| PIER ANGELO PASSOLUNGHI  I CISTERCENSI A FOLLINA E NELLA MARCA TREVIGIANA*
 Una pur sintetica panoramica sulla presenza cistercense 
        nella diocesi di Ceneda e di Treviso coglie subito nell'area pedemontana 
        delle Prealpi trevigiane la sede del suo primo e più importante 
        insediamento avvenuto in Follina, dove la vallata di Mareno confluisce 
        in quella del Soligo. Qui verso metà secolo XII venne a stanziarsi 
        una colonia di monaci provenienti, per alcune fonti da S. Maria di Chiaravalle 
        milanese, per altre da S. Pietro di Cerreto lodigiano che Chiaravalle 
        aveva per altro appena riformato cistercense.Radicatasi grazie alla protezione della contessa Sofia da Colfosco e del 
        marito Guecellone considerato il capostipite della casata dei Caminesi, 
        quella che fu la prima casa cistercense del Veneto di terraferma diede 
        immediato avvio ad un' azione di bonifica e colonizzazione battezzando 
        in forma d'auspicio l'implaudata valle di Mareno in "Val Sana", 
        tanto da assumere il nome di S. Maria di Sanavalle.
 Contraddistintisi nell' iniziativa di sboscamento, nella capacità 
        di drenaggio, nella perizia della messa a coltura di aree sino ad allora 
        improduttive, i cistercensi eressero ben presto nella Valmareno, nel Felettano, 
        lungo la sponda sinistra del Piave una serie di granze o fattorie agricole, 
        che caratterizzandone l'impegno agrario concorsero nel promuovere il recupero 
        umano di un territorio ampiamente selvaggio quale allora si presentava 
        la Sinistra Piave.
 
 * Testo aggiornato ed integrato della relazione tenuta 
        al Convegno trivento su s. Beranrdo di Clairvaux svoltosi il 27ottobre 
        1990 a Vittorio Veneto nella ricorrenza del IX centenario della nascita.
 
 PIER ANGELO PASSOLUNGHI. Studioso e ricercatore di storia 
        veneta, esperto di storia religiosa per cui collabora a varie riviste 
        nazionali, ha curato varie pubblicazioni, in particolare di Storia e Bibliografia 
        della Sinistra Piave.  
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 A favorire il decollo della nuova colonia monastica, come si è 
        detto, furono i coniugi Sofia e Guecellone. La prima grande donazione 
        signorile avvenne nella primavera del 1170, ailorchè alla presenza 
        del patriarca di Aquileia la contessa donò ad un ormai eretto monastero 
        una nutrita serie di chiese del pedemonte sparse tra Serravalle, Trichiana, 
        Lago, Valmareno, Colfosco, Longano e Fonte. Intrecciando fede e calcolo 
        politico, il suo fu un disegno ad ampio respiro che mirava alla rivalorizzazione 
        sociale di aree abbandonate che il matrimonio con Guecellone lasciava 
        ipotizzare destinate a divenire l'epicentro di un rinnovato impianto feudale 
        proteso tra monte e laguna. Così se nel 1170 fra le prime a venir 
        donata figura la chiesa di 5. Margherita sita in quel castello di Serravalle 
        che cerniera tra i possedimenti sofiani dislocati tra pedemonte, collina 
        e pianura ne controllava i flussi, pochi anni dopo fu (e non a caso) la 
        volta di Guecellone che favorì l'insediamento patrimoniale dei 
        monaci in Stabiuzzo, località presso quel castello di Camino che 
        stava per dare nome di lì a poco all'emergente casato comitale. 
        A distinguersi fra i discendenti fu poi il nipote di Sofia, il conte Gabriele 
        III, che nel testamento dell 224 dotò il monastero di vasti e contigui 
        territori soprattutto della Valle di Mareno.
 A contraddistinguere la crescita e la pluri secolare continuità 
        patrimoniale del monastero furono i lunghi periodi abbaziali dell'abate 
        Anselmo, che governò il monastero dal 1204 al 1235, e dell'abate 
        Nordio, che lo resse dal 1319 al 1359.
 L'età anselmina, destinata a fare di Follina non solo il maggiore 
        monastero della diocesi di Ceneda ma anche la più prestigiosa casa 
        veneta dell'ordine cistercense, vide i cistercensi proiettarsi in un vivace 
        dinamismo agricolo. Il radicamento patrimoniale avvenuto all'inizio del 
        Duecento in Sottoselva presso 5. Lucia a mezza strada per Stabiuzzo portò 
        ben presto all'erezione di una nuova fattoria agricola. Poco dopo furono 
        superate le insidiose pretese del monastero di S. Fermo di Verona che 
        accampava diritti di filiazione rivendicando una propria fondazione antecedente 
        l'arrivo dei cistercensi stessi. Nel 1224 divenne oggetto del ricordato 
        testamento di Gabriele III da Camino, svolse quindi su diretta richiesta 
        di Citeaux ripetuti e delicati interventi ispettivi sui monasteri lagunari 
        di 5. Maria e 5. Tommaso di Torcello, ed avviò infine (come si 
        dirà più avanti) l'introduzione della regola cistercense 
        nel decaduto e non distante ospedale di S. Maria del Piave.
 L' ancor più lungo quarantennio nordiano, interessato come appare 
        a districarsi nelle vicende che coinvolgevano il casato fondatore e ad 
        amministrare il patrimonio terriero piuttosto che ad aumentano con nuovi 
        grandi acquisti, fu segnato invece dalla conservazione. L'accrescimento 
        terriero più che agli acquisti puntò infatti sulle donazioni, 
        che continuarono a non mancare.
 Custode della regola cistercense in anni di ormai precipitata crisi degli 
        ideali monastici, Nordio continuò a vigilare sulla condotta dei 
        rissosi
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 confratelli lagunari di Torcello e sulla scarsa osservanza di quelli più 
        vicini di 5. Maria del Piave, tanto che nell' ultimo anno in cui lo si 
        rinviene in carica personalmente seguì l'elezione del nuovo abate 
        plavense.
 Se l'accurata gestione anselmina mise le condizioni per cui poco dopo 
        il suo termine si realizzarono le condizioni economiche che consentirono 
        l'erezione del tuttora presente chiostro in muratura avvenuta nel 1268 
        ad opera dell'abate Tarino come ricorda una lapide in caratteri gotici 
        immurata nel lato nord dello stesso chiostro, l'ancor più longevo 
        governo abbaziale di Nordio garantì il completamento della nuova 
        grande chiesa, che iniziata all'inizio del Trecento dall'abate lodigiano 
        Gualtiero venne ultimata nel
 1335.
 Poco dopo la morte di Nordio, in un processo temporale quasi parallelo 
        allo spegnersi del casato caminese che nei suoi riguardi non era mai venuto 
        meno ai propri compiti di patrocinio, il monastero precipitò in 
        quella generalizzata crisi del secondo Trecento che da tempo stava scuotendo 
        gli stessi ideali monastici e che avrebbe portato allo spegnersi di ogni 
        forma di vita comunitaria anche in Follina.
 All'atto del suo esaurirsi, la comunità cistercense aveva ormai 
        tracciato indelebili segni nella vita economica, sociale ed artistica 
        della pedemontana. Un catastico del 1400 ricorda, solo per restare all'area 
        collinare, come l'intervento agrario e patrimoniale del monastero avesse 
        interessato le ville di Arfanta, Campea, Cison, Combai, Farrò, 
        Lago, Mareno, Miane, Preamor, Revine, Rolle, Tarzo, Tovena. Ma granze 
        grandi e piccole erano sorte lungo tutta la valle del Piave dal montano 
        Cadore alla lagunare Cessalto e presso il Livenza da Godega a Cordignano 
        a Codognè. L'erezione di chiesa e chiostro, ove il romanico fondendosi 
        nel gotico, lasciava poi esempio di uno dei più notevoli impianti 
        architettonici d'arte monastica del Veneto.
 Tralasciato non va poi di cogliere il segno religioso anche se, prodighi 
        nell' aprirsi sul territorio allorché si trattava di operarne il 
        risanamento agricolo, i cistercensi follinesi in realtà gelosamente 
        si rinchiusero nel proteggere la loro ascesi, tanto che seguendo il rigido 
        costume dell'ordine volutamente rifuggirono i contatti esterni, alfine 
        di vivere in forma appartata e riservata la propria scelta di vita monastica.
 Il segno dell'avvenuto stimolo spirituale lo attestano però il 
        non piccolo numero di chiese ed oratori dipendenti sparsi nel territorio 
        e l'ininterrotta serie di lasciti non solo testamentari disposti da nobili 
        e popolani. Negli anni antecedenti la crisi non mancarono poi i casi di 
        laici desiderosi di vivere, in qualità di oblati, presso il monastero. 
        Non si trattò solo di vedovi desiderosi di emettere la professione 
        di novizio, ma anche di coniugati, pronti a trasferirsi con la moglie 
        dai centri vicini per trascorrere, da esterni, la giornata in preghiera 
        e meditazioni.
 Peculiarità tipicamente cistercense, essendo stato proprio san 
        Bernardo di Clairvaux (1090-1153) diffusore in Italia dell'ordine fondato 
        a Citeaux,
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 in Borgogna, nel 1098 a rendere popolare in tutta Europa il titolo di 
        "Signora" da lui dato alla Madonna, altra duratura impronta 
        lasciata nel territorio fu la particolare pietà mariana. Se proprio 
        non avviarono, i cistercensi di Follina comunque prontamente ripresero 
        e rinforzarono la radicata venerazione locale verso un' immagine in pietra 
        della Vergine con Bambino di fattura medievale. Non a caso nell'ottantina 
        scarsa di codici, registrati da un tardo inventario dell'anno 1400, si 
        rinviene la presenza del Liberprocessionis beatae Marie virginis e del 
        De laudibus Mariae. Si tratta in quest'ultimo caso della nota opera di 
        san Bernardo nella quale viene esaminato e sottolineato il ruolo centrale 
        svolto dalla Vergine nella salvezza umana.
 Già ricordata per la sua subordinazione ispettiva 
        a Follina ed in particolare all'abate Nordio, la seconda casa cistercense 
        oggetto della presente panoramica è 5. Maria del Piave, antico 
        ospedale sorto presso un'importante zona di guadi sul medio corso del 
        fiume.Inizialmente si trattò di una chiesa con funzioni ospedaliere affidata 
        ad una comunità di cui non si conosce la regola professata. Nato 
        o rinato attorno al Mille nel fervore della ripresa religiosa e commerciale, 
        fra i suoi compiti c'era l'ospitalità a viandanti, pellegrini e 
        mercanti che guadavano il Piave.
 Sorto all' incrocio tra le vie ungarica e alemanna presso un boschetto 
        di pioppi in località (appunto) Talpon non distante da Mareno, 
        l'ospedale aveva accresciuto la propria importanza all'epoca delle Crociate 
        allorché si era trovato sul percorso via terra per la Palestina. 
        Nel 1120 i conti di Treviso, di Colfosco, di Ceneda ed i signori da Montaner 
        ne avevano congiuntamente fatto oggetto di importanti donazioni e ben 
        presto, a garantirne la protezione dagli appetiti degli ordini militari 
        che ne avevano tentato il rilevamento, erano arrivate le bolle di protezione 
        papale. Fra le chiese dipendenti per lo più dislocate lungo il 
        Piave che papa Lucio III nel 1177 aveva posto nel patrocinio apostolico, 
        ne figuravano pure alcune presso il Livenza: si trattava in quest'ultimo 
        caso delle cappelle di Santo Stefano di Meschio (Pinidello) e San Gottardo 
        di Cordignano.
 Poichè agl'inizi del Duecento, l'ospedale risultava in piena decadenza 
        spirituale e materiale, nella primavera del 1229 papa Gregorio ne aveva 
        disposto la riforma, affidandolo al controllo dell'abate di Follina. L'arrivo 
        di monaci del non distante monastero della pedemontana produsse gli effetti 
        desiderati, inducendo quelli che vi vivevano già ad accettare la 
        regola cistercense tanto che ben presto la casa plavense potè riprendersi.
 La perdita d'importanza rispetto ai flussi verso la Terra Santa del secolo 
        precedente e i distruttivi passaggi d'eserciti dovuti alle continue guerre 
        che tra Due e Trecento coinvolsero la Marca gravando sui guadi, finirono 
        però col farsi ben presto sentire in forma negativa. I maggiori 
        danni venne però ad arrecarli il Piave con le sue piene distruttive: 
        nel 1368 un' onda del fiume
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 più violenta del solito completamente circondò l'area ove 
        sorgevano le fabbriche, riducendolo ad isola.
 Sorto in diocesi di Ceneda sulla sponda sinistra, il monastero si trovò 
        così in mezzo al guado, tanto che finì col venir indicato 
        appartenere ora alla diocesi di Ceneda, ora a quella di Treviso. Colpito 
        da ulteriori inondazioni, ed ormai in piena crisi vocazionale, a metà 
        Quattrocento subì una pesantissima distruzione che lo abbattè 
        dalle fondamenta. Il commendatario Venceslao da Porcia ne ricercò 
        nel 1459 pronta riedificazione presso la più sicura riva destra 
        a Lovadina, ma essendo le nuove fabbriche rimaste vuote per mancanza di 
        monaci, a fine secolo il suo beneficio economico venne unito alle monache 
        di S. Maria degli Angeli di Murano.
 In analogia a quanto documentabile per S. Maria del Piave, i cistercensi 
        di Follina svolsero forse iniziali azioni di controllo pure sulla casa 
        di S. Maria Nova sorta nel primo Duecento a Treviso. Si trattava di una 
        comunità di monache cistercensi, migrate dall' ospedale di Ognissanti. 
        Nel 1231 erano ormai una quarantina le religiose impegnate nella preghiera, 
        nella lettura, nei lavori manuali. La loro vita comunitaria era controllata 
        da tre monaci che, per la prossimità geografica e il concomitante 
        ruolo ispettivo che andava Follina in quegli anni svolgendo sulle altre 
        fondazioni venete dell'ordine, si può presumere fossero venuti 
        proprio dalla pedemontana cenedese. Forse si erano trasferiti da Follina 
        per affiancarsi ai due conversi, segnalatici da alcune carte archivistiche, 
        con lo scopo di tentare in città l'avvio di una parallela comunità 
        maschile. Se ci fu, il tentativo non riuscì e i monaci e gli stessi 
        conversi rientrarono a Follina o al Piave. Certo è che poco dopo 
        le monache rimasero sole e divennero autonome, tanto che agli inizi del 
        Trecento si eleggevano liberamente la badessa, responsabile della disciplina 
        e dell'interpretazione della regola oltreché della gestione economica 
        dei beni.
 Le guerre, che nel secondo Trecento coinvolsero la città di Treviso, 
        per due volte provocarono la distruzione delle fabbriche ove la comunità 
        si era inizialmente raccolta. Per due volte le monache dovettero cambiare 
        sede. Il monastero era inizialmente sorto in borgo Santi Quaranta, ma 
        dopo le rovine provocate dalla guerra veneto-ungherese (1356-5 8), venne 
        inizialmente ricostruito non distante dai precedente. Abbattuto per le 
        vicende del 1378-81, le monache si trovarono costrette a prendere nuova, 
        ma momentanea, dimora in località Panciera. La necessità 
        di una più sicura sede interna alle mura cittadine, portò 
        all'erezione di un nuovo impianto monastico, la cui chiesa fu consacrata 
        nel 1395. Al superamento delle conseguenti difficoltà economiche 
        concorse certo l'apertura di un piccolo educandato per ragazze. Vi erano 
        accolte le figlie di buona famiglia (filiae bonorum civium civitatis Tarvisii) 
        con la speranza che alcune di loro potessero avviarsi alla vita claustrale. 
        Nel corso del Quattrocento vi risultavano rappresentati alcuni facoltosi 
        casati quali gli Arpò, i Coppo, i Sinisforte, i Venier. Da famiglia 
        di
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 notai proveniva la badessa Margherita Dotto, che nel 1439 ricevette il 
        visitatore generale dei cistercensi in Italia, dom Giovanni Garlonis. 
        Questi ispezionò il monastero, interrogò le religiose, indicò 
        le linee di condotta claustrale. Le vicine comunità di Follina 
        e del Piave, su cui inizialmente si erano appoggiate per le questioni 
        riguardanti la loro ascesi cistercense le monache di 5. Maria Nova, erano 
        di fatto spente e per gli aspetti relativi alla loro vita spirituale le 
        religiose trevisane si appoggiavano ormai esclusivamente sul vescovo cittadino 
        e sui sacerdoti da questi inviati.
 Lungo tutto il Cinque ed il Seicento la presenza cistercense che aveva 
        inizialmente trovato nella pedemontana cenedese il proprio fecondo centro 
        irradiativo, rimase così limitata alla sola città di Treviso. 
        Troppo momentanee risultavano infatti le vicende delle comunità 
        avviatesi in Mestre (ove tra fine Quattrocento ed inizi Cinquecento alcune 
        giovani friulane si erano sistemate presso la chiesa di 5. Maria delle 
        Grazie indossando l'abito bianco prima di passare alla regola agostiniana) 
        ed in Busco, antico priorato pomposiano presso Ponte di Piave, ove nel 
        1547 il commendatario Paolo Giustinian vi aveva chiamato alcuni cistercensi 
        ponti nell' abbandonano nel
 1614.
 A rappresentare nelle diocesi di Ceneda e di Treviso l'ideale cistercense 
        rimasero lungo la rimanente età veneziana le sole monache di 5. 
        Maria Nova. All'inizio del Settecento si trattava di una comunità 
        ancora fiorente, formata tra monache, converse e novizie, da oltre cinquanta 
        religiose, a cui si aggiungevano una decina di educande: su di essa si 
        abbattè all'inizio del secolo successivo la soppressione disposta 
        dalle leggi napoleoniche.
 In diocesi di Belluno, che con quelle di Ceneda e Treviso pare qui il 
        caso di non trascurare per il suo rientrare in quell'ambito storico-spaziale 
        che va sotto il nome di Marca Trevigiana, si ebbe poco dopo l'ondata soppressiva 
        la pronta ripresa di una comunità femminile, destinata neanche 
        un secolo dopo a trasferirsi presso Ceneda.
 Si trattava di un'antica casa medievale sorta a Belluno all'inizio del 
        Ducento, allorchè un gruppo di pii fedeli, formato da fratres et 
        sorores desiderosi di vivere in comunità, si era radunato presso 
        la chiesa dei Ss. Gervasio e Protasio. Mentre la componente maschile si 
        esaurì sul finire dello stesso secolo, quella femminile inizialmente 
        animata dalla nobile Acega riuscì ad attecchire. Previo assenso 
        del vescovo, nel 1212 costei ottenne da Baldovino, decano del capitolo 
        cittadino, la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio. La donazione della chiesa, 
        che garantiva al gruppo la stabilità della sede, e l'accettazione 
        del controllo vescovile sulle regole di vita comunitaria, ne garantirono 
        il decollo, tanto che nel 1266 la nuova comunità potè liberamente 
        eleggersi come prima badessa donna Benedetta.
 Non sono ancora noti tempi, circostanze e modalità che videro le 
        religiose assumere la regola cistercense, certo è che a seguire 
        la loro osservanza monastica fu nuovamente chiamato l'abate di Follina, 
        che nel 1379 se ne
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 vide assegnato in via continuativa da papa Urbano VI il compito.
 Tale compito continuò anche dopo il 1527 allorchè nel chiostro 
        follinese venne introdotta la regola camaldolese. Quando poi nell 771 
        il governo della Repubblica veneta soppresse la comunità follinese 
        imponendole la ricongiunzione in S. Michele in isola, il controllo ispettivo 
        sulle monache passò, fino alla soppressione napoleonica del 1810 
        di entrambi i monasteri, agli abati lagunari.
 La restaurazione austriaca permise una pronta neimplatazione delle cistercensi 
        bellunesi, tanto che nell 818 cinquanta monache e venti educande avevano 
        già ottenuto di potersi riunire nell'antico monastero. Con l'unione 
        del Veneto al Regno d'Italia si ebbe però una nuova indemaniazione 
        dell'edificio. Alle cistercensi venne consentito di rimanervi sino a che 
        la comunità, su cui gravava l'obbligo di non accettare nuove monache, 
        non si fosse ridotta a sette unità, dopo di che sarebbe stata considerata 
        estinta e la confisca sarebbe divenuta esecutiva. Essendo sul punto di 
        verificarsi nel 1909 una tale evenienza, su interessamento del canonico 
        bellunese Benedetti, venne ricercata una nuova sede presso Ceneda, ove 
        vennero comprate in San Giacomo di Veglia due barchesse di proprietà 
        dei conti Grotta di Venezia, che erano state messe all'asta.
 L'adattamento degli ambienti agricoli vide la scuderia divenire il coro, 
        mentre le sale di ricevimento degli ospiti il luogo per le meditazioni 
        e le preghiere. L'insediamento delle monache in S. Giacomo potè 
        così avvenire il 20luglio 1909. La ratifica dell'eretta clausura 
        da parte del vescovo Andrea Caron giunse il 26 agosto 1912, quella papale 
        fu firmata da Pio X il 20 agosto 1913.
 Partita dalla pedemontana cenedese, era nella pedemontana cenedese che 
        la presenza cistercense aveva trovato occasione di nuovo, e sia pur diversificato, 
        radicamento.
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