GIAMPAOLO ZAGONEL
ALESSANDRO CITOLINI, VALERIO MARCELLINO E LE
RISPETTIVE LETTERE IN DIFESA DELLA LINGUA VOLGARE.
Nel 1564 esce a Venezia, per i tipi di Gabriel Giolito de'
Ferrari "Il
Diamerone". Il titolo completo (cfr. il frontespizio riprodotto)
così recita: Il
Diamerone / di M. Valerio Marcellino. / Ove con vive ragioni si mostra,
/ La
Morte non essere quel male, che '1 senso si persuade. / Con una dotta,
e
giudiciosa lettera, I Over discorso intorno alla lingua volgare(1).
Il volume, inusuale nella sua composizione, comprende in
ordine di sequenza: una lettera dedicatoria al chiarissimo Signor Luigi
Cornero(2) di Alessandro Citolini, una tavola delle cose più notabili
riguardanti "Il Diamerone" e la "Lettera, over discorso
di M. Valerio Marcellino, intorno a la lingua volgare", il tutto
su 46 pagine prive di numerazione. Incontriamo quindi il trattato vero
e proprio, un dialogo morale in due giornate (diamerone), che si stende
per 128 pagine numerate. Infine chiudono il volume due pagine:
"errori da correggersi" (l'odierno errata corrige), ed una nota
riguardante aspetti grammaticali ed ortografici del testo.
L'interesse per quest'opera è duplice: da un lato mostra Alessandro
Citolini nella inusitata veste di curatore di una altrui pubblicazione,
anzichè in quella di autore. Dall' altro suscita curiosità
ed attenzione la lettura della
1) Conosco tre edizioni dell'opera: 1564, 1565 e 1568.
Le citazioni e le riproduzioni del testo
sono tratte da un esemplare del 1565.
2) Alvise Cornaro. (Cfr. più avanti nella nota alla lettera dedicatoria
di A.C.).
GIANPAOLO ZAGONEL. Laureato in Economia e Commercio, dirigente
industriale. Appassionato di studi letterari, ha al suo attivo numerose
ricerche di letteratura italiana pubblicate in diversi periodici. È
uscita in questi giorni, a sua cura, la prima edizione integrale delle
Lettere di Lorenzo Da Ponte.
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"Lettera, over discorso intorno al volgare" del Marcellino,
poichè sembra ricalcare e riprendere con più forza le considerazioni
che il Citolini svolse molti anni addietro con uno scritto sullo stesso
argomento.
Gli anni 1539-40 vedono Alessandro Citolini soggiornare,
o quanto meno trascorrere lunghi periodi a Roma e frequentare il circolo
dei letterati gravitanti attorno alla ragguardevole personalità
del senese Claudio Tolomei(3). Nel 1525 costui si era occupato, con la
pubblicazione dell'opera "Il Polito" della riforma ortografica
proposta da Gian Giorgio Trissino, osteggiandola, ma nel contempo proponendone
una in sintonia con la pronuncia italiana(4). Qualche anno più
tardi, nel 1528, il Tolomei fa circolare il manoscritto dell'opera: "Il
Cesano" con il quale prende di mira i sostenitori della lingua latina
contro i detrattori del volgare: un'aspra battaglia che vede alla fine
vincitore il gruppo da lui capeggiato(5). Sempre a Roma, sotto la protezione
3) Claudio Tolomei (1492-1556), nato a Siena,
studia legge a Bologna e già nel 1514 pubblica una "Laude
delle donne bolognesi". Dopo un breve soggiorno nella sua città
è costretto nel 1518, per ragioni politiche, ad abbandonare Siena,
portandosi a Roma sotto la protezione dei Medici. Qui acquista rapidamente
fama ed onori tenendo pubbliche lezioni e lanciandosi in accese dispute
letterarie. Abbandonata la carriera legale si occupa pressoché
a tempo pieno di lettere, prendendo parte attiva alle battaglie linguistiche
e grammaticali. (L'unico lavoro attendibile e documentato sul personaggio
è quello di Luigi Sbaragli: "Claudio Tolomei, umanista senese
del Cinquecento", Siena, Accademia per le Arti e per le Lettere,
1939. Da questo studio attingo parte delle notizie ed alcuni riferimenti
bibliografici).
4)11 titolo esatto è: "De le lettere nuovamente aggiunte libro
di Adriano Franci da Siena intitolato, il polito". Venne pubblicato
dal Tolomei sotto altro nome ed è un dialogo tra seguaci e critici
dell'innovazione trissiniana. Gian Giorgio Trissino aveva proposto una
riforma dell'alfabeto con la "Canzone a Clemente VII" e colla
"Sofonisba" stampando quest'ultima opera con nuovi caratteri
(lettere) dell'alfabeto (Luigi Sbaragli, op. cit. pp. 15-25). Com'è
noto la proposta del Trissino non andò in porto salvo la distinzione
tra il segno u per la vocale ed il segno v per la consonante, mentre prima
di lui consonante e vocale si scrivevano con l'unico segno u. Un riassunto
della grafia proposta invece dal Tolomei è nella lettera di Fabio
Benvoglienti a Mino Celsi, raccolta nelle "Lettere, libri sette"
di Claudio Tolomei, Venezia, 1553 (pp. 288-29 1). Sullo stesso argomento
figurano, nel volume appena citato, parecchie missive indirizzate dal
Tolomei ad Alessandro Citolini.
5) Verso la fine del 1529 convennero a Bologna per l'incoronazione di
Carlo V i più famosi letterati allora in circolazione e per l'inaugurazione
dell'Anno Accademico bolognese il friulano Romolo Amaseo pronunciò
l'orazione "De linguae latinae uso retinendo" in favore del
latino come lingua universale. Erano presenti tra gli altri Pietro Bembo,
Gian Giorgio Trissino, Claudio Tolomei, Marcantonio Flaminio e Giulio
Camillo. È probabile che al seguito del Camillo ci fosse Alessandro
Citolini che forse in quest'occasione ebbe modo di conoscere il Tolomei.
La risonanza di quest'orazione provocò una dura reazione del Tolomei
che ampliò il suo Cesano in difesa del volgare facendone circolare
molte copie manoscritte. Quest'opera fu data alle stampe solo nel 1554
a Venenzia, quando la polemica sull'uso del volgare era quasi inutile,
in un'edizione scorretta ed incompleta, giunta così fino a quelle
dei nostri giorni. (Sbaragli, op. cit. pp. 204-5).
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del cardinale Ippolito de' Medici e sullo slancio della ripresa morale
che investe la città dopo il Sacco del 1527, il Tolomei fonda l'Accademia
della Virtù. Nelle due adunanze settimanali si discuterà
un po' di tutto, dalla letteratura all'architettura, ma non erano infrequenti
le facezie e le burle(6). Dopo la morte del suo protettore (1538)1' Accademia,
mutando nome si chiamerà: della Poesia nuova. Una ricerca compiuta
da una nutrita schiera di letterati, sotto la guida del Tolomei, approda
nel 1539 alla pubblicazione dell'opera "Versi, et regole de la nuova
poesia toscana", dove sono contenute tre poesie di Alessandro Citolini(7).
Buon pubblicista, il Tolomei aveva fatto precedere l'uscita del volume
con la circolazione di qualche saggio manoscritto, spedito ad alcuni dei
suoi numerosi corrispondenti. In luogo di approvazioni, come si aspettava,
gli giunsero però severe critiche, particolarmente cocenti quelle
di Paolo Giovio e Benedetto Varchi(8).
È improbabile che Alessandro Citolini possa aver fatto parte attiva
nelle Accademie del Tolomei(9), ma è certa la sua familiarità
con il senese e la maturazione di scelte e convinzioni comuni. Riprova
ne è la sua prima pubblicazione, quella "Lettera in difesa
de la lingua volgare" dedicata a Cos(i)mo Pa1lavicino(10), finita
di scrivere a Roma il 10 settembre 1540 e
6) L'Accademia si riuniva in casa del Tolomei,
come asserisce Luca Contile nella sua corrispondenza: "Vo per ordinario
ogni giorno in casa di Mons. Tolomei, dove frequento l'Accademia della
Virtù, la quale oltre che sia ricca di tutte le lingue possiede
anco tutte le scienze". (Luca Contile, Lettere, Pavia, 1564, vol.
I, p. 19) e ne parla anche Annibal Caro nella lettera a Benedetto Varchi
del 10 marzo 1538. (Annibal Caro, Lettere familiari, Firenze, le Monnier,
1957-61, vol. I, p. 69).
7) Si tratta di un'antologia comprendente i versi di una dozzina di poeti
tra i quali il Tolomei stesso, Annibal Caro, Dionigi Atanagi, Antonio
Renieri, Pavolo Gualterio ecc. Alla fine delle poesie segue una specie
di programma intitolato "Regolette della nuova poesia toscana"
in cui vengono codificate - in maniera assai sbrigativa - le norme del
poetare in lingua italiana secondo gli accorgimenti metrici quantitativi
e fonici della poesia classica. (Diz. delle opere Bompiani, Milano, 1981,
voi. VII, p. 702).
La metrica classica dei Tolomei e seguaci non riuscì ad affermarsi
nella nostra letteratura. Tuttavia essa non cadde interamente in oblio,
fu ripresa nel secolo scorso dal Carducci prima nelle sue "Odi Barbare"
e poi con la pubblicazione dell'antologia da egli stesso curata "La
poesia barbara nei secoli XV e XVI", che ripresenta ed allarga l'esperienza
del Tolomei. (Bologna, Zanichelli, 1881 ed ora ristampa anastatica 1985).
8) Per le lodi e critiche di queste poesie, assai documentato è
lo Sbaragli. (Op. cit. pp. 57-65).
9) Potrebbe averne fatto parte l'altro grande serravallese Marcantonio
Flaminio. (Cfr. Alessandro Pastore, M.F. Milano, Angeli, 1981, p. 153).
10) Cosimo Pallavicino, frate carmelitano come il suo più famoso
fratello Giovanni Battista. Quest'ultimo fu più volte imprigionato
per sospetta eresia luterana, anche nel 1540 a Roma. Cosimo lesse al re
Francesco I due orazioni scritte da Giulio Camillo per impetrare la scarcerazione
del fratello a Parigi, con successo. Doveva quindi far parte come il Citolini
del gruppo dei seguaci del Camillo perché è citato in una
poesia di quest'ultimo: "Cosmo, ch' ornate il nobil secol nostro,
I Voi, che '1 gran Re nel culto dir facondo I Legaste con stupor
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stampata a Venezia nel dicembre dello stesso anno sotto i torchi del Marcolini(11).
Un'analisi sufficentemente dettagliata è quella a suo tempo compiuta
da Giovanni Presa(12).
Ora ne proponiamo un' ulteriore rilettura, approfittando della recente
ristampa anastatica della rara edizione del 1
Innanzitutto Citolini ci fa sapere che vuol rispondere ad
una lettera "scritta da non so cui contra la lingua volgare(14)"
piena di un odio manifesto contro l'uso di quest'ultima. Egli dichiara
che non vuol parlar male del latino per dimostrare che il volgare è
migliore, ma affrontare il problema smontando i tre ragionamenti che l'autore
ignoto palesa a sostegno delle sue tesi, che sono: essere la lingua latina
più nobile, secondo più ricca, al terzo più comune,
cioè compresa da molti.
di tutto 'I mondo, / Rendendo luce al dolce
frate vostro;" (Giulio Camillo, Opere, Venezia, Giolito de' Ferrari,
1560, p. 267). Cfr. pure: Il luterano G.B. Pallavicini e due orazioni
di Giulio Camillo Delminio, in "Nuova rivista storica", Società
Ed. Dante Alighieri, gennaio-aprile 1974, fasc. I-Il, pp. 63-70.
I I) È stato più volte scritto che la "Lettera"
venne stampata ad insaputa del suo autore, per ultimo Massimo Firpo, curatore
della voce Citolini per il Diz. Biogr. degli Italiani (1982):
"opuscolo, edito all' insaputa dell'autore, come risulta da una lettera
del tipografo all'Aretino stampata sul verso del frontespizio di alcuni
esemplari del libro". Di questa lettera ne parla per la prima volta
Gian Maria Mazzuchelli, autore nel 1741 (ed in sec. ed. nel 1763) di una
biografia sull'Aretino, in cui scrive: "Il Marcolini, che gli indirizzò
una lettera di messer Alessandro Citolini in difesa della lingua volgare".
(cfr. Lettere sull'arte di Pietro Aretino, Milano, Ed. del Milione, 1957,
voI, terzo, tomo primo, p. 59). Non esiste, che io sappia, un'edizione
della "Lettera", nelle varie biblioteche che la custodiscono,
che contenga la dedica al famoso poeta e d'altra parte non si trova neppure
nei sue volumi di lettere di vari, indirizzate all'Aretino, nessuna, fra
le tante del Marcolini, che possa riferirsi a questa circostanza. Giudico
invece molto probabile che Citolini stesso abbia presenziato alla stampa
del suo opuscolo, come afferma Scipione Casali quando scrive: "L'edizione
è corretta, e mostra di essere stata assistita dall 'Autore, anche
per la particolare ortografia e punteggiatura introdottavi: imperoché
non usò mai disporre lettera majuscola in principio di periodo
dopo il punto, quand' anche sia daccapo... e l'e congiunzione, che soleasi
a que' tempi scrivere e stampare alla latina et, pare fusa appositamente
per questa Lettera del Citolini in singolar forma, cioè una specie
di apostrofo attaccato all'occhietto della vocale: la qual cifra non trovo
usata in nessun'altra edizione marcoliniana". (Scipione Casali, Gli
annali della Tipografia veneziana di Francesco Marcolini, Bologna, 1861
e ristampa a cura di Alfredo Gerace, 1953, pp. 130-31).
12) Giovanni Presa, A. Citolini, V. Marcellino e V. Marostica nella vicenda
d'una lettera in difesa del volgare, in "Studi in onore di Alberto
Chiari", Brescia, Paideia, 1973, voI. Il, pp. 1001 e segg.
13) "La lettera de la lingua volgare" a cura di Nilo Faldon,
Conegliano, Litografia Battivelli, 1990.
14) Si son fatte più ipotesi sull'autore ignoto che costrinse Citolini
a rispondere con la "Lettera", ma con nessun certo fondamento
sulla sua identità.
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Per nobiltà l'autore ignoto intende più antica
ed il Citolini risponde che se ciò fosse vero le lingue oramai
morte degli ebrei, caldei, assiri, ecc. sarebbero più nobili della
latina perché più antiche. Spostandosi nel campo dell'arte
Citolini dice che per lo stesso motivo le opere "ch' oggidì
escono da lo scalpello, e dal pennello del gran Michiel'agnolo" sarebbero
inferiori a quelle antiche "per esser - quest'ultime - già
da gran tempo fatte". Il serravallese continua sostenendo che la
nobiltà non sta affatto nell' antichità, altrimenti scrittori
latini antichi come Livio Andronico, Accio ed Ennio, sarebbero migliori
di altri più moderni come Cicerone, Cesare e Virgilio; che questo
non sia vero lo possono giudicare facilmente tutti. La lingua volgare
è vile - sostiene l'ignoto autore - perché è nata
da "genti strane, ferigne, e barbaresche" e Citolini di rimando
risponde che è abbastanza evidente comprendere come la lingua volgare
derivi in gran parte dalla latina e pochissimo dipenda dai barbari venuti
dall'esterno. Tante cose poi venute dal basso, da umili origini - continua
Citolini - sono diventate eccellenti e questo vale anche per gli uomini.
David diventa re pur essendo nato pastore e da umili origini escono pure
Socrate, Euripide, Demostene ed Omero. Anche se non si può negare
che la nuova lingua sia nata dalla corruzione della latina, ciò
non significa che sia vile, poiché la corruzione di una cosa è
la generazione di un'altra. Nondimeno la latina è nata per corruzione
di una precedente lingua, quindi per lo stesso motivo biasimando l'una
si dovrebbe biasimare anche l'altra.
Prendendosela poi con quello che alcuni studiosi "oltramontani"
dicono non essere l'Italia al presente nobile come nel passato, ma degenerata
per la mescolanza di tanti barbari, Citolini sostiene con forza che il
nostro paese èsempre sotto lo stesso cielo e ciò è
sufficente a far mutare anche la natura degli uomini che vi vanno ad abitare:
"Io vi dico, che la Italia è quella, che sempre fu, perciocché
ella è sotto quel medesimo Cielo che sempre fu, et esso Cielo le
piove in grembo quelle medesime gratie, che sempre piové, et essa
produce quei medesimi frutti, che sempre produsse". Consapevole inoltre
della grandezza del genio italiano del Rinascimento, Citolini prosegue
"e vi ricorderei infiniti de' nostri huomini ne le scientie, nel
mestier de l'arme, et in molte eccellentissime arti pari a i nostri antichi
famosi Padri, e non pochi superiori". Queste affermazioni dovrebbero
servire a convincere gli scettici che la lingua volgare, già da
gran tempo uscita alla luce, sta per superare la latina.
Il secondo punto, e cioè che la lingua latina è ricchissima
di scrittori, mentre la volgare ne è poverissima, il Citolini lo
affronta partendo dalla considerazione che intanto la lingua latina è
sepolta nei libri, mentre la volgare è viva ed alimentata dalla
parlata della popolazione. Se anche non avesse scrittori o ne avesse pochi
non per questo la lingua sarebbe meno ricca. Se uno al giorno d'oggi volesse
- continua Citolini - scrivere i fatti e gli avvenimenti in latino come
potrebbe, parlando ad esempio della guerra,
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descrivere in questa lingua parole come: galeoni, caravelle,
bocche di fuoco, ecc., non potrebbe di certo farle terminare in "bus"
o in "orum".
Non è giusto neppure ricorrere a giri di parole poiché "...
voi non trovereste mai tra tutte le masseritie de la lingua italiana vesti,
che stiano bene a tutti questi concetti". Quindi se la lingua latina
generò la volgare e se questa si gode l'eredità della latina
morta non potrà essere rigenerata dalla sua figliola con l'aggiungerle
vocaboli nuovi. Ciò non toglie - prosegue Citolini
- che ogni uomo di cultura non abbia a possedere la conoscenza della vecchia
lingua latina per imparare le cose che in quella vi sono scritte. Ma fatto
questo si deve parlare, scrivere, comporre ed esercitarsi nella lingua
volgare.
Il Citolini passa poi ad analizzare il nome da dare alla nuova lingua
che l'autore ignoto chiama toscana. Suo consiglio è che, o volgare,
o toscana, la nuova lingua debba contenere tutto quello che di bello e
buono c'è nelle diverse regioni d' Italia ed abbandonare quello
che di brutto c'è anche nella Toscana. E a testimonianza della
sua asserzione fa intervenire gli esempi del Petrarca e del Boccaccio
che usarono nei loro scritti non solo parole provenienti dalla propria
terra, per cui, conclude Citolini: "Io voglio starmi nella toscana,
ma non come in una prigione, ma come in una bella, e spatiosa piazza,
dove tutti i nobili spiriti d'Italia si riducono".
Il terzo concetto manifestato dall' ignoto autore a sostegno delle sue
tesi è che la lingua latina è sparsa in tutti i paesi europei,
mentre la volgare non esce dai confini italiani. Il serravallese sostiene
invece che la nostra parlata è conosciuta da molti in Francia(15)
ed in altri paesi, dice inoltre che se si scrivesse in latino, ciò
sarebbe inteso da qualche straniero, ma pochi in Italia lo comprenderebbero,
al contrario del volgare capito da tutti. Altra asserzione dell'ignoto
autore è che la lingua volgare è efficace solo per narrare
favole e storie d'amore, ma non si presta per discorrere di filosofia,
astrologia e materie consimili. Citolini confuta tale convinzione dicendo
che sono oramai tradotti nella lingua volgare filosofi greci, scrittori
latini, testi evangelici, trattati di architettura, libri di storia e
scienze(16) e questo dimostra che con la nuova lingua si possono esprimere
tanti concetti e renderli comprensibili al maggior numero possibile di
persone, che non conoscendo le vecchie lingue ne verrebbero escluse.
Gli scrittori del volgare sono pochi, dice l'autore ignoto, solo Petrarca
e Boccaccio, mentre i latini sono molti ed inoltre quei due non eguagliano
i grandi scrittori del passato. Ad impugnare queste affermazioni il Citolini
fa
15) La "Lettera" ha più
di un riscontro sui viaggi compiuti in Francia dal Citolini.
16) Con l' avvento della stampa iniziarono ben presto i "volgarizzamenti"
ossia le traduzioni
nella nostra lingua dei classici greci o latini da parte dei più
famosi umanisti del primo
Cinquecento. In pochi decenni quasi tutto il pensiero e la letteratura
classica, nonché trattati
di scienza e storia furono a portata di mano di un consistente numero
di lettori.
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scendere in campo l'autorità di due contemporanei:
Giulio Camillo(17) 7) e Bernardino Daniello(18) a sostegno della grandezza
poetica del Petrarca, e lo scrittore di origine greca Marullo(19) a sostegno
del Boccaccio. Quanto poi alle lodi che l'ignoto autore fa nei confronti
di due scrittori contemporanei che scrivono in latino, il Bembo(20) ed
il Molza(21) Citolini afferma che sebbene Petrarca e Boccaccio scrivessero
anche in latino, la loro fama èesclusivamente legata agli scritti
in volgare.
Quindi il Citolini se la prende con coloro che al giorno d'oggi parlano
e scrivono in latino, i Pedanti(22), derisi nelle Accademie allo stesso
modo in cui venivano scherniti dai latini coloro che si ostinavano a parlar
greco. La conclusione del lungo discorso del nostro autore è l'invito
a tutti di proseguire sull'impiego della lingua volgare in ogni attività
umana, lodandone la ricchezza di parole, la dolcezza e soavità
della sua espressione "per la temperata mescolanza de le vocali con
le consonanti" ed è per questo - egli sostiene - che ogni
giorno esce un nuovo scrittore. Perché dunque contrastarla? "Perché
non più tosto amarla et abbracciarla? Amiamola, seguiamola, abbracciamola
adunque; poi che si vede chiaro; che quelli che fanno altramente sono
in error3(23)".
17) Il Citolini lo chiama semplicemente Messer
Giulio, senza aggiungervi il cognome, ma ècerto trattarsi del suo
maestro Giulio Camillo (Delminio). Se anche in vita egli non pubblica
quasi nulla, pur tuttavia andò famoso tra i contemporanei per i
suoi commenti sul Petrarca. In paste si trovano racchiusi nell'edizioni
postume delle sue opere con il titolo: "Esposizione sopra il primo
e secondo sonetto del Petrarca". (cfr. G. Camillo, Opere, Venezia,
Giolito de' Ferrari, 1566, Tomo Il, pp. 99-122).
18) Bernardino Daniello (1500-1565), autore di un commento sul Petrarca
pubblicato nel
1541 e, come anche ricorda il Citolini, di una "Poetica volgare"
(1536), in forma di dialogo, che ebbe ai suoi tempi celebrità ed
autorità.
19) Michele Marullo (1453-1500) nato a Costantinopoli, trasferitosi fanciullo
a Napoli e poi a Firenze. Amico del Pontano e del Sannazaro scrisse in
latino ed in lingua volgare.
20) Pietro Bembo (1470-1547) famoso per gli "Asolani" e le "Prose
della lingua volgare" scrisse altresì in latino. Qualche contemporaneo
(Pietro da Barga) sosteneva malignamente che il Bembo esortava gli altri
a scrivere in volgare per rimanere da solo a primeggiare nel greco e nel
latino.
21) Francesco Maria Molza (1489-1544). Autore inizialmente di numerosi
versi latini, si diede poi al volgare e la sua opera più importante
è considerata oggi il poemetto in ottave "La ninfa tiberina".
Vissuto per molto tempo a Roma (fino al 1543), fu protetto dal cardinale
Ippolito de' Medici e fece parte dell'Accademia della Virtù dei
Tolomei. Il Citolini potrebbe averlo conosciuto proprio nei suoi soggiorni
romani.
22) Pedante è il tipico personaggio della letteratura e della commedia
cinquecentesca che impersona il maestro presuntuoso, saccente, con una
pomposa quanto approssimata parlata latineggiante. Ne ha delineato un
gustoso ritratto Arturo Graf: I Pedanti, in "Attraverso il Cinquecento",
Torino, Chiantore, 1926.
23) La lettura della "Lettera" si presterebbe ad altre analisi
interessanti la personalità artistica e la formazione di A.C. Una
per tutte: gli elementi, sparsi qua e là nel testo, di critica
agli ordini
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La pubblicazione di quest'opera diede al serravallese una
discreta notorietà nell' ambito dei letterati che nel Cinquecento
dibattev ano il problema dell'uso della lingua volgare e l'edizione andò
rapidamente esaurendosi.
Dieci anni più tardi Alessandro Citolini ricevette la richiesta
di una copia della "Lettera" dal conte Vinciguerra di Collalto(24),
ma per quante ricerche si facessero presso i librai di Venezia, non ci
fu verso di reperirla. Alla fine se ne scovò un'esemplare, piuttosto
mal ridotto dall'uso, nella biblioteca privata del patrizio Bernardo Zane.
La "Lettera" venne prontamente ristampata a cura del poligrafo-letterato
Girolamo Ruscelli, insieme ad un altro lavoro del Citolini e con una lunga
lettera del curatore stesso, nel settembre del 1551(25).
Nel 1553 lo stesso Ruscelli pubblica i: "Tre discorsi a M. Lodovico
Dolce", il secondo dei quali: "Intorno alle osservazioni della
lingua volgare", per sua stessa ammissione, è germogliato
dai colloqui sull'argomento di continuo intrattenuti con il serravallese.
Tuttavia l'opera contiene quasi esclusivamente una puntigliosa reprimenda
contro i contenuti ed i concetti espressi dal Dolce nei suoi trattati
di lingua e grammatica(26).
Con lo scritto del Citolini ha invece notevole attinenza "L'Oratione
in laude della lingua toscana" di Alberto Lollio edita per la prima
volta nel
1555(27)
ecclesiastici ed alla gerarchia cattolica, mentre prefigurano
una chiara scelta luterana, pur tuttavia si mantengono ancora dentro l'involucro
di un irreprensibile nicodemismo.
24) Vinciguerra III conte di Collalto (1527-1558) abate di Narvesa o Nervesa,
poeta e fratello del più famoso Collaltino. Tutti e due i Collalto
furono per qualche tempo legati all' ambiente culturale veneziano di Pietro
Aretino, di cui faceva parte con una certa frequenza pure Alessandro Citolini.
Nell' epistolario dell'Aretino (Parigi, 1609) si possono leggere più
lettere indirizzate ai fratelli Collalto tra gli anni 1545-1550 e due
al Citolini rispettivamente del febbraio '45 e gennaio '46.
25) Tutto ciò è descritto nella lettera dedicatoria di Girolamo
Ruscelli (Venezia, 5 settembre
1551) al conte Vinciguerra di Collalto, premessa alla riedizione della
"Lettera" e de "I Luoghi" di Alessandro Citolini.
26) Girolamo Ruscelli (1504-1566) poligrafo e letterato vierbese operò
prima a Roma e dal
1548 stabilmente in Venezia. Pubblicò alcuni lavori riguardanti
la filologia della nuova lingua ed un fortunato rimario della lingua italiana
riedito di continuo fino alla metà del secolo scorso. Commentò
inoltre le opere del Petrarca e del Boccaccio. L'opera in oggetto: "Tre
discorsi a Messer Lodovico Dolce" comprende appunto: "Le osservazioni
della lingua volgare" ed è un trattato polemico contro gli
scritti del Dolce, accusato dal Ruscelli di superficialità e di
spregiudicatezza nelle sue pubblicazioni sul volgare. L'opera del Dolce
presa di mira venne pubblicata nel 1550 a Venezia ed ha per titolo: "Osservazioni
nella volgar lingua".
27) AlbertoLollio (1508-1568) fu autore di scritti grammatici e di alcune
orazioni. "L'orazione in laude della lingua toscana" prima di
venir pubblicata venne recitata ai membri dell'Accademia dei Filareti
di Ferrara. Fu ripubblicata nel 1565, nel '69 ed ancora nell'84.
44
Seguendo i concetti già espressi a suo tempo dal
Bembo e dal Tolomei, non trascura quelli più recenti pronunciati
dal serravallese, ricalcandone in qualche punto anche le conclusioni.
Riportiamo un solo esempio, che sembra estrapolato dalla "lettera"
citoliniana. Parlando delle lingue greca e latina egli così si
esprime: "... le quali sono già state buon tempo e meritatamente
da gli huomini in pregio et in honor grandissimo tenute, a poco a poco,
si come suole ordinariamente di tutte le cose del mondo avvenire, sono
andate mancando; né altro più di loro habbiamo al presente,
che alcune poche reliquie sparse et sepolte nelle carte et ne' libri,
di maniera che non più lingue con verità si possono chiamare,
ma carta et inchiostro solamente, dove la toscana non pur vive et spira
tuttavia nelle menti e nelle bocche d'ogn'uno, ma ella si trova anco nella
più fresca, nella più verde et più fiorita età
che mai fusse, percioché essa tiene nota in Italia il medesimo
luogo et il medesimo grado, che tenne già la latina mentre ella
visse(28)".
Arriviamo così al 1564, alla pubblicazione de "Il Diamerone"
che racchiude un ennesimo trattato sulla lingua volgare. Come afferma
il Citolini nella lettera dedicatoria al Cornaro, lo scritto del Marcellino,
compresa "La lettera intorno a la lingua volgare", giaceva negletto
in qualche ripostiglio già da alcuni anni, esattamente dal 10 aprile
del 1561, data in cui Valerio Marcellino firma la presentazione e la dedica
del lavoro a Pietro Zane. Ricordiamo che più o meno nello stesso
tempo il Citolini dava alle stampe la sua opera principale: "La Tipocosmia".
Cerchiamo ora di compiere l'operazione già eseguita con la lettera
citoliniana, rileggendo e riassumendo i principali concetti che stanno
alla base del discorso del Marcellino.
Prendendo l'esempio da Cicerone il Marcellino afferma di
voler scrivere nella lingua del comune parlare per potersi esprimere con
tutte le possibilità offertegli da una lingua viva. Sostiene che
chi volesse spiegarsi in latino non sarebbe in grado di trovare parole
adeguate alle innumerevoli cose trovate o scoperte ai nostri giorni. L'esempio
classico, già presentato a suo tempo dal Citolini, è quello
dei nuovi vocaboli usati nella guerra, che mancano nella lingua latina.
Sono da scusare - afferma il Marcellino - i casi dei poeti Bernardo(?)
Navagero e Marc'Antonio Flaminio(29). Soltanto la loro autore
28) "Delle orationi volgarmente scritte, da diversi
huomini illustri de' tempi nostri" a cura di Francesco Sansovino,
Venezia, Altobello Salicato, 1584. A p. 135 una postilla, a fianco del
testo sopra riportato, ricorda la "Lettera" di Alessandro Citolini.
29) Marcantonio Flaminio (1498-1550) era stato rimproverato da Basilio
Zanchi per aver inventato l'aggettivo "floricomus" nel suo "In
carmine ad Guidum Posthumum" con il verso:
Jam ver floricomum, Posthume, verticem...
45
volezza li perdona dall' aver inventato nuovi vocaboli nella
lingua morta per inserirli nelle composizioni latine, in ciò imitando
Lucano e Virgilio. Ma certo non si dovrebbero chiamare latine le nuove
voci, poiché il popolo che parlava questa lingua non c'è
più e se risuscitasse non potrebbe comprenderle. Segue un convincente
discorso inteso a dimostrere che non si deve usare la lingua ora morta,
ma quella viva "... la quale dal ventre materno portiamo in bocca,
et sempre habbiamo ne gli occhi, et nel cuore". E vero dice il Marcellino,
che gli antichi scrittori del volgare (Dante, Petrarca, ecc.) hanno usato
vocaboli tolti in gran parte dal latino, ma spesso solo perché
condizionati dalla necessità di rima e pertanto al di fuori di
questa circostanza è meglio apprendere le parole dal popolo, che
Quintiliano chiama il padre delle parole. Il popolo è quindi un
maestro e da lui deve attingere chi vuole acquistare lodi e fama dai suoi
componimenti.
Per dimostrare questa tesi il Marcellino si lancia in un lungo ragionamento
rivolto a far comprendere che il volgare ha un sommo grado di altezza,
di dignità, di armonia, "... che in esso i nostri moderni,
caminando con questi piedi, hanno cominciato a scrivere in tutte quelle
forme di poesia nelle quali scrissero già i greci, e i latini:
tra 'quali il primo - per quanto io ne odo - fu
M. Claudio Tolomei, il quale tra 'dotti de' nostri tempi, s'è potuto
- senza punto passare il vero - chiamar maestro di color che sanno(30).
I cui lodati vestigi hanno poi seguitato i dottissimi, et nelle lingue,
et nelle scientie M.
(M.A.F., Carmina, Prato, Guasti, 1831, p. 84).
Il Flaminio replicò allo Zanchi con una lunga lettera (Op. cit.
pp. 275-279) e facendosi forte degli esempi di Cicerone ed Orazio affermò
che è lecito creare nuovi vocaboli, non solo per necessità,
ma anche per ornamento. Ma la giustificazione non doveva aver molto convinto
i suoi critici se ancora nel 1561 - forse la mano del Citolini dietro
quella del Marcellino - (e con il Flaminio già morto da oltre dieci
anni) si continuava a tirare in ballo questo esempio negativo, oramai
diventato un classico. La lettera allo Zanchi non è datata, ma
si fa risalire agli anni romani del Flaminio (1547-1550). (Alessandro
Pastore, Marcantonio Flaminio, Milano, Franco Angeli, 1981, p. 156). Nella
medesima lettera il Flaminio difende pure il suo amico Andrea Navagero
(1483-1529), poeta e diplomatico veneziano, dalla stessa accusa per aver
inventato il vocabolo "silvipotens". Rimarchiamo che nel testo
del Marcellino il Navagero viene erroneamente chiamato (o scambiato) con
il nome di un suo nipote Bernardo, anch'egli poeta, ambasciatore e più
tardi cardinale.
30) Che Claudio Tolomei godesse ai suoi tempi di straordinaria fama e
fosse considerato tra i più dotti letterati del Cinquecento lo
confermano, ad esempio le lettere di Pietro Aretino a lui dirette. In
più, nei "Ternali in gloria de la regina di Francia"
l'Aretino lo descrive con questa iperbole:
"Il Tolomei, a Homero conforme, (Anzi è maggior, perchè
il poeta invitto Qualche volta dormì, ei mai non dorme)."
(Pietro Aretino, Lettere, Parigi, 1609, Libro VI, p. 26
46
Dionigi Atanagi, et M. Alessandro Citolini: de quali io
ho veduto poemi in quella via, che peravventura agguagliano i più
culti, et vaghi latini(31)".
Perché dunque, continua il Marcellino, si deve abbandonare una
lingua così ricca, rotonda e regolata come la nostra che la natura
stessa ce la da a bere con il primo latte, per andar mendicando le vesti
ai nostri pensieri tra le miserie di quella latina? Alcuni sostengono
che si deve continuare a scrivere in latino poiché questa ha un
poeta (Virgilio) ed un oratore (Cicerone) ai quali nessuno nella nostra
lingua piò stare alla pari. E vero, sostiene il Marcellino, che
scrivendo oggi in latino non si sarebbe capaci di eguagliarne l'altezza,
ma ciò solo perché lo spirito di quel tempo, oltreché
lontano, è del tutto morto, ed in questo idioma sarebbe impossibile
riprodurre le sensazioni e la freschezza degli antichi poeti. Se Omero
si leggesse in latino e Virgilio in greco perderebbero gran parte di "...
quegli effetti maravigliosi, che fanno nelle loro lingue natie, avvenga
che i medesimi concetti, i medesimi colori et le medesime figure fossero
col medesimo ordine dall'una all'altra lingua portate... Senza che sono
alcuni modi di dire, alcuni colori, alcune figure, et alcune particolarità,
che sogliono essere proprie di quelle lingue nelle quali sono nati, che
in ogni altra lingua perdono gratia et bellezza".
Se i più grandi conoscitori della lingua latina, prosegue il Marcellino,
si mettessero a tradurre le novelle del Boccaccio, anzi se Cicerone stesso
risuscitasse e volesse portarle nella sua lingua "... io ardisco
di dire, che egli in quella favella non ce le potrebbe mettere davanti
con quei vivi et naturali colori che ha fatto il Boccaccio nella nostra
volgare". La lingua latina visse già una volta e fu acconcia
a vestire eloquentemente i concetti dei propri tempi, come oggi la nostra
è atta a vestire "leggiadramente" tutti i pensieri che
ci possono passare per la mente.
Ogni grande scrittore del passato è tale per aver
utilizzato la lingua parlata dal popolo: Omero la greca, Virgilio la latina
e Dante la volgare. Quando quest'ultimo finge di rivolgersi a Virgilio
con la famosa terzina(32), egli
31) Dionigi Atanagi (1504 ca. - 1573 ca.). Originario di
Cagli, nelle Marche, nel 1532 si stabilisce a Roma entrando in contatto
con il Tolomei. Nella pubblicazione dell'opera "Versi et regole de
la nuova Poesia Toscana" (1539) - cfr. nota 7 - 1' Atanagi vi contribuì
con oltre venti liriche.
In queste circostanze è probabile che abbia fatto conoscenza con
il Citolini. Qualche anno più tardi lo incontriamo a Venezia in
qualità di poeta, letterato ed editore. Una sua edizione di liriche:
"De le rime di diversi nobili pòeti toscani", pubblicata
a Venezia nel 1565, contiene una poesia del Citolini ed alcune del Marcellino.
L'Atanagi ed il Marcellino dovevano essere amici poichè uno dei
principali interlocutori de "Il Diamerone" è proprio
l'Atanagi.
32) "Tu se' lo mio maestro e il mio autore..." (Inferno, I,
85-87), versi riportati per intero nel testo.
47
intende dire di voler imitarlo e di cercare ispirazione
nello stile, ma non certo di voler esporre i concetti nella lingua di
Virgilio.
Se oggi non c'è ancora nella nostra favella un grande scrittore,
ma Marcellino ne dubita, come a suo tempo il Citolini, questo non vuol
dire che la lingua sia imperfetta, si può solo accusare gli scrittori
di essersi scarsamente applicati nella nuova lingua, sdegnandola per molti
secoli, senza prendersi cura di coltivarla, di accrescerla, di farle prendere
vigore. Ciò fino ai tempi di Dante. Egli ed altri "chiari
intelletti" presero l'ardire di scrivere nella lingua parlata dalla
gente, al punto che Petrarca e Boccaccio, succeduti a quelli, la fecero
salire all'altezza che oggi si vede. E come è stato osservato dal
Bembo, non è detto che si sia già arrivati all'apice della
possibilità stilistica della nuova lingua.
A duecento anni di distanza è curioso rilevare che il Petrarca
venne incoronato poeta in Campidoglio per i suoi versi latini, divenendo
celebre in tutta Europa. È però con il suo "Canzoniere
toscano" che oggi si è acquistato fama e gloria immortali.
Siccome ai nostri tempi - prosegue il Marcellino il rifiuto di scrivere
in volgare da parte dei dotti, è quasi completamente scomparso,
sarebbe auspicabile di volger nella lingua volgare, non solo tutti i testi
del passato, ma anche i codici e le leggi e mettere così al bando
il latino dall' attività giuridica e forense, latino peraltro oramai
ridotto ad un barbaro guazzabuglio.
Solo nei testi religiosi e nella liturgia il Marcellino è contrario
a ricorrere alla nuova lingua, per continuare ad usare il latino. A suo
avviso ricoprire con il velo della lingua antica le cose sacre serve a
proteggerle dal volgo: "il quale spesso è così audace
e presuntuoso, come rozzo, et ignorante in voler intender le cose, di
ch'egli non è capace(33)".
A sostegno di questa tesi tira in ballo i romani ed i greci che nascondevano
i misteri della religione sotto la copertura di lingue antiche e desuete.
33) Non era questa l'opinione di Alessandro
Citolini che nella sua "Lettera", parlando del volgare, scrive
in proposito: "Habbiamo la santa legge dal nostro Dio insieme col
suo commento, in lingua più vera, che non è la latina".
E si riferisce alla traduzione in volgare del Nuovo Testamento di Antonio
Brucioli, stampata per la prima volta a Venezia nel 1530, seguito a distanza
di pochi anni da tutta la traduzione della Scrittura, accompagnata da
importanti commenti. I volgarizzamenti della Scrittura furono considerati
uno tra i più efficaci veicoli di trasmissione della Riforma protestante
in Italia e pertanto osteggiati, quindi proibiti e messi all'indice dalla
Controriforma, alla luce delle disposizioni emanate dal Concilio di Trento
in materia. A questa restrizione sulla stampa e all'intolleranza che prevedeva
la pubblica distruzione dei libri posti all'indice, solo Venezia, in tutta
Italia seppe alle volte coraggiosamente resistere. Il Marcellino, come
si evince dalla sua opera, è invece un osservante delle disposizioni
tridentine in fatto di stampa religiosa. Disposizioni che prescrivevano
una lettura dei testi evangelici esclusivamente sotto il magistero della
Chiesa e della sua gerarchia.
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Per scrivere in volgare oggi si incontrano due opinioni.
La prima - dice il Marcellino - è di coloro che sostengono si debba
seguire il Boccaccio ed il Petrarca ed usare solo voci che si trovano
nelle loro opere. La seconda èquella che professa esser lecito
servirsi di qualsiasi voce, modo di dire, proveniente da ogni parte d'Italia
ed anche di usare parole straniere. Afferma il Marcellino, di non essere
né per il primo avviso, né per il secondo. Il suo parere
è di usare principalmente la lingua toscana poiché i due
scrittori più famosi, l'uno in verso e l'altro in prosa (Petrarca
e Boccaccio) hanno raggiunto alte vette di perfezione. E necessario però
continuare ad alimentarla con voci provenienti da altre regioni d' Italia
e pure con straniere quando queste siano già entrate nell'uso comune.
A tal proposito il Marcellino cita l'esempio della parola brindisi proveniente
dal tedesco, creanza dallo spagnolo, avanguardia e trincea dal francese.
È poi possibile innovare partendo dall'uso del comune parlare,
come si è fatto per esempio con la parola piacere, dalla quale
è nato piacevole e piacevolezza e da gelosia, ingelosire. Aggiungere
nella lingua toscana parole tolte da altre contrade d' Italia è
non solo lecito, seguendo in questo l'esempio del Boccaccio, ma a volte
necessario. Gondola e bucintoro devono venir usate così come sono
state create dal popolo veneziano, quando si parla di Venezia, ma ciò
va fatto sempre in modo circostanziato e specifico. Per questo motivo,
aggiunge il Marcellino, oggi si accusa Dante, di aver avuto poco riguardo
accogliendo nei suoi scritti senza discriminazioni parole e voci provenienti
da ogni parte d'Italia e straniere. Quindi se egli è considerato
un sommo per erudizione e dottrina, non è altrettanto lodato dal
Marcellino come scrittore, per la troppa libertà che si è
preso nella lingua. E considerato altrettanto sbagliato, come inutile
affettazione, usare però acriticamente tante parole tolte dalle
opere del Petrarca, del Boccaccio e da altri scrittori antichi del volgare,
oggi cadute in disuso e che non si trovano più sulla bocca del
popolo. Volgendo alla fine del suo discorso egli spezza una lancia anche
nei confronti della lingua veneziana, che sebbene poco apprezzata dal
Bembo: "anch'ella sarebbe atta a condurci a più che mezzana
grandezza, s'ella fosse di tempo in tempo da dotta et leggiadra mano coltivata".
Quali considerazioni e confronti si possono ricavare dopo
la lettura dei due discorsi e la loro sintetica esposizione? Se ne sono
precedentemente occupati due studiosi: Lina Fessia nel 1939(34) e Giovanni
Presa nel
34) Lina Fessia, A.C., esule italiano in
Inghilterra, in "Rendiconti del Reale Istituto Lombardo
di Scienze e Lettere", Milano, Hoepli, 1939-40, volume LXXIII, IV
della serie III, pp. 213-
243.
35) Cfr. nota 12.
49
La prima ritiene il discorso del Marcellino "una parafrasi
con qua e là piccole aggiunte della lettera del Citolini del '40.
Ricorrono - ella scrive - non solo tutte le ragioni del Citolini, per
cui il latino è insufficente, come lingua parlata, alla vita dei
tempi, ma si ritrovano anche gli stessi esempi, le stesse parole tedesche
e lo stesso modo di latinizzarle per cui io penserei che questo discorso
sia largamente opera del Citolini che lo pubblicò(36)".
Un po' più articolate, ma non propriamente convincenti, sono invece
le conclusioni tirate da Giovanni Presa. Egli scrive apertamente "di
non condividere il giudizio della Fes sia sulla puntuale corrispondenza
o, addirittura, sulla presunta equivalenza della lettera citoliniana del
'40 con la lettera marcelliniana del '64: le due lettere sono, sì,
sostanzialmente le stesse per i concetti fondamentali e per la meta cui
tendono ed a cui giungono, ma si diversificano per una più abile,
direi più avvocatesca difesa del volgare nella lettera marcelliniana,
per le più erudite disgressioni, e per le più ricche variazioni
tematiche: come si converrebbe appunto alla capacità critica, alla
informazione storiografica ed alla abilità polemica del Citolini,
maturatesi, arricchitesi ed affinatesi in più di vent' anni, quanti
ne intercorrono appunto dal '40 al '61, in quanto la lettera, over discorso,
che va sotto il nome del Marcellino, fu composta nel
Di sicuro ha più ragioni il Presa della Fessia.
Però bisognerebbe compiere una approfondita ricognizione nell'
ambiente accademico veneziano e padovano tra gli anni '40 e '60 e studiare
in particolare i dibattiti svoltisi intorno alla lingua. Non sono da sottovalutare,
per riferirsi solo ai due nomi maggiori, gli scritti lasciatici da Sperone
Speroni(38) e dal suo allievo Bernardino Tomitato(39). Non è neppure
da trascurare la traccia affidataci da Ruscelli nellaletteradedicatoria
aVinciguerra
36) Op. cit. p. 221.
37) Op. cit. p. 1006.
38) Sperone Speroni (1500-1588), padovano, letterato, filosofo, critico
ed animatore dell'Accademia degli Infiammati, era tenuto in grande considerazione
dall'Aretino, che gli riconosceva il titolo di maestro. Si occupò
del problema linguistico in più occasioni. Nel "Dialogo delle
lingue", pubblicato nel 1542, ma scritto già da alcuni anni,
egli prende una netta posizione per il volgare, seguendo però le
teorie del Bembo per un volgare toscaneggiante, incline a poche aperture
verso le lingue delle altre regioni italiane. Nelle successive opere che
trattano della lingua egli si fa invece portavoce del superamento del
toscanesimo, ritenendo necessario il suo arricchimento ed ampliamento
con vocaboli e forme suggerite dalle altre parlate italiane. (Cfr. Maurizio
Vitale, La questione della lingua, Palermo, Palumbo, 1984, pp. 68-70).
39) Bernardino Tomitano (1517-1576), discepolo dello Speroni pubblicò
nel 1545 i:
"Ragionamenti della lingua toscana (poi ampliati e ripubblicati nel
1570), sostenendo un modesto allargamento del toscano alla parlata delle
altre regioni, forse anticipando le convinzioni che seguirà più
tardi il suo maestro.
50
di Collalto, premessa alla pubblicazione degli scritti del
Citolini nel 155 1(40).
Vi cogliamo una tangibile prova che il serravallese, continuando negli
anni ad interessarsi di problemi linguistici, veniva invitato a tenere
pubbliche relazioni alla presenza di autorevoli uomini di lettere, e di
vedersi pertanto riconosciuto un credito non indifferente in questo campo.
E di notevole levatura era esattamente la figura - ricordata dal Ruscelli
di Trifone Gabriele(41), patrizio e letterato veneziano che aveva fatto
delle proprie ville di campagna e della casa in Murano un cenacolo di
letterati, tra i più esclusivi del suo tempo. In una di queste
riunioni, scrive il Ruscelli al Collalto: "... l'udimmo (il Citolini)
con molta maraviglia et piacer di tutti, discorrere alla presentia di
M. Trifon Gabriele(42)" sopra le ragioni in difesa del volgare. Questo
personaggio, è bene ricordarlo, è anche il dedicatario dell'opera:
"Discorso in materia del suo theatro" di Giulio Camillo De1minio(43)
e godeva di un grande prestigio e rispetto - cosa non facile - agli occhi
di Pietro Aretino. Così ancora una volta si stringe il cerchio
delle amicizie letterarie veneziane di Alessandro Citolini.
Nei medesimi ambienti si può ipotizzare sia cresciuto Valerio Marcellino,
avvocato veneziano, impiegato nell' amministrazione della Serenissima,
ma con una forte propensione agli studi letterari ed alla poesia. Non
mi sembra sia stato ancor rilevato che fra gli interlocutori della "Tipocosmia"
prenda parte, dalla seconda giornata, proprio il"... gentilissimo
M. Valerio Marcellino, giovane di singolare aspettazione" per dirla
con le parole dello stesso Citolini(44). Questa circostanza e reputando
la "Tipocosmia" scritta qualche anno avanti la sua pubblicazione(45),
fanno pensare che il discorso sulla
40) Cfr. nota 25.
41) Trifon (e) Gabriele (1470-1549) era chiamato il Socrate veneziano,
poiché aveva trasformato i sui palazzi in scuole ed accademie,
dove dava lezioni gratuite ai discepoli ed accoglieva gli amici per riunioni
intellettuali. Rifiutò la sede vescovile di Treviso e più
tardi quella di patriarca a Venezia per dedicarsi completamente allo studio.
I suoi ospiti più assidui erano: Gian Giorgio Trissino, Francesco
Sansovino, Girolamo Molino e Giulio Camillo Delminio.
42) Cfr. nota 25.
43) Composto intorno all 530, ma pubblicato, come tutti i restanti scritti
del Camillo, dopo la sua morte avvenuta a Milano nel 1544. (Il "Discorso
in materia del suo theatro" ora si può leggere in G. C. D.,
"L'idea del Teatro e altri scritti di retorica", Torino, Edizioni
RES, 1990). 44) "Tipocosmia", p. 59.
45) L'opera maggiore del Citolini, stando a quanto afferma il suo autore
nella lettera dedicatoria al vescovo di Arras, era già stata partorita
da dieci anni ed inoltre a p. 1 scrive che venne composta: "... nel
tempo, che per lo Eccellentissimo d'Urbino era appresso la Serenissima
Signoria ambasciatore il signor Giangiacopo Leonardi Conte di Montelabate...".
Gian Jacopo Leonardi (1498-1562), fu creato dai duchi d'Urbino conte di
Montellabate e inviato a Venezia in qualità di ambasciatore dagli
anni trenta fino agli inizi del 1553. Era un esperto di ingegneria militare
ed in ottimi rapporti con l'Aretino. Quindi la stesura della
51
lingua, precedente "Il Diamerone", sia frutto
di esposizioni letterarie sostenute dal Citolini in qualche accademia
o casa patrizia, alla presenza del Marcellino. Passando in rassegna gli
interlocutori della "Tipocosmia" e de "Il Diamerone",
cogliamo se non gli stessi personaggi, almeno il gruppo orbitante attorno
a Domenico Verniero(46), figura centrale e preminente nei dialoghi delle
due opere.
Potrebbe così venir dimostrata, almeno per via indiretta, la consuetudine
del Citolini e del Marcellino a ritrovarsi negli stessi circoli culturali
e ben presto fra i due si sarebbe manifestata reciproca stima ed affinità,
nonostante li separasse un divario di età più che generazionale.
E quindi fuori luogo il so spetto di p1 agio compiuto dal Marcellino ai
danni del Citolini come insinua il Presa e riporta acriticamente Maurizio
Vitale(47). Cadrebbero inoltre le ipotesi che il Citolini, oramai braccato
dagli inquisitori per sospetta eresia, fosse costretto a mimetizzarsi
dietro altrui nome per aggiornare il suo lavoro del '40, lasciando così
il merito al Marcellino. Non si comprende allora perché abbia potuto
tranquillamente firmare la lettera dedicatoria ad Alvise Cornaro!
Al di là di tante congetture, ed a meno di ulteriori scoperte,
mi sembra più facile ritenere che il Marcellino fosse sollecitato,
proprio dal Citolini, a porre per iscritto ciò che più volte
gli aveva sentito esporre(48).
Credo che il serravallese si rendesse ben conto che era ormai tempo di
porre la parola fine ad un dibattito esauritosi con la definitiva vittoria
del volgare sul latino e chiudere così le polemiche che avevano
coinvolto tanti letterati per tutta la prima metà del sedicesimo
secolo.
"Tipocosmia" si può ragionevolmente far risalire subito
dopo il 1550 ed il manoscritto potrebbe essere stato letto dal Marcellino
e dal suo circolo, molti anni avanti la pubblicazione, avvenuta a Venezia
solo nel 1561.
46) "Il Diamerone" ha un preciso riferimento cronologico per
stabilire la datazione della sua composizione. A p. 5 della prima giornata
si legge che: "... un famigliare del Magnifico M. Giorgio Gradenigo
portò alcune lettere, che venivano da Roma al suo padrone: il quale
presele et apertane una, che era del Magnifico M. Bernardo Cappello, vi
trovò dentro due bellissimi sonetti, fatti nella morte della Signora
Ireine di Spilimbergo". Ebbene Irene di Spilimbergo morì il
17 dicembre 1559 e l'eco di questa improvvisa dipartita colpì profondamente
l'ambiente aristocratico e letterario di Venezia, tanto che nel 1561 uscì,
sempre a Venezia, a cura di Dionigi Atanagi il volume di poesie: "Rimedi
diversi nobilissimi et eccellentissimi autori, in morte della Signora
Irene di Spilimbergo". "Il Diamerone" è indubbiamente
composto tra il '60 ed il '61 e i dialoghi si svolgono nella casa di Domenico
Venier (o). Costui, nato nel 1517 e morto nel 1582, patrizio veneto e
poeta, rimase paralizzato alle gambe a 32 anni; per questo motivo dedicò
il resto della sua vita a raccogliere in casa propria poeti e letterati,
seguaci sopratutto del Bembo e della corrente di poesia del petrarchismo
cinquecentesco.
47) Op. cit. p. 50.
48) Soprattutto per quanto sottolineato con nota 33, ritengo che l'opera
sia indubbiamente uscita dalla penna del Marcellino, senza revisioni,
rettifiche o correzioni da parte del Citolini.
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