore) ha promesso di trasportare ... e di fare delle tappe tutti i giorni senza carretto ... " (Le Goff, op. cit., pag. 264).
Inoltre si dice del facchinaggio che A'alto prezzo del carreggio lo mantengono al primo posto" (idem, pag. 263).
Tra gli arnesi da lavoro dell'agricoltore, quali la zappa, la vanga, la forca, la falce, il falcetto e il rastrello, v'è, in basso a destra, un'anfora.
Il collegamento visivo con gli attrezzi agresti può permettere l'ipotesi che si tratti del recipiente in cui si raccolgono i concimi che si devono al signore. Erano infatti molto preziosi, dal momento che gli animali erano bradi e raramente chiusi nelle stalle. D'altra parte nei testi si parla esplicitamente di 'vasi'.

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"Gli escrementi delle piccionaie sono preziosamente utilizzati. Un 'vaso di sterco' è una pesante obbligazione dovuta talvolta dal fittavolo al signore. Viceversa, gli agenti privilegiati dei signori... in Germania nel XII sec. ricevono come salario 'il concime di una vacca e del suo vitello e le spazzature della casa' per la terra dei loro 'tenimenta'" (Le Goff, op. cit., pag. 257).
È forse però probabile un'altra interpretazione.

Il letto

Vi è un letto (a sinistra in basso) nell'effige presa in esame ed è forse l'elemento che desta più curiosità. Su di esso son supine, sotto le coltri, due persone chiaramente riconoscibili dalle chiome: un uomo e una donna.
Le possibilità di interpretazione sono varie, anche se la mentalità smaliziata dei nostro tempo propenderebbe per quella più immediata e cioè che fosse proibito, nelle festività, fare all'amore.
Il medioevo condanna tutti i vizi capitali e in primo luogo la lussuria, ma a tal punto che, ad esempio, immoralità ed igiene vari di pari passo: lavarsi è peccato, perché peccato è esser nudi. La mortificazione della carne giunge quindi all'esasperazione: per gli eremiti la sporcizia è contrassegno della loro virtuosità; per i monaci, regole precise impongono un calendario in cui ci si può lavare, pettinare e sbarbare. Come se il Battesimo, una volta ricevuto, dovesse mantener pulito il cristiano, per sempre. "Le regole monastiche limitano al massimo i bagni e le cure di toiletta, che sono lusso e mollezza. Per gli eremiti la sporcizia è virtù" (Le Goff, op. cit., pag. 420). Adamo si riscopre nudo dopo il peccato originale; Noè, in preda all'ebrezza, si denuda. Ma l'ideale cavalleresco esalta il corpo, la bellezza fisica del prode, i tratti gentili dell'amata, tanto quanto l'ideale cristiano lo abbassava.
Le restrizioni, quanto al lavarsi derivano però anche dal fatto che i bagni pubblici, le 'stufe' di allora, eran luoghi di piacere, di corruzione, quindi proibiti al chierico soprattutto.
La Chiesa raccomandava la purezza, la mortificazione della concupiscenza, proprio perché erano anni in cui si constatavano numerosi figli illegittimi e lo stesso clero si dimostrava renitente all'obbligo del celibato.
Ma che sian nudi i due personaggi a letto nell'affresco, non deve stupire, perché la biancheria intima apparve dal sec. XII al XIV e solo per la borghesia: alto era infatti il costo del lino.
"La biancheria assume maggiore importanza nel XII e XIV sec. in proporzione ai progressi dell'igiene e della cultura del lino. L'uso della camicia si diffonde come pure quello delle mutande. Ma, come per la gastronomia, il trionfo dei lino sarà legato a quello della borghesia" (idem, pag. 424).
Quindi l'ipotesi d'interpretazione che si basi sulla nudità, non regge, in quanto l'iconografia è rivolta non tanto ai borghesi, quanto al povero contadino che, allora, si rivestiva quando s'alzava dal letto.
Potrebbe forse significare che la festività è il tempo di Dio e perciò non è lecito poltrire a lungo, concedersi troppo alla mollezza, al piacere del riposo, attardarsi tra le 'dolci piume' dell'alcova.

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E la pigrizia è molto spesso condannata dalla Chiesa: gli stessi mendicanti che non sian malati son messi all'indice come tutti gli indolenti che non voglion lavorare. Tra di essi saranno collocati anche i giullari, i menestrelli, gli stranieri e saran chiamati vagabondi. "Essi formeranno la Tamilia diaboli', la famiglia del diavolo, di fronte a tutti gli altri mestieri, a tutti gli altri 'stati' ormai annessi nella famiglia di Cristo, la 'farniglia Christi'." (Le Goff, Tempo della Chiesa, Tempo del Mercante, op. cit., pag. 60). Anche in seguito la pigrizia sarà osteggiata e come gli aristocratici guarderanno con aria di sussiego il lavoratore, così i lavoratori disprezzeranno gli oziosi.
Tale interpretazione quindi risponde alla mentalità medioevale e rimane accettabile.
Resta però il fatto che, forse, per stigmatizzare il poltrire, sarebbe bastato un solo dormiente. Sono due: questo fatto dà avvio ad ulteriori interrogazioni.
L'insegnamento dell'immagine vale per l'ambiente dell'epoca che era, nella maggioranza, rurale.
S'è visto più volte il disprezzo di allora nei confronti del contadino: sembra quasi che il medioevo lo consideri un peccatore privilegiato. Gli assegna, ad esempio, quale peccato peculiare, il sacrilegio, il cui concetto è piuttosto vasto, mentre alle altre classi attribuisce peccati più specifici e abbastanza circoscritti. Il contadino è un vizioso per nascita, un peccatore per natura, un po' come era considerato lo schiavo o il servo (ed era chiamato 'servus', ad esempio servo della gleba, ma all'epoca si parlava anche di 'servus peccati' e probabilmente i due concetti si son sovrapposti sino a coincidere nel significato). fatto sta che "i rustici sono i lussuriosi e gli ubriaconi per eccellenza" (op. cit., pag. 108). I contadini inoltre sono colpiti da molte malattie e una citazione, rinvenuta a tale proposito, ci fa propendere per l'interpretazione abbandonata all'inizio.
Infatti le malformazioni, le malattie in genere, eran considerate punizioni dei peccati commessi: i più esposti a tali sofferenze erano i poveri lavoratori del contado e noi oggi diremo per la scarsa alimentazione, per la mancanza d'igiene, per i matrimoni tra consanguinei (con conseguenti tare ereditarie) in quanto 'straniero' era chiunque non fosse del posto ed era mal visto. Si credeva, nel superstizioso medioevo, che la lebbra (ed era molto diffusa) fosse segno di lussuria dei genitori. 1 lebbrosi erano soprattutto tra i contadini. Ne consegue una specie di sillogismo 'sui generis'.
In conseguenza di ciò, i lebbrosi sono soprattutto contadini, perché questi procreano nella lussuria, cioè non rispettano la continenza, non sono casti nel dì di festa, come invece sanno fare gli uomini sapienti.
"Denique quicumque (filii) lebrosi sunt, non de sapientibus hominibus, qui et in aliis diebus et in festivitatibus castitatem custodiunt, sed maxime de rusticis, qui se continere non sapiunt, nasci solent." (Dai Sermones di Cesario di Arles citato in nota da Le Goff Tempo della Chiesa, Tempo del Mercante, op. cit., pag. 108).

Conclusione

La ricerca sull'effigie della Pieve di S. Pìetro di Feletto, si conclude, ma potrà dar adito ad ulteriori interpretazioni.
Si ritiene di averla compiuta in aderenza alle locali tradizioni popolari che essa richiama e l'analisi, forse più interessante, è stata collocata di proposito al termine della trattazione, per conferire, al lavoro stesso, un alcunché di sapido e vivace.

Paola Dalto

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