GIORGIO MIES
I SENTIERI DELLA MEMORIA
2. DA FREGONA AL CANSIGLIO SUI SENTIERI DELLE MONTANINE
"La via era animata da un continuo passaggio di donne
che scendevano il monte, curve il dorso sotto le gerle cariche di carbone,
o salivano a raccogliere le fragole e i lamponi del bosco. Alla sera ritornano
con un cestello di frutti profumati che vendono per una ventina di soldi.
Mi rammento, or sono trascorsi molti anni, d'aver veduto Fanny Elssler
al teatro della Scala scendere da una montagna di tela dipinta con un
paniere di frutta di carta pesta, e guadagnare mille lire per sera. Le
povere montanine di Fregona sanguinano dai piedi feriti sulle roccie,
la Elssler giungeva sempre alla sua capanna con le scarpette di raso inalterate".
In questo modo indimenticabile lo scrittore trevigiano Antonio Caccianiga
nel 1867, nella sua nota "Escursione al Cansiglio", aveva descritto
le donne di Fregona incontrate per strada mentre salivano a raccogliere
i frutti della foresta del Cansiglio, o scendevano per venderli a Vittorio
Veneto casa per casa, in un via vai continuo a piedi nudi e talora sanguinanti.
E una tradizione che in passato accomunava un po' tutte le donne della
pedemontana del Cansiglio, spinte dalla necessità di procacciarsi
un sia pur misero guadagno, specchio e memoria di una realtà d'
altri tempi, sublimata dagli stenti e dai sacrifici del vivere quotidiano.
Basti pensare che, sul finire del secolo scorso, il solo paese di Montaner
vendeva ogni anno circa dieci mila chilogrammi di fragole e lamponi.
Accingiamoci ora a salire al Pizzoc ed al bosco del Cansiglio, lungo i
sentieri delle montanine, non certo con la solita fretta che ossessiona
il turista moderno ma con il sentimento del ricordo: un ricordo che si
basa essenzialmente sull'utilizzo delle risorse naturali della montagna,
ma anche su quelle
GIORGIO MIES. Laureato in lettere (storia dell'arte),
insegnante. Autore di importanti ricerche e di numerose pubblicazioni
su arte e artisti, soprattutto della Sinistra Piave.
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dell'acqua che, scendendo a valle, faceva girare le grandi
ruote dei molini di Sonego, Osigo e Buse; nonchè quelle della pietra
da costruzione cavata dal Masaré o dalla Grotta del Caglieron dai
Fregonesi, "ovunque in fama di provetti scalpellini" (Zangiacomi).
Dalla borgata di Piai, ai piedi dell'antico castello caminese ora ridotto
a dei ruderi, la via sale verso Sonego, a quota 425 metri: un pittoresco
paese le cui case più antiche, dalla caratteristica tipologia dei
sassi a vista, sono addossate le une alle altre di modo che gli abitanti
dell'una conoscevano gioie e dolori di quelli dell'altra.
Proseguendo lungo la sponda sinistra del torrente Carron, ci stupisce
l'ordine che è dato dai campi quadrangolari delimitati da filari
di viti, dove si possono ancora incontrare uomini e donne al lavoro che,
nel ripetere il gesto dei padri, sono specchio fedele di una antica fatica.
Anche se il percorso è reso agevole dalla recente bitumatura che
ricopre l'originale selciato, detto "matonà" nella parlata
volgare, la storia ci ammonisce che stiamo camminando lungo l'antica "Strada
Remiera", così chiamata perché al tempo della repubblica
di Venezia vi venivano fatti scendere i tronchi di faggio per costruire
i remi delle galee che dovevano "dar ali alla invincibile flotta
di 5. Marco".
Un altro motivo di attrazione è costituito da capitelli o da statuine
ospitate in nicchie sui muri delle case, dedicati per lo più al
santo dei miracoli per eccellenza, 5. Antonio da Padova, quali visibili
testimonianze di una pietà popolare che affonda le proprie radici
nei secoli trascorsi: di origine collettiva, ma anche individuale, semplice
e spontanea come l'animo della gente del luogo. Se ne incontra uno all'altezza
della briglia, intitolato a S. Salvatore da Orta, nel punto in cui la
strada si biforca: puntando verso nord, superato il capitello di S. Antonio
in località Drio Corghe, la via sale dritta verso la cima del Pizzoc,
passando per Col de Federa, Agnelezza e Le Mandre, toponimi che sono chiaramente
in connessione con attività pastorali; mentre piegando verso est,
alla volta di Drio Vizza (toponimo di origine longobarda), lungo una strada
moderna che segna come un solco le pendici della montagna, si giunge alla
cappellina di 5. Antonio da Padova, più nota come "Il Santo",
da dove lo sguardo domina sulla pianura sottostante giungendo fino al
mare. Questo naturalmente se la giornata è limpida, come è
capitato al Caccianiga che, scrutando all'orizzonte "alcune macchie
bianche sui margini di un azzurro tappeto oscillante ai raggi del sole",
era stato indotto ad esclamare che fosse Venezia.
A questo sacello si legano tanti ricordi dei montanari, che avevano l'abitudine
di sostarvi per riposare un pochino durante l'alpeggio; si racconta in
particolare che la sera c'era la tradizione di accendere un lumino dall'ultimo
dei malghesi che scendeva, per poi essere spento dal primo che saliva
all'alba successiva quale punto di riferimento per quanti, durante la
notte, dalla pianura avessero guardato verso "Il Santo" sulla
montagna.
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Superato il "Crep del Vent", che al Caccianiga
aveva dato "l'immagine della desolazione, l'aspetto di uno spento
vulcano", mentre oggi la strada èfiancheggiata da lanci e
pini quasi secolari, si giunge, lungo la Valle Armada, alla amena e fertile
conca del Camp di Cadolten.
Un vecchio sacello, dedicato a 5. Floriano martire di Lorch, protettore
del bestiame, ci richiama alla realtà della monticazione, praticata
fino a qualche decennio fa nei mesi estivi; invece la nuova chiesetta
intitolata a S. Pio X, costruita in stile squisitamente montano agli inizi
degli anni Sessanta, è meta ambita dai turisti che amano sostarvi
sotto il porticato per ammirare il panorama delle spianata antistante,
punteggiata di casere e lame, fino ai monti che le fanno corona, assaporando
fino in fondo la pace e la serenità che vi regna.
Dopo una siffatta sosta ristoratrice, si prosegue alla volta del casello
delle guardie di Cadolten, così detto perchè segna il confine
del bosco, composto da molte specie arboree, fra le quali si distinguono
l'abete rosso, l'abete bianco, ma soprattutto il faggio, variamente mescolati
fra loro.
L'Azienda regionale delle Foreste provvede saggiamente alla sua conservazione,
ma non è il caso di dimenticare il monito che oltre cento anni
fa sempre il Caccianiga aveva rivolto: "Sarebbe però a desiderarsi
che le nuove leggi non venissero ad alterare radicalmente e d'un tratto
le abitudini tradizionali, privando le popolazioni circostanti dei soliti
proventi, che sono
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per loro una questione di vita".
Questi proventi trovano riscontro nel lavoro delle "montanine"
che di buonora, gerle in spalla, si recavano nel bosco per raccogliere
legna da ardere, od anche carbone ricavato dai cosiddetti "poiat".
Erano questi delle cataste di legna, accumulate raccogliendo per il bosco
namaglia di faggio, che una volta accese dalla sommità dovevano
continuare a bruciare per otto giorni consecutivi, ciò che richiedeva
un costante controllo da parte dei carbonai, sia di giorno che di notte,
con il bello e il brutto tempo, pena il deterioramento irreversibile del
prodotto.
Ma i proventi di maggior rilievo erano certamente i manufatti degli "scatoleri",
prodotti dai Cimbri del Cansiglio, un gruppo etnico che ha custodito per
secoli tradizioni, usi e cultura propri; il loro nome deriva dal tedesco
"Cimbermann", che vuol dire "lavoratore del legno",
una caratteristica che hanno sempre avuto, anche se ora, scesi dai villaggi
di Vallorch e delle Rotte, hanno trovato in pianura migliori condizioni
di lavoro e di vita. Gli Azzalini di Fregona sono gli unici in Italia,
oltre ad una ditta toscana, a produrre "scatoi" e "crivei"
ancona oggi, esportandoli per la maggior parte nei paesi balcanici e dell'Africa
settentrionale. Quando abitavano ancora in Cansiglio, lo smercio del materiale
prodotto avveniva sia all'ingrosso sia al minuto. Nel primo caso si procedeva
a caricare i colli destinati alla spedizione su carri o slitte, che poi
venivano tirati da dei cavalli fino alla stazione ferroviaria di Vittorio
Veneto. Per la vendita al minuto, invece, scatole da formaggio, "beterle",
"tamisi" e "tamisete", "crivei" e "crivelloni"
venivano portati a spalla direttamente alle case dei paesi della pedemontana,
banattandoli per lo più con generi alimentari. Il tutto veniva
introdotto, in modo ingegnoso, in due bastoni incrociati che poi venivano
caricati in spalla, bene in mostra per essere venduti porta a porta.
Siccome la partenza avveniva alle prime ore del mattino, talora capitava
di essere seguiti a distanza ravvicinata dai lupi; per questo c'era l'abitudine
di tenere in una mano, a mo' di torcia, uno speciale fungo legnoso che
si manteneva acceso agitando con cadenza ritmica avanti e indietro il
braccio durante il cammino. Nel caso in cui si spegnesse e il lupo si
fosse avvicinato troppo minacciosamente, si faceva fracasso percuotendo
il carico con dei bastoni fino al punto di rotolargli addosso, se necessario,
un crivello; questo bisognava continuare a farlo fino alle prime luci
dell'alba, quando il lupo si allontanava spontaneamente dall'uomo e dalle
abitazioni.
A noi oggi, abituati a vivere nel mondo di cemento e di asfalto che ci
circonda, quei casoni in cui vivevano sembrano abitazioni da favola d'altri
tempi; tali, sempre secondo il Caccianiga, da meritare "gli onori
dell'esposizione a Parigi al pari delle tende degli arabi e delle baracche
degli ottentotti". Erano baracche di legno ad un piano con tre vani:
due per le camere, con uno stretto corridoio dalla parte esterna, e uno
per la cucina. Nei casoni primitivi, ad un solo vano ricavato ai piedi
d'un albero, non c'era il
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fumaiolo, per cui il fumo usciva da tutte le fenditure del
tetto e delle pareti, oltre che dalla porta e finestra, "cosicché
la tinta interna è d'un nero lucente molto più bello dell'ebano.
È una vernice intalterabile composta da creosoto di fumo e di resina...
Ci siamo convinti che l'asfissia per mezzo del fumo èun pregiudizio
sociale e che un letto di foglie secche, nel quale sembra a prima vista
che due persone debbano stare in disagio, può benissimo accoglierne
otto, quattro sotto, e quattro sopra". Sono ancora parole del Caccianiga,
che nel riferire di aver visto ben otto carbonai dormire in un letto siffatto,
concludeva ammirato che "tutti godevano la più perfetta salute".
Il nostro "sentiero della memoria" si chiude con il sorprendente
panorama del Pian Cansiglio, il cui silenzio oggi è interrotto
dal vociare dei turisti mentre ieri dal muggito degli armenti al pascolo
dal levar del sole, annunciato da uno scoppio di mortaio che partiva dal
Palazzo d'Ispezione, fino alla sera quando, in conseguenza del noto fenomeno
dell'inversione termica una nube leggera e trasparente copre il tappeto
erboso.
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