| GIAMPAOLO ZAGONEL  ALESSANDRO CITOLINI, VALERIO MARCELLINO E LE
 RISPETTIVE LETTERE IN DIFESA DELLA LINGUA VOLGARE.
 Nel 1564 esce a Venezia, per i tipi di Gabriel Giolito de' 
        Ferrari "IlDiamerone". Il titolo completo (cfr. il frontespizio riprodotto) 
        così recita: Il
 Diamerone / di M. Valerio Marcellino. / Ove con vive ragioni si mostra, 
        / La
 Morte non essere quel male, che '1 senso si persuade. / Con una dotta, 
        e
 giudiciosa lettera, I Over discorso intorno alla lingua volgare(1).
 Il volume, inusuale nella sua composizione, comprende in 
        ordine di sequenza: una lettera dedicatoria al chiarissimo Signor Luigi 
        Cornero(2) di Alessandro Citolini, una tavola delle cose più notabili 
        riguardanti "Il Diamerone" e la "Lettera, over discorso 
        di M. Valerio Marcellino, intorno a la lingua volgare", il tutto 
        su 46 pagine prive di numerazione. Incontriamo quindi il trattato vero 
        e proprio, un dialogo morale in due giornate (diamerone), che si stende 
        per 128 pagine numerate. Infine chiudono il volume due pagine:"errori da correggersi" (l'odierno errata corrige), ed una nota 
        riguardante aspetti grammaticali ed ortografici del testo.
 L'interesse per quest'opera è duplice: da un lato mostra Alessandro 
        Citolini nella inusitata veste di curatore di una altrui pubblicazione, 
        anzichè in quella di autore. Dall' altro suscita curiosità 
        ed attenzione la lettura della
 1) Conosco tre edizioni dell'opera: 1564, 1565 e 1568. 
        Le citazioni e le riproduzioni del testo
 sono tratte da un esemplare del 1565.
 2) Alvise Cornaro. (Cfr. più avanti nella nota alla lettera dedicatoria 
        di A.C.).
 
 GIANPAOLO ZAGONEL. Laureato in Economia e Commercio, dirigente 
        industriale. Appassionato di studi letterari, ha al suo attivo numerose 
        ricerche di letteratura italiana pubblicate in diversi periodici. È 
        uscita in questi giorni, a sua cura, la prima edizione integrale delle 
        Lettere di Lorenzo Da Ponte.  
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 "Lettera, over discorso intorno al volgare" del Marcellino, 
        poichè sembra ricalcare e riprendere con più forza le considerazioni 
        che il Citolini svolse molti anni addietro con uno scritto sullo stesso 
        argomento.
 Gli anni 1539-40 vedono Alessandro Citolini soggiornare, 
        o quanto meno trascorrere lunghi periodi a Roma e frequentare il circolo 
        dei letterati gravitanti attorno alla ragguardevole personalità 
        del senese Claudio Tolomei(3). Nel 1525 costui si era occupato, con la 
        pubblicazione dell'opera "Il Polito" della riforma ortografica 
        proposta da Gian Giorgio Trissino, osteggiandola, ma nel contempo proponendone 
        una in sintonia con la pronuncia italiana(4). Qualche anno più 
        tardi, nel 1528, il Tolomei fa circolare il manoscritto dell'opera: "Il 
        Cesano" con il quale prende di mira i sostenitori della lingua latina 
        contro i detrattori del volgare: un'aspra battaglia che vede alla fine 
        vincitore il gruppo da lui capeggiato(5). Sempre a Roma, sotto la protezione 3) Claudio Tolomei (1492-1556), nato a Siena, 
        studia legge a Bologna e già nel 1514 pubblica una "Laude 
        delle donne bolognesi". Dopo un breve soggiorno nella sua città 
        è costretto nel 1518, per ragioni politiche, ad abbandonare Siena, 
        portandosi a Roma sotto la protezione dei Medici. Qui acquista rapidamente 
        fama ed onori tenendo pubbliche lezioni e lanciandosi in accese dispute 
        letterarie. Abbandonata la carriera legale si occupa pressoché 
        a tempo pieno di lettere, prendendo parte attiva alle battaglie linguistiche 
        e grammaticali. (L'unico lavoro attendibile e documentato sul personaggio 
        è quello di Luigi Sbaragli: "Claudio Tolomei, umanista senese 
        del Cinquecento", Siena, Accademia per le Arti e per le Lettere, 
        1939. Da questo studio attingo parte delle notizie ed alcuni riferimenti 
        bibliografici).4)11 titolo esatto è: "De le lettere nuovamente aggiunte libro 
        di Adriano Franci da Siena intitolato, il polito". Venne pubblicato 
        dal Tolomei sotto altro nome ed è un dialogo tra seguaci e critici 
        dell'innovazione trissiniana. Gian Giorgio Trissino aveva proposto una 
        riforma dell'alfabeto con la "Canzone a Clemente VII" e colla 
        "Sofonisba" stampando quest'ultima opera con nuovi caratteri 
        (lettere) dell'alfabeto (Luigi Sbaragli, op. cit. pp. 15-25). Com'è 
        noto la proposta del Trissino non andò in porto salvo la distinzione 
        tra il segno u per la vocale ed il segno v per la consonante, mentre prima 
        di lui consonante e vocale si scrivevano con l'unico segno u. Un riassunto 
        della grafia proposta invece dal Tolomei è nella lettera di Fabio 
        Benvoglienti a Mino Celsi, raccolta nelle "Lettere, libri sette" 
        di Claudio Tolomei, Venezia, 1553 (pp. 288-29 1). Sullo stesso argomento 
        figurano, nel volume appena citato, parecchie missive indirizzate dal 
        Tolomei ad Alessandro Citolini.
 5) Verso la fine del 1529 convennero a Bologna per l'incoronazione di 
        Carlo V i più famosi letterati allora in circolazione e per l'inaugurazione 
        dell'Anno Accademico bolognese il friulano Romolo Amaseo pronunciò 
        l'orazione "De linguae latinae uso retinendo" in favore del 
        latino come lingua universale. Erano presenti tra gli altri Pietro Bembo, 
        Gian Giorgio Trissino, Claudio Tolomei, Marcantonio Flaminio e Giulio 
        Camillo. È probabile che al seguito del Camillo ci fosse Alessandro 
        Citolini che forse in quest'occasione ebbe modo di conoscere il Tolomei. 
        La risonanza di quest'orazione provocò una dura reazione del Tolomei 
        che ampliò il suo Cesano in difesa del volgare facendone circolare 
        molte copie manoscritte. Quest'opera fu data alle stampe solo nel 1554 
        a Venenzia, quando la polemica sull'uso del volgare era quasi inutile, 
        in un'edizione scorretta ed incompleta, giunta così fino a quelle 
        dei nostri giorni. (Sbaragli, op. cit. pp. 204-5).
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 del cardinale Ippolito de' Medici e sullo slancio della ripresa morale 
        che investe la città dopo il Sacco del 1527, il Tolomei fonda l'Accademia 
        della Virtù. Nelle due adunanze settimanali si discuterà 
        un po' di tutto, dalla letteratura all'architettura, ma non erano infrequenti 
        le facezie e le burle(6). Dopo la morte del suo protettore (1538)1' Accademia, 
        mutando nome si chiamerà: della Poesia nuova. Una ricerca compiuta 
        da una nutrita schiera di letterati, sotto la guida del Tolomei, approda 
        nel 1539 alla pubblicazione dell'opera "Versi, et regole de la nuova 
        poesia toscana", dove sono contenute tre poesie di Alessandro Citolini(7). 
        Buon pubblicista, il Tolomei aveva fatto precedere l'uscita del volume 
        con la circolazione di qualche saggio manoscritto, spedito ad alcuni dei 
        suoi numerosi corrispondenti. In luogo di approvazioni, come si aspettava, 
        gli giunsero però severe critiche, particolarmente cocenti quelle 
        di Paolo Giovio e Benedetto Varchi(8).
 È improbabile che Alessandro Citolini possa aver fatto parte attiva 
        nelle Accademie del Tolomei(9), ma è certa la sua familiarità 
        con il senese e la maturazione di scelte e convinzioni comuni. Riprova 
        ne è la sua prima pubblicazione, quella "Lettera in difesa 
        de la lingua volgare" dedicata a Cos(i)mo Pa1lavicino(10), finita 
        di scrivere a Roma il 10 settembre 1540 e
 6) L'Accademia si riuniva in casa del Tolomei, 
        come asserisce Luca Contile nella sua corrispondenza: "Vo per ordinario 
        ogni giorno in casa di Mons. Tolomei, dove frequento l'Accademia della 
        Virtù, la quale oltre che sia ricca di tutte le lingue possiede 
        anco tutte le scienze". (Luca Contile, Lettere, Pavia, 1564, vol. 
        I, p. 19) e ne parla anche Annibal Caro nella lettera a Benedetto Varchi 
        del 10 marzo 1538. (Annibal Caro, Lettere familiari, Firenze, le Monnier, 
        1957-61, vol. I, p. 69).7) Si tratta di un'antologia comprendente i versi di una dozzina di poeti 
        tra i quali il Tolomei stesso, Annibal Caro, Dionigi Atanagi, Antonio 
        Renieri, Pavolo Gualterio ecc. Alla fine delle poesie segue una specie 
        di programma intitolato "Regolette della nuova poesia toscana" 
        in cui vengono codificate - in maniera assai sbrigativa - le norme del 
        poetare in lingua italiana secondo gli accorgimenti metrici quantitativi 
        e fonici della poesia classica. (Diz. delle opere Bompiani, Milano, 1981, 
        voi. VII, p. 702).
 La metrica classica dei Tolomei e seguaci non riuscì ad affermarsi 
        nella nostra letteratura. Tuttavia essa non cadde interamente in oblio, 
        fu ripresa nel secolo scorso dal Carducci prima nelle sue "Odi Barbare" 
        e poi con la pubblicazione dell'antologia da egli stesso curata "La 
        poesia barbara nei secoli XV e XVI", che ripresenta ed allarga l'esperienza 
        del Tolomei. (Bologna, Zanichelli, 1881 ed ora ristampa anastatica 1985).
 8) Per le lodi e critiche di queste poesie, assai documentato è 
        lo Sbaragli. (Op. cit. pp. 57-65).
 9) Potrebbe averne fatto parte l'altro grande serravallese Marcantonio 
        Flaminio. (Cfr. Alessandro Pastore, M.F. Milano, Angeli, 1981, p. 153).
 10) Cosimo Pallavicino, frate carmelitano come il suo più famoso 
        fratello Giovanni Battista. Quest'ultimo fu più volte imprigionato 
        per sospetta eresia luterana, anche nel 1540 a Roma. Cosimo lesse al re 
        Francesco I due orazioni scritte da Giulio Camillo per impetrare la scarcerazione 
        del fratello a Parigi, con successo. Doveva quindi far parte come il Citolini 
        del gruppo dei seguaci del Camillo perché è citato in una 
        poesia di quest'ultimo: "Cosmo, ch' ornate il nobil secol nostro, 
        I Voi, che '1 gran Re nel culto dir facondo I Legaste con stupor
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 stampata a Venezia nel dicembre dello stesso anno sotto i torchi del Marcolini(11). 
        Un'analisi sufficentemente dettagliata è quella a suo tempo compiuta 
        da Giovanni Presa(12).
 Ora ne proponiamo un' ulteriore rilettura, approfittando della recente 
        ristampa anastatica della rara edizione del 1
 Innanzitutto Citolini ci fa sapere che vuol rispondere ad 
        una lettera "scritta da non so cui contra la lingua volgare(14)" 
        piena di un odio manifesto contro l'uso di quest'ultima. Egli dichiara 
        che non vuol parlar male del latino per dimostrare che il volgare è 
        migliore, ma affrontare il problema smontando i tre ragionamenti che l'autore 
        ignoto palesa a sostegno delle sue tesi, che sono: essere la lingua latina 
        più nobile, secondo più ricca, al terzo più comune, 
        cioè compresa da molti. di tutto 'I mondo, / Rendendo luce al dolce 
        frate vostro;" (Giulio Camillo, Opere, Venezia, Giolito de' Ferrari, 
        1560, p. 267). Cfr. pure: Il luterano G.B. Pallavicini e due orazioni 
        di Giulio Camillo Delminio, in "Nuova rivista storica", Società 
        Ed. Dante Alighieri, gennaio-aprile 1974, fasc. I-Il, pp. 63-70.I I) È stato più volte scritto che la "Lettera" 
        venne stampata ad insaputa del suo autore, per ultimo Massimo Firpo, curatore 
        della voce Citolini per il Diz. Biogr. degli Italiani (1982):
 "opuscolo, edito all' insaputa dell'autore, come risulta da una lettera 
        del tipografo all'Aretino stampata sul verso del frontespizio di alcuni 
        esemplari del libro". Di questa lettera ne parla per la prima volta 
        Gian Maria Mazzuchelli, autore nel 1741 (ed in sec. ed. nel 1763) di una 
        biografia sull'Aretino, in cui scrive: "Il Marcolini, che gli indirizzò 
        una lettera di messer Alessandro Citolini in difesa della lingua volgare". 
        (cfr. Lettere sull'arte di Pietro Aretino, Milano, Ed. del Milione, 1957, 
        voI, terzo, tomo primo, p. 59). Non esiste, che io sappia, un'edizione 
        della "Lettera", nelle varie biblioteche che la custodiscono, 
        che contenga la dedica al famoso poeta e d'altra parte non si trova neppure 
        nei sue volumi di lettere di vari, indirizzate all'Aretino, nessuna, fra 
        le tante del Marcolini, che possa riferirsi a questa circostanza. Giudico 
        invece molto probabile che Citolini stesso abbia presenziato alla stampa 
        del suo opuscolo, come afferma Scipione Casali quando scrive: "L'edizione 
        è corretta, e mostra di essere stata assistita dall 'Autore, anche 
        per la particolare ortografia e punteggiatura introdottavi: imperoché 
        non usò mai disporre lettera majuscola in principio di periodo 
        dopo il punto, quand' anche sia daccapo... e l'e congiunzione, che soleasi 
        a que' tempi scrivere e stampare alla latina et, pare fusa appositamente 
        per questa Lettera del Citolini in singolar forma, cioè una specie 
        di apostrofo attaccato all'occhietto della vocale: la qual cifra non trovo 
        usata in nessun'altra edizione marcoliniana". (Scipione Casali, Gli 
        annali della Tipografia veneziana di Francesco Marcolini, Bologna, 1861 
        e ristampa a cura di Alfredo Gerace, 1953, pp. 130-31).
 12) Giovanni Presa, A. Citolini, V. Marcellino e V. Marostica nella vicenda 
        d'una lettera in difesa del volgare, in "Studi in onore di Alberto 
        Chiari", Brescia, Paideia, 1973, voI. Il, pp. 1001 e segg.
 13) "La lettera de la lingua volgare" a cura di Nilo Faldon, 
        Conegliano, Litografia Battivelli, 1990.
 14) Si son fatte più ipotesi sull'autore ignoto che costrinse Citolini 
        a rispondere con la "Lettera", ma con nessun certo fondamento 
        sulla sua identità.
 40 Per nobiltà l'autore ignoto intende più antica 
        ed il Citolini risponde che se ciò fosse vero le lingue oramai 
        morte degli ebrei, caldei, assiri, ecc. sarebbero più nobili della 
        latina perché più antiche. Spostandosi nel campo dell'arte 
        Citolini dice che per lo stesso motivo le opere "ch' oggidì 
        escono da lo scalpello, e dal pennello del gran Michiel'agnolo" sarebbero 
        inferiori a quelle antiche "per esser - quest'ultime - già 
        da gran tempo fatte". Il serravallese continua sostenendo che la 
        nobiltà non sta affatto nell' antichità, altrimenti scrittori 
        latini antichi come Livio Andronico, Accio ed Ennio, sarebbero migliori 
        di altri più moderni come Cicerone, Cesare e Virgilio; che questo 
        non sia vero lo possono giudicare facilmente tutti. La lingua volgare 
        è vile - sostiene l'ignoto autore - perché è nata 
        da "genti strane, ferigne, e barbaresche" e Citolini di rimando 
        risponde che è abbastanza evidente comprendere come la lingua volgare 
        derivi in gran parte dalla latina e pochissimo dipenda dai barbari venuti 
        dall'esterno. Tante cose poi venute dal basso, da umili origini - continua 
        Citolini - sono diventate eccellenti e questo vale anche per gli uomini. 
        David diventa re pur essendo nato pastore e da umili origini escono pure 
        Socrate, Euripide, Demostene ed Omero. Anche se non si può negare 
        che la nuova lingua sia nata dalla corruzione della latina, ciò 
        non significa che sia vile, poiché la corruzione di una cosa è 
        la generazione di un'altra. Nondimeno la latina è nata per corruzione 
        di una precedente lingua, quindi per lo stesso motivo biasimando l'una 
        si dovrebbe biasimare anche l'altra.Prendendosela poi con quello che alcuni studiosi "oltramontani" 
        dicono non essere l'Italia al presente nobile come nel passato, ma degenerata 
        per la mescolanza di tanti barbari, Citolini sostiene con forza che il 
        nostro paese èsempre sotto lo stesso cielo e ciò è 
        sufficente a far mutare anche la natura degli uomini che vi vanno ad abitare: 
        "Io vi dico, che la Italia è quella, che sempre fu, perciocché 
        ella è sotto quel medesimo Cielo che sempre fu, et esso Cielo le 
        piove in grembo quelle medesime gratie, che sempre piové, et essa 
        produce quei medesimi frutti, che sempre produsse". Consapevole inoltre 
        della grandezza del genio italiano del Rinascimento, Citolini prosegue 
        "e vi ricorderei infiniti de' nostri huomini ne le scientie, nel 
        mestier de l'arme, et in molte eccellentissime arti pari a i nostri antichi 
        famosi Padri, e non pochi superiori". Queste affermazioni dovrebbero 
        servire a convincere gli scettici che la lingua volgare, già da 
        gran tempo uscita alla luce, sta per superare la latina.
 Il secondo punto, e cioè che la lingua latina è ricchissima 
        di scrittori, mentre la volgare ne è poverissima, il Citolini lo 
        affronta partendo dalla considerazione che intanto la lingua latina è 
        sepolta nei libri, mentre la volgare è viva ed alimentata dalla 
        parlata della popolazione. Se anche non avesse scrittori o ne avesse pochi 
        non per questo la lingua sarebbe meno ricca. Se uno al giorno d'oggi volesse 
        - continua Citolini - scrivere i fatti e gli avvenimenti in latino come 
        potrebbe, parlando ad esempio della guerra,
 41
 descrivere in questa lingua parole come: galeoni, caravelle, 
        bocche di fuoco, ecc., non potrebbe di certo farle terminare in "bus" 
        o in "orum".Non è giusto neppure ricorrere a giri di parole poiché "... 
        voi non trovereste mai tra tutte le masseritie de la lingua italiana vesti, 
        che stiano bene a tutti questi concetti". Quindi se la lingua latina 
        generò la volgare e se questa si gode l'eredità della latina 
        morta non potrà essere rigenerata dalla sua figliola con l'aggiungerle 
        vocaboli nuovi. Ciò non toglie - prosegue Citolini
 - che ogni uomo di cultura non abbia a possedere la conoscenza della vecchia 
        lingua latina per imparare le cose che in quella vi sono scritte. Ma fatto 
        questo si deve parlare, scrivere, comporre ed esercitarsi nella lingua 
        volgare.
 Il Citolini passa poi ad analizzare il nome da dare alla nuova lingua 
        che l'autore ignoto chiama toscana. Suo consiglio è che, o volgare, 
        o toscana, la nuova lingua debba contenere tutto quello che di bello e 
        buono c'è nelle diverse regioni d' Italia ed abbandonare quello 
        che di brutto c'è anche nella Toscana. E a testimonianza della 
        sua asserzione fa intervenire gli esempi del Petrarca e del Boccaccio 
        che usarono nei loro scritti non solo parole provenienti dalla propria 
        terra, per cui, conclude Citolini: "Io voglio starmi nella toscana, 
        ma non come in una prigione, ma come in una bella, e spatiosa piazza, 
        dove tutti i nobili spiriti d'Italia si riducono".
 Il terzo concetto manifestato dall' ignoto autore a sostegno delle sue 
        tesi è che la lingua latina è sparsa in tutti i paesi europei, 
        mentre la volgare non esce dai confini italiani. Il serravallese sostiene 
        invece che la nostra parlata è conosciuta da molti in Francia(15) 
        ed in altri paesi, dice inoltre che se si scrivesse in latino, ciò 
        sarebbe inteso da qualche straniero, ma pochi in Italia lo comprenderebbero, 
        al contrario del volgare capito da tutti. Altra asserzione dell'ignoto 
        autore è che la lingua volgare è efficace solo per narrare 
        favole e storie d'amore, ma non si presta per discorrere di filosofia, 
        astrologia e materie consimili. Citolini confuta tale convinzione dicendo 
        che sono oramai tradotti nella lingua volgare filosofi greci, scrittori 
        latini, testi evangelici, trattati di architettura, libri di storia e 
        scienze(16) e questo dimostra che con la nuova lingua si possono esprimere 
        tanti concetti e renderli comprensibili al maggior numero possibile di 
        persone, che non conoscendo le vecchie lingue ne verrebbero escluse.
 Gli scrittori del volgare sono pochi, dice l'autore ignoto, solo Petrarca 
        e Boccaccio, mentre i latini sono molti ed inoltre quei due non eguagliano 
        i grandi scrittori del passato. Ad impugnare queste affermazioni il Citolini 
        fa
 15) La "Lettera" ha più 
        di un riscontro sui viaggi compiuti in Francia dal Citolini.16) Con l' avvento della stampa iniziarono ben presto i "volgarizzamenti" 
        ossia le traduzioni
 nella nostra lingua dei classici greci o latini da parte dei più 
        famosi umanisti del primo
 Cinquecento. In pochi decenni quasi tutto il pensiero e la letteratura 
        classica, nonché trattati
 di scienza e storia furono a portata di mano di un consistente numero 
        di lettori.
 42 scendere in campo l'autorità di due contemporanei: 
        Giulio Camillo(17) 7) e Bernardino Daniello(18) a sostegno della grandezza 
        poetica del Petrarca, e lo scrittore di origine greca Marullo(19) a sostegno 
        del Boccaccio. Quanto poi alle lodi che l'ignoto autore fa nei confronti 
        di due scrittori contemporanei che scrivono in latino, il Bembo(20) ed 
        il Molza(21) Citolini afferma che sebbene Petrarca e Boccaccio scrivessero 
        anche in latino, la loro fama èesclusivamente legata agli scritti 
        in volgare.Quindi il Citolini se la prende con coloro che al giorno d'oggi parlano 
        e scrivono in latino, i Pedanti(22), derisi nelle Accademie allo stesso 
        modo in cui venivano scherniti dai latini coloro che si ostinavano a parlar 
        greco. La conclusione del lungo discorso del nostro autore è l'invito 
        a tutti di proseguire sull'impiego della lingua volgare in ogni attività 
        umana, lodandone la ricchezza di parole, la dolcezza e soavità 
        della sua espressione "per la temperata mescolanza de le vocali con 
        le consonanti" ed è per questo - egli sostiene - che ogni 
        giorno esce un nuovo scrittore. Perché dunque contrastarla? "Perché 
        non più tosto amarla et abbracciarla? Amiamola, seguiamola, abbracciamola 
        adunque; poi che si vede chiaro; che quelli che fanno altramente sono 
        in error3(23)".
 17) Il Citolini lo chiama semplicemente Messer 
        Giulio, senza aggiungervi il cognome, ma ècerto trattarsi del suo 
        maestro Giulio Camillo (Delminio). Se anche in vita egli non pubblica 
        quasi nulla, pur tuttavia andò famoso tra i contemporanei per i 
        suoi commenti sul Petrarca. In paste si trovano racchiusi nell'edizioni 
        postume delle sue opere con il titolo: "Esposizione sopra il primo 
        e secondo sonetto del Petrarca". (cfr. G. Camillo, Opere, Venezia, 
        Giolito de' Ferrari, 1566, Tomo Il, pp. 99-122).18) Bernardino Daniello (1500-1565), autore di un commento sul Petrarca 
        pubblicato nel
 1541 e, come anche ricorda il Citolini, di una "Poetica volgare" 
        (1536), in forma di dialogo, che ebbe ai suoi tempi celebrità ed 
        autorità.
 19) Michele Marullo (1453-1500) nato a Costantinopoli, trasferitosi fanciullo 
        a Napoli e poi a Firenze. Amico del Pontano e del Sannazaro scrisse in 
        latino ed in lingua volgare.
 20) Pietro Bembo (1470-1547) famoso per gli "Asolani" e le "Prose 
        della lingua volgare" scrisse altresì in latino. Qualche contemporaneo 
        (Pietro da Barga) sosteneva malignamente che il Bembo esortava gli altri 
        a scrivere in volgare per rimanere da solo a primeggiare nel greco e nel 
        latino.
 21) Francesco Maria Molza (1489-1544). Autore inizialmente di numerosi 
        versi latini, si diede poi al volgare e la sua opera più importante 
        è considerata oggi il poemetto in ottave "La ninfa tiberina". 
        Vissuto per molto tempo a Roma (fino al 1543), fu protetto dal cardinale 
        Ippolito de' Medici e fece parte dell'Accademia della Virtù dei 
        Tolomei. Il Citolini potrebbe averlo conosciuto proprio nei suoi soggiorni 
        romani.
 22) Pedante è il tipico personaggio della letteratura e della commedia 
        cinquecentesca che impersona il maestro presuntuoso, saccente, con una 
        pomposa quanto approssimata parlata latineggiante. Ne ha delineato un 
        gustoso ritratto Arturo Graf: I Pedanti, in "Attraverso il Cinquecento", 
        Torino, Chiantore, 1926.
 23) La lettura della "Lettera" si presterebbe ad altre analisi 
        interessanti la personalità artistica e la formazione di A.C. Una 
        per tutte: gli elementi, sparsi qua e là nel testo, di critica 
        agli ordini
 43 La pubblicazione di quest'opera diede al serravallese una 
        discreta notorietà nell' ambito dei letterati che nel Cinquecento 
        dibattev ano il problema dell'uso della lingua volgare e l'edizione andò 
        rapidamente esaurendosi.Dieci anni più tardi Alessandro Citolini ricevette la richiesta 
        di una copia della "Lettera" dal conte Vinciguerra di Collalto(24), 
        ma per quante ricerche si facessero presso i librai di Venezia, non ci 
        fu verso di reperirla. Alla fine se ne scovò un'esemplare, piuttosto 
        mal ridotto dall'uso, nella biblioteca privata del patrizio Bernardo Zane. 
        La "Lettera" venne prontamente ristampata a cura del poligrafo-letterato 
        Girolamo Ruscelli, insieme ad un altro lavoro del Citolini e con una lunga 
        lettera del curatore stesso, nel settembre del 1551(25).
 Nel 1553 lo stesso Ruscelli pubblica i: "Tre discorsi a M. Lodovico 
        Dolce", il secondo dei quali: "Intorno alle osservazioni della 
        lingua volgare", per sua stessa ammissione, è germogliato 
        dai colloqui sull'argomento di continuo intrattenuti con il serravallese. 
        Tuttavia l'opera contiene quasi esclusivamente una puntigliosa reprimenda 
        contro i contenuti ed i concetti espressi dal Dolce nei suoi trattati 
        di lingua e grammatica(26).
 Con lo scritto del Citolini ha invece notevole attinenza "L'Oratione 
        in laude della lingua toscana" di Alberto Lollio edita per la prima 
        volta nel
 1555(27)
 ecclesiastici ed alla gerarchia cattolica, mentre prefigurano 
        una chiara scelta luterana, pur tuttavia si mantengono ancora dentro l'involucro 
        di un irreprensibile nicodemismo.
 24) Vinciguerra III conte di Collalto (1527-1558) abate di Narvesa o Nervesa, 
        poeta e fratello del più famoso Collaltino. Tutti e due i Collalto 
        furono per qualche tempo legati all' ambiente culturale veneziano di Pietro 
        Aretino, di cui faceva parte con una certa frequenza pure Alessandro Citolini. 
        Nell' epistolario dell'Aretino (Parigi, 1609) si possono leggere più 
        lettere indirizzate ai fratelli Collalto tra gli anni 1545-1550 e due 
        al Citolini rispettivamente del febbraio '45 e gennaio '46.
 25) Tutto ciò è descritto nella lettera dedicatoria di Girolamo 
        Ruscelli (Venezia, 5 settembre
 1551) al conte Vinciguerra di Collalto, premessa alla riedizione della 
        "Lettera" e de "I Luoghi" di Alessandro Citolini.
 26) Girolamo Ruscelli (1504-1566) poligrafo e letterato vierbese operò 
        prima a Roma e dal
 1548 stabilmente in Venezia. Pubblicò alcuni lavori riguardanti 
        la filologia della nuova lingua ed un fortunato rimario della lingua italiana 
        riedito di continuo fino alla metà del secolo scorso. Commentò 
        inoltre le opere del Petrarca e del Boccaccio. L'opera in oggetto: "Tre 
        discorsi a Messer Lodovico Dolce" comprende appunto: "Le osservazioni 
        della lingua volgare" ed è un trattato polemico contro gli 
        scritti del Dolce, accusato dal Ruscelli di superficialità e di 
        spregiudicatezza nelle sue pubblicazioni sul volgare. L'opera del Dolce 
        presa di mira venne pubblicata nel 1550 a Venezia ed ha per titolo: "Osservazioni 
        nella volgar lingua".
 27) AlbertoLollio (1508-1568) fu autore di scritti grammatici e di alcune 
        orazioni. "L'orazione in laude della lingua toscana" prima di 
        venir pubblicata venne recitata ai membri dell'Accademia dei Filareti 
        di Ferrara. Fu ripubblicata nel 1565, nel '69 ed ancora nell'84.
 44 Seguendo i concetti già espressi a suo tempo dal 
        Bembo e dal Tolomei, non trascura quelli più recenti pronunciati 
        dal serravallese, ricalcandone in qualche punto anche le conclusioni. 
        Riportiamo un solo esempio, che sembra estrapolato dalla "lettera" 
        citoliniana. Parlando delle lingue greca e latina egli così si 
        esprime: "... le quali sono già state buon tempo e meritatamente 
        da gli huomini in pregio et in honor grandissimo tenute, a poco a poco, 
        si come suole ordinariamente di tutte le cose del mondo avvenire, sono 
        andate mancando; né altro più di loro habbiamo al presente, 
        che alcune poche reliquie sparse et sepolte nelle carte et ne' libri, 
        di maniera che non più lingue con verità si possono chiamare, 
        ma carta et inchiostro solamente, dove la toscana non pur vive et spira 
        tuttavia nelle menti e nelle bocche d'ogn'uno, ma ella si trova anco nella 
        più fresca, nella più verde et più fiorita età 
        che mai fusse, percioché essa tiene nota in Italia il medesimo 
        luogo et il medesimo grado, che tenne già la latina mentre ella 
        visse(28)".Arriviamo così al 1564, alla pubblicazione de "Il Diamerone" 
        che racchiude un ennesimo trattato sulla lingua volgare. Come afferma 
        il Citolini nella lettera dedicatoria al Cornaro, lo scritto del Marcellino, 
        compresa "La lettera intorno a la lingua volgare", giaceva negletto 
        in qualche ripostiglio già da alcuni anni, esattamente dal 10 aprile 
        del 1561, data in cui Valerio Marcellino firma la presentazione e la dedica 
        del lavoro a Pietro Zane. Ricordiamo che più o meno nello stesso 
        tempo il Citolini dava alle stampe la sua opera principale: "La Tipocosmia".
 Cerchiamo ora di compiere l'operazione già eseguita con la lettera 
        citoliniana, rileggendo e riassumendo i principali concetti che stanno 
        alla base del discorso del Marcellino.
 Prendendo l'esempio da Cicerone il Marcellino afferma di 
        voler scrivere nella lingua del comune parlare per potersi esprimere con 
        tutte le possibilità offertegli da una lingua viva. Sostiene che 
        chi volesse spiegarsi in latino non sarebbe in grado di trovare parole 
        adeguate alle innumerevoli cose trovate o scoperte ai nostri giorni. L'esempio 
        classico, già presentato a suo tempo dal Citolini, è quello 
        dei nuovi vocaboli usati nella guerra, che mancano nella lingua latina. 
        Sono da scusare - afferma il Marcellino - i casi dei poeti Bernardo(?) 
        Navagero e Marc'Antonio Flaminio(29). Soltanto la loro autore 28) "Delle orationi volgarmente scritte, da diversi 
        huomini illustri de' tempi nostri" a cura di Francesco Sansovino, 
        Venezia, Altobello Salicato, 1584. A p. 135 una postilla, a fianco del 
        testo sopra riportato, ricorda la "Lettera" di Alessandro Citolini.
 29) Marcantonio Flaminio (1498-1550) era stato rimproverato da Basilio 
        Zanchi per aver inventato l'aggettivo "floricomus" nel suo "In 
        carmine ad Guidum Posthumum" con il verso:
 Jam ver floricomum, Posthume, verticem...
 45 volezza li perdona dall' aver inventato nuovi vocaboli nella 
        lingua morta per inserirli nelle composizioni latine, in ciò imitando 
        Lucano e Virgilio. Ma certo non si dovrebbero chiamare latine le nuove 
        voci, poiché il popolo che parlava questa lingua non c'è 
        più e se risuscitasse non potrebbe comprenderle. Segue un convincente 
        discorso inteso a dimostrere che non si deve usare la lingua ora morta, 
        ma quella viva "... la quale dal ventre materno portiamo in bocca, 
        et sempre habbiamo ne gli occhi, et nel cuore". E vero dice il Marcellino, 
        che gli antichi scrittori del volgare (Dante, Petrarca, ecc.) hanno usato 
        vocaboli tolti in gran parte dal latino, ma spesso solo perché 
        condizionati dalla necessità di rima e pertanto al di fuori di 
        questa circostanza è meglio apprendere le parole dal popolo, che 
        Quintiliano chiama il padre delle parole. Il popolo è quindi un 
        maestro e da lui deve attingere chi vuole acquistare lodi e fama dai suoi 
        componimenti.Per dimostrare questa tesi il Marcellino si lancia in un lungo ragionamento 
        rivolto a far comprendere che il volgare ha un sommo grado di altezza, 
        di dignità, di armonia, "... che in esso i nostri moderni, 
        caminando con questi piedi, hanno cominciato a scrivere in tutte quelle 
        forme di poesia nelle quali scrissero già i greci, e i latini: 
        tra 'quali il primo - per quanto io ne odo - fu
 M. Claudio Tolomei, il quale tra 'dotti de' nostri tempi, s'è potuto 
        - senza punto passare il vero - chiamar maestro di color che sanno(30). 
        I cui lodati vestigi hanno poi seguitato i dottissimi, et nelle lingue, 
        et nelle scientie M.
 (M.A.F., Carmina, Prato, Guasti, 1831, p. 84).
 Il Flaminio replicò allo Zanchi con una lunga lettera (Op. cit. 
        pp. 275-279) e facendosi forte degli esempi di Cicerone ed Orazio affermò 
        che è lecito creare nuovi vocaboli, non solo per necessità, 
        ma anche per ornamento. Ma la giustificazione non doveva aver molto convinto 
        i suoi critici se ancora nel 1561 - forse la mano del Citolini dietro 
        quella del Marcellino - (e con il Flaminio già morto da oltre dieci 
        anni) si continuava a tirare in ballo questo esempio negativo, oramai 
        diventato un classico. La lettera allo Zanchi non è datata, ma 
        si fa risalire agli anni romani del Flaminio (1547-1550). (Alessandro 
        Pastore, Marcantonio Flaminio, Milano, Franco Angeli, 1981, p. 156). Nella 
        medesima lettera il Flaminio difende pure il suo amico Andrea Navagero 
        (1483-1529), poeta e diplomatico veneziano, dalla stessa accusa per aver 
        inventato il vocabolo "silvipotens". Rimarchiamo che nel testo 
        del Marcellino il Navagero viene erroneamente chiamato (o scambiato) con 
        il nome di un suo nipote Bernardo, anch'egli poeta, ambasciatore e più 
        tardi cardinale.
 30) Che Claudio Tolomei godesse ai suoi tempi di straordinaria fama e 
        fosse considerato tra i più dotti letterati del Cinquecento lo 
        confermano, ad esempio le lettere di Pietro Aretino a lui dirette. In 
        più, nei "Ternali in gloria de la regina di Francia" 
        l'Aretino lo descrive con questa iperbole:
 "Il Tolomei, a Homero conforme, (Anzi è maggior, perchè 
        il poeta invitto Qualche volta dormì, ei mai non dorme)."
 (Pietro Aretino, Lettere, Parigi, 1609, Libro VI, p. 26
 46 Dionigi Atanagi, et M. Alessandro Citolini: de quali io 
        ho veduto poemi in quella via, che peravventura agguagliano i più 
        culti, et vaghi latini(31)".Perché dunque, continua il Marcellino, si deve abbandonare una 
        lingua così ricca, rotonda e regolata come la nostra che la natura 
        stessa ce la da a bere con il primo latte, per andar mendicando le vesti 
        ai nostri pensieri tra le miserie di quella latina? Alcuni sostengono 
        che si deve continuare a scrivere in latino poiché questa ha un 
        poeta (Virgilio) ed un oratore (Cicerone) ai quali nessuno nella nostra 
        lingua piò stare alla pari. E vero, sostiene il Marcellino, che 
        scrivendo oggi in latino non si sarebbe capaci di eguagliarne l'altezza, 
        ma ciò solo perché lo spirito di quel tempo, oltreché 
        lontano, è del tutto morto, ed in questo idioma sarebbe impossibile 
        riprodurre le sensazioni e la freschezza degli antichi poeti. Se Omero 
        si leggesse in latino e Virgilio in greco perderebbero gran parte di "... 
        quegli effetti maravigliosi, che fanno nelle loro lingue natie, avvenga 
        che i medesimi concetti, i medesimi colori et le medesime figure fossero 
        col medesimo ordine dall'una all'altra lingua portate... Senza che sono 
        alcuni modi di dire, alcuni colori, alcune figure, et alcune particolarità, 
        che sogliono essere proprie di quelle lingue nelle quali sono nati, che 
        in ogni altra lingua perdono gratia et bellezza".
 Se i più grandi conoscitori della lingua latina, prosegue il Marcellino, 
        si mettessero a tradurre le novelle del Boccaccio, anzi se Cicerone stesso 
        risuscitasse e volesse portarle nella sua lingua "... io ardisco 
        di dire, che egli in quella favella non ce le potrebbe mettere davanti 
        con quei vivi et naturali colori che ha fatto il Boccaccio nella nostra 
        volgare". La lingua latina visse già una volta e fu acconcia 
        a vestire eloquentemente i concetti dei propri tempi, come oggi la nostra 
        è atta a vestire "leggiadramente" tutti i pensieri che 
        ci possono passare per la mente.
 Ogni grande scrittore del passato è tale per aver 
        utilizzato la lingua parlata dal popolo: Omero la greca, Virgilio la latina 
        e Dante la volgare. Quando quest'ultimo finge di rivolgersi a Virgilio 
        con la famosa terzina(32), egli 31) Dionigi Atanagi (1504 ca. - 1573 ca.). Originario di 
        Cagli, nelle Marche, nel 1532 si stabilisce a Roma entrando in contatto 
        con il Tolomei. Nella pubblicazione dell'opera "Versi et regole de 
        la nuova Poesia Toscana" (1539) - cfr. nota 7 - 1' Atanagi vi contribuì 
        con oltre venti liriche.
 In queste circostanze è probabile che abbia fatto conoscenza con 
        il Citolini. Qualche anno più tardi lo incontriamo a Venezia in 
        qualità di poeta, letterato ed editore. Una sua edizione di liriche: 
        "De le rime di diversi nobili pòeti toscani", pubblicata 
        a Venezia nel 1565, contiene una poesia del Citolini ed alcune del Marcellino. 
        L'Atanagi ed il Marcellino dovevano essere amici poichè uno dei 
        principali interlocutori de "Il Diamerone" è proprio 
        l'Atanagi.
 32) "Tu se' lo mio maestro e il mio autore..." (Inferno, I, 
        85-87), versi riportati per intero nel testo.
 47 intende dire di voler imitarlo e di cercare ispirazione 
        nello stile, ma non certo di voler esporre i concetti nella lingua di 
        Virgilio.Se oggi non c'è ancora nella nostra favella un grande scrittore, 
        ma Marcellino ne dubita, come a suo tempo il Citolini, questo non vuol 
        dire che la lingua sia imperfetta, si può solo accusare gli scrittori 
        di essersi scarsamente applicati nella nuova lingua, sdegnandola per molti 
        secoli, senza prendersi cura di coltivarla, di accrescerla, di farle prendere 
        vigore. Ciò fino ai tempi di Dante. Egli ed altri "chiari 
        intelletti" presero l'ardire di scrivere nella lingua parlata dalla 
        gente, al punto che Petrarca e Boccaccio, succeduti a quelli, la fecero 
        salire all'altezza che oggi si vede. E come è stato osservato dal 
        Bembo, non è detto che si sia già arrivati all'apice della 
        possibilità stilistica della nuova lingua.
 A duecento anni di distanza è curioso rilevare che il Petrarca 
        venne incoronato poeta in Campidoglio per i suoi versi latini, divenendo 
        celebre in tutta Europa. È però con il suo "Canzoniere 
        toscano" che oggi si è acquistato fama e gloria immortali. 
        Siccome ai nostri tempi - prosegue il Marcellino il rifiuto di scrivere 
        in volgare da parte dei dotti, è quasi completamente scomparso, 
        sarebbe auspicabile di volger nella lingua volgare, non solo tutti i testi 
        del passato, ma anche i codici e le leggi e mettere così al bando 
        il latino dall' attività giuridica e forense, latino peraltro oramai 
        ridotto ad un barbaro guazzabuglio.
 Solo nei testi religiosi e nella liturgia il Marcellino è contrario 
        a ricorrere alla nuova lingua, per continuare ad usare il latino. A suo 
        avviso ricoprire con il velo della lingua antica le cose sacre serve a 
        proteggerle dal volgo: "il quale spesso è così audace 
        e presuntuoso, come rozzo, et ignorante in voler intender le cose, di 
        ch'egli non è capace(33)".
 A sostegno di questa tesi tira in ballo i romani ed i greci che nascondevano 
        i misteri della religione sotto la copertura di lingue antiche e desuete.
 33) Non era questa l'opinione di Alessandro 
        Citolini che nella sua "Lettera", parlando del volgare, scrive 
        in proposito: "Habbiamo la santa legge dal nostro Dio insieme col 
        suo commento, in lingua più vera, che non è la latina". 
        E si riferisce alla traduzione in volgare del Nuovo Testamento di Antonio 
        Brucioli, stampata per la prima volta a Venezia nel 1530, seguito a distanza 
        di pochi anni da tutta la traduzione della Scrittura, accompagnata da 
        importanti commenti. I volgarizzamenti della Scrittura furono considerati 
        uno tra i più efficaci veicoli di trasmissione della Riforma protestante 
        in Italia e pertanto osteggiati, quindi proibiti e messi all'indice dalla 
        Controriforma, alla luce delle disposizioni emanate dal Concilio di Trento 
        in materia. A questa restrizione sulla stampa e all'intolleranza che prevedeva 
        la pubblica distruzione dei libri posti all'indice, solo Venezia, in tutta 
        Italia seppe alle volte coraggiosamente resistere. Il Marcellino, come 
        si evince dalla sua opera, è invece un osservante delle disposizioni 
        tridentine in fatto di stampa religiosa. Disposizioni che prescrivevano 
        una lettura dei testi evangelici esclusivamente sotto il magistero della 
        Chiesa e della sua gerarchia. 48 Per scrivere in volgare oggi si incontrano due opinioni. 
        La prima - dice il Marcellino - è di coloro che sostengono si debba 
        seguire il Boccaccio ed il Petrarca ed usare solo voci che si trovano 
        nelle loro opere. La seconda èquella che professa esser lecito 
        servirsi di qualsiasi voce, modo di dire, proveniente da ogni parte d'Italia 
        ed anche di usare parole straniere. Afferma il Marcellino, di non essere 
        né per il primo avviso, né per il secondo. Il suo parere 
        è di usare principalmente la lingua toscana poiché i due 
        scrittori più famosi, l'uno in verso e l'altro in prosa (Petrarca 
        e Boccaccio) hanno raggiunto alte vette di perfezione. E necessario però 
        continuare ad alimentarla con voci provenienti da altre regioni d' Italia 
        e pure con straniere quando queste siano già entrate nell'uso comune. 
        A tal proposito il Marcellino cita l'esempio della parola brindisi proveniente 
        dal tedesco, creanza dallo spagnolo, avanguardia e trincea dal francese.È poi possibile innovare partendo dall'uso del comune parlare, 
        come si è fatto per esempio con la parola piacere, dalla quale 
        è nato piacevole e piacevolezza e da gelosia, ingelosire. Aggiungere 
        nella lingua toscana parole tolte da altre contrade d' Italia è 
        non solo lecito, seguendo in questo l'esempio del Boccaccio, ma a volte 
        necessario. Gondola e bucintoro devono venir usate così come sono 
        state create dal popolo veneziano, quando si parla di Venezia, ma ciò 
        va fatto sempre in modo circostanziato e specifico. Per questo motivo, 
        aggiunge il Marcellino, oggi si accusa Dante, di aver avuto poco riguardo 
        accogliendo nei suoi scritti senza discriminazioni parole e voci provenienti 
        da ogni parte d'Italia e straniere. Quindi se egli è considerato 
        un sommo per erudizione e dottrina, non è altrettanto lodato dal 
        Marcellino come scrittore, per la troppa libertà che si è 
        preso nella lingua. E considerato altrettanto sbagliato, come inutile 
        affettazione, usare però acriticamente tante parole tolte dalle 
        opere del Petrarca, del Boccaccio e da altri scrittori antichi del volgare, 
        oggi cadute in disuso e che non si trovano più sulla bocca del 
        popolo. Volgendo alla fine del suo discorso egli spezza una lancia anche 
        nei confronti della lingua veneziana, che sebbene poco apprezzata dal 
        Bembo: "anch'ella sarebbe atta a condurci a più che mezzana 
        grandezza, s'ella fosse di tempo in tempo da dotta et leggiadra mano coltivata".
 Quali considerazioni e confronti si possono ricavare dopo 
        la lettura dei due discorsi e la loro sintetica esposizione? Se ne sono 
        precedentemente occupati due studiosi: Lina Fessia nel 1939(34) e Giovanni 
        Presa nel  34) Lina Fessia, A.C., esule italiano in 
        Inghilterra, in "Rendiconti del Reale Istituto Lombardodi Scienze e Lettere", Milano, Hoepli, 1939-40, volume LXXIII, IV 
        della serie III, pp. 213-
 243.
 35) Cfr. nota 12.
 49 La prima ritiene il discorso del Marcellino "una parafrasi 
        con qua e là piccole aggiunte della lettera del Citolini del '40. 
        Ricorrono - ella scrive - non solo tutte le ragioni del Citolini, per 
        cui il latino è insufficente, come lingua parlata, alla vita dei 
        tempi, ma si ritrovano anche gli stessi esempi, le stesse parole tedesche 
        e lo stesso modo di latinizzarle per cui io penserei che questo discorso 
        sia largamente opera del Citolini che lo pubblicò(36)".Un po' più articolate, ma non propriamente convincenti, sono invece 
        le conclusioni tirate da Giovanni Presa. Egli scrive apertamente "di 
        non condividere il giudizio della Fes sia sulla puntuale corrispondenza 
        o, addirittura, sulla presunta equivalenza della lettera citoliniana del 
        '40 con la lettera marcelliniana del '64: le due lettere sono, sì, 
        sostanzialmente le stesse per i concetti fondamentali e per la meta cui 
        tendono ed a cui giungono, ma si diversificano per una più abile, 
        direi più avvocatesca difesa del volgare nella lettera marcelliniana, 
        per le più erudite disgressioni, e per le più ricche variazioni 
        tematiche: come si converrebbe appunto alla capacità critica, alla 
        informazione storiografica ed alla abilità polemica del Citolini, 
        maturatesi, arricchitesi ed affinatesi in più di vent' anni, quanti 
        ne intercorrono appunto dal '40 al '61, in quanto la lettera, over discorso, 
        che va sotto il nome del Marcellino, fu composta nel
 Di sicuro ha più ragioni il Presa della Fessia.
 Però bisognerebbe compiere una approfondita ricognizione nell' 
        ambiente accademico veneziano e padovano tra gli anni '40 e '60 e studiare 
        in particolare i dibattiti svoltisi intorno alla lingua. Non sono da sottovalutare, 
        per riferirsi solo ai due nomi maggiori, gli scritti lasciatici da Sperone 
        Speroni(38) e dal suo allievo Bernardino Tomitato(39). Non è neppure 
        da trascurare la traccia affidataci da Ruscelli nellaletteradedicatoria 
        aVinciguerra
 36) Op. cit. p. 221.37) Op. cit. p. 1006.
 38) Sperone Speroni (1500-1588), padovano, letterato, filosofo, critico 
        ed animatore dell'Accademia degli Infiammati, era tenuto in grande considerazione 
        dall'Aretino, che gli riconosceva il titolo di maestro. Si occupò 
        del problema linguistico in più occasioni. Nel "Dialogo delle 
        lingue", pubblicato nel 1542, ma scritto già da alcuni anni, 
        egli prende una netta posizione per il volgare, seguendo però le 
        teorie del Bembo per un volgare toscaneggiante, incline a poche aperture 
        verso le lingue delle altre regioni italiane. Nelle successive opere che 
        trattano della lingua egli si fa invece portavoce del superamento del 
        toscanesimo, ritenendo necessario il suo arricchimento ed ampliamento 
        con vocaboli e forme suggerite dalle altre parlate italiane. (Cfr. Maurizio 
        Vitale, La questione della lingua, Palermo, Palumbo, 1984, pp. 68-70).
 39) Bernardino Tomitano (1517-1576), discepolo dello Speroni pubblicò 
        nel 1545 i:
 "Ragionamenti della lingua toscana (poi ampliati e ripubblicati nel 
        1570), sostenendo un modesto allargamento del toscano alla parlata delle 
        altre regioni, forse anticipando le convinzioni che seguirà più 
        tardi il suo maestro.
 50 di Collalto, premessa alla pubblicazione degli scritti del 
        Citolini nel 155 1(40).Vi cogliamo una tangibile prova che il serravallese, continuando negli 
        anni ad interessarsi di problemi linguistici, veniva invitato a tenere 
        pubbliche relazioni alla presenza di autorevoli uomini di lettere, e di 
        vedersi pertanto riconosciuto un credito non indifferente in questo campo.
 E di notevole levatura era esattamente la figura - ricordata dal Ruscelli 
        di Trifone Gabriele(41), patrizio e letterato veneziano che aveva fatto 
        delle proprie ville di campagna e della casa in Murano un cenacolo di 
        letterati, tra i più esclusivi del suo tempo. In una di queste 
        riunioni, scrive il Ruscelli al Collalto: "... l'udimmo (il Citolini) 
        con molta maraviglia et piacer di tutti, discorrere alla presentia di 
        M. Trifon Gabriele(42)" sopra le ragioni in difesa del volgare. Questo 
        personaggio, è bene ricordarlo, è anche il dedicatario dell'opera: 
        "Discorso in materia del suo theatro" di Giulio Camillo De1minio(43) 
        e godeva di un grande prestigio e rispetto - cosa non facile - agli occhi 
        di Pietro Aretino. Così ancora una volta si stringe il cerchio 
        delle amicizie letterarie veneziane di Alessandro Citolini.
 Nei medesimi ambienti si può ipotizzare sia cresciuto Valerio Marcellino, 
        avvocato veneziano, impiegato nell' amministrazione della Serenissima, 
        ma con una forte propensione agli studi letterari ed alla poesia. Non 
        mi sembra sia stato ancor rilevato che fra gli interlocutori della "Tipocosmia" 
        prenda parte, dalla seconda giornata, proprio il"... gentilissimo 
        M. Valerio Marcellino, giovane di singolare aspettazione" per dirla 
        con le parole dello stesso Citolini(44). Questa circostanza e reputando 
        la "Tipocosmia" scritta qualche anno avanti la sua pubblicazione(45), 
        fanno pensare che il discorso sulla
 40) Cfr. nota 25.41) Trifon (e) Gabriele (1470-1549) era chiamato il Socrate veneziano, 
        poiché aveva trasformato i sui palazzi in scuole ed accademie, 
        dove dava lezioni gratuite ai discepoli ed accoglieva gli amici per riunioni 
        intellettuali. Rifiutò la sede vescovile di Treviso e più 
        tardi quella di patriarca a Venezia per dedicarsi completamente allo studio. 
        I suoi ospiti più assidui erano: Gian Giorgio Trissino, Francesco 
        Sansovino, Girolamo Molino e Giulio Camillo Delminio.
 42) Cfr. nota 25.
 43) Composto intorno all 530, ma pubblicato, come tutti i restanti scritti 
        del Camillo, dopo la sua morte avvenuta a Milano nel 1544. (Il "Discorso 
        in materia del suo theatro" ora si può leggere in G. C. D., 
        "L'idea del Teatro e altri scritti di retorica", Torino, Edizioni 
        RES, 1990). 44) "Tipocosmia", p. 59.
 45) L'opera maggiore del Citolini, stando a quanto afferma il suo autore 
        nella lettera dedicatoria al vescovo di Arras, era già stata partorita 
        da dieci anni ed inoltre a p. 1 scrive che venne composta: "... nel 
        tempo, che per lo Eccellentissimo d'Urbino era appresso la Serenissima 
        Signoria ambasciatore il signor Giangiacopo Leonardi Conte di Montelabate...". 
        Gian Jacopo Leonardi (1498-1562), fu creato dai duchi d'Urbino conte di 
        Montellabate e inviato a Venezia in qualità di ambasciatore dagli 
        anni trenta fino agli inizi del 1553. Era un esperto di ingegneria militare 
        ed in ottimi rapporti con l'Aretino. Quindi la stesura della
 51 lingua, precedente "Il Diamerone", sia frutto 
        di esposizioni letterarie sostenute dal Citolini in qualche accademia 
        o casa patrizia, alla presenza del Marcellino. Passando in rassegna gli 
        interlocutori della "Tipocosmia" e de "Il Diamerone", 
        cogliamo se non gli stessi personaggi, almeno il gruppo orbitante attorno 
        a Domenico Verniero(46), figura centrale e preminente nei dialoghi delle 
        due opere.Potrebbe così venir dimostrata, almeno per via indiretta, la consuetudine 
        del Citolini e del Marcellino a ritrovarsi negli stessi circoli culturali 
        e ben presto fra i due si sarebbe manifestata reciproca stima ed affinità, 
        nonostante li separasse un divario di età più che generazionale.
 E quindi fuori luogo il so spetto di p1 agio compiuto dal Marcellino ai 
        danni del Citolini come insinua il Presa e riporta acriticamente Maurizio 
        Vitale(47). Cadrebbero inoltre le ipotesi che il Citolini, oramai braccato 
        dagli inquisitori per sospetta eresia, fosse costretto a mimetizzarsi 
        dietro altrui nome per aggiornare il suo lavoro del '40, lasciando così 
        il merito al Marcellino. Non si comprende allora perché abbia potuto 
        tranquillamente firmare la lettera dedicatoria ad Alvise Cornaro!
 Al di là di tante congetture, ed a meno di ulteriori scoperte, 
        mi sembra più facile ritenere che il Marcellino fosse sollecitato, 
        proprio dal Citolini, a porre per iscritto ciò che più volte 
        gli aveva sentito esporre(48).
 Credo che il serravallese si rendesse ben conto che era ormai tempo di 
        porre la parola fine ad un dibattito esauritosi con la definitiva vittoria 
        del volgare sul latino e chiudere così le polemiche che avevano 
        coinvolto tanti letterati per tutta la prima metà del sedicesimo 
        secolo.
 "Tipocosmia" si può ragionevolmente far risalire subito 
        dopo il 1550 ed il manoscritto potrebbe essere stato letto dal Marcellino 
        e dal suo circolo, molti anni avanti la pubblicazione, avvenuta a Venezia 
        solo nel 1561.
 46) "Il Diamerone" ha un preciso riferimento cronologico per 
        stabilire la datazione della sua composizione. A p. 5 della prima giornata 
        si legge che: "... un famigliare del Magnifico M. Giorgio Gradenigo 
        portò alcune lettere, che venivano da Roma al suo padrone: il quale 
        presele et apertane una, che era del Magnifico M. Bernardo Cappello, vi 
        trovò dentro due bellissimi sonetti, fatti nella morte della Signora 
        Ireine di Spilimbergo". Ebbene Irene di Spilimbergo morì il 
        17 dicembre 1559 e l'eco di questa improvvisa dipartita colpì profondamente 
        l'ambiente aristocratico e letterario di Venezia, tanto che nel 1561 uscì, 
        sempre a Venezia, a cura di Dionigi Atanagi il volume di poesie: "Rimedi 
        diversi nobilissimi et eccellentissimi autori, in morte della Signora 
        Irene di Spilimbergo". "Il Diamerone" è indubbiamente 
        composto tra il '60 ed il '61 e i dialoghi si svolgono nella casa di Domenico 
        Venier (o). Costui, nato nel 1517 e morto nel 1582, patrizio veneto e 
        poeta, rimase paralizzato alle gambe a 32 anni; per questo motivo dedicò 
        il resto della sua vita a raccogliere in casa propria poeti e letterati, 
        seguaci sopratutto del Bembo e della corrente di poesia del petrarchismo 
        cinquecentesco.
 47) Op. cit. p. 50.
 48) Soprattutto per quanto sottolineato con nota 33, ritengo che l'opera 
        sia indubbiamente uscita dalla penna del Marcellino, senza revisioni, 
        rettifiche o correzioni da parte del Citolini.
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