ALDO TOFFOLI
Minima Flaminiana - 1
A SERRA VALLE UN PALAZZO "CHE PARLA"
Palazzo Cesana della (o di) Piazza è tra i bellissimi di Piazza
Flaminio, e tutti i vittoriesi - i serravallesi in particolare - hanno
salutato con gioia il suo restauro, che lo ha salvato da una rovina che
era facile pronosticare prossima:
tale era, e tanto evidente, il livello del suo degrado. Resta ora in molti
un filo di perplessità, perché è chiaro che chi ha
curato la ripulitura e il trattamento di conservazione del volto esterno
del Palazzo, quindi soprattutto delle sue due facciate principali, a sud
e a est, una volta messo in luce quello che resta dei primitivi intonaci
e delle antiche decorazioni non ha "osato" fare il passo ulteriore,
che pure ci si sarebbe attesi, del restauro integrale della facciata,
beninteso con la salvezza della struttura e degli spazi di interesse storico
e! o artistico. Ma non è questo il tema di cui qui si intende trattare.
Lo spunto per questa nota è suggerito dalla singolare abbondanza
di messaggi che dalle facciate di Palazzo Cesana emergono, e il tentativo
è di interpretarne il senso.
Palazzo Cesana è un palazzo "che parla": le sue facciate,
infatti, riportano numerosi detti di varia origine, simboli, medaglioni.
È evidente che chi ha costruito l'edificio intendeva da esso, o
meglio, con esso, dire qualcosa. Che cosa?
La risposta all'interrogativo è difficile, perché l'ingiuria
del tempo ha provocato danni irreparabili e reso alcune parole indecifrabili;
e alcuni problemi preliminari non trovano, al momento, soluzione compiuta.
Si veda, ad esempio, la data di apposizione delle lapidi e delle scritte:
non è da escludere che si tratti di date diverse, ma solo una approfondita
analisi dei materiali potrebbe darci risposte certe. Per ora possiamo,
su tale problema,
ALDO TOFFOLI scrittore di poesia, di letteratura e di
storia, autore di numerose pubblicazioni. Da sempre è impegnato
nel mondo della politica e della cultura locale.
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avanzare solo ipotesi, con indice vario di attendibilità.
Nel tentativo di decifrare e interpretare quello che il Palazzo Cesana
intende "dirci" con le sue scritte e i suoi segni, dobbiamo
quindi essere prudenti.
L'ipotesi di lavoro da cui parto - che comunque mi sembra anche la più
fondata - è che le scritte e i vari simboli siano stati apposti
alle facciate del palazzo nel corso della sua costruzione, e che quindi
i messaggi che dal Palazzo si esprimono abbiano cominciato a "parlare"
fin dal primo apparire della magnifica costruzione sulla Piazza maggiore
di Serravalle.
Il raccoglitore e propositore dei messaggi, la cui voce ascoltarono i
serravallesi che per primi videro il Palazzo, è colui che il Palazzo
fece costruire e per primo lo abitò: Donato Cesana.
Se dobbiamo credere al più attendibile degli storici di Serravalle,
mons. Carlo Laurenti(1), autore delle Memorie che possono essere di qualche
uso per la Storia di Serravalle, Donato Cesana - della nobilissima e vasta
famiglia comitale le cui radici note risalgono, nel Trevigiano e nel Bellunese,
al sec. XII - apparteneva ad uno dei tre rami della famiglia (i Bonaccorsi,
i Dal Colle e i Mozzi) che dal '400 si trasferirono a Serravalle.
Il Laurenti specifica che le famiglie dei Cesana Mozzi a Serravalle erano
due: quella dei Ce sana Mozzi della Riva e quella dei Cesana Mozzi di
Piazza, così chiamati questi ultimi proprio dal Palazzo costruito
sulla Piazza Maggiore da Donato. Ma non è qui il caso di impigliarsi
nelle complicatissime questioni riguardanti la storia dei Cesana, che
forse non saranno mai dipanate.
Fermiamoci a Donato.
Donato Cesana, figlio di Piero, visse a Serravalle nel tempo in cui Giovanni
Antonio Flaminio(2), padre di Marcantonio(3) vi esercitò la sua
attività di pubblico maestro(4), ed ebbe con lui rapporti molto
cordiali. Entrambi fecero parte del Serravallese Collegio dei Notai e
collaborarono in due successive occasioni(5) alla revisione dello Statuto
del Collegio. Il Flaminio traccia del Cesana un bel ritratto, in un carme
latino indirizzato al figlio di Donato, Tito, quando gli perviene la notizia
della morte di suo padre. Il carme, pur non sfuggendo, qua e là,
a certa enfasi, è sostanzialmente sincero nelle sue espressioni
di amicizia e di rimpianto per l'amico scomparso, cittadino di quella
Serravalle a cui il Flaminio si sente ancora profondamente legato.
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AD TITUM CAESANUM SERA VALLENSEM
Nuncius infelix nostras modo perculit aures:
Et gravis invasitpectora pulsa dolor,
Carpere non dulces huius Tite luminis auras
Amplius atque tuum luce carere patrem. |
5
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Quod simul accepi constansque hoc fama secuta est,
Scriptaque fecerunt undique missa fidem
Non secus indolui quam charifunerefratris.
Et nostrae lachrimis immaduere genae.
O quali infelix, et quanto orbatus amico |
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Ingratum vitae nunc ego tempus ago.
Solvitur hoc omnis iam pene obducta cicatrix
Vuinere crudescunt et mala nostra magis.
Defuit hoc nostris unum tot casibus actis.
Hic demum cumulus debuit esse malis. |
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0 qualem cives civem lugetis amici.
O qualem immo aetas perdidit ista virum. Sed nullum tangit clades,
nullique dolenda est
Ista magi laute(' quam Seravalle tibi.
Hic tua concussit magis edita moenia longe: |
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Quam modo, cum bello pulsafuere gravi. Arx Donatus erat tibi munitissima,
firmum
Praesidium, et nullo tempore quassafides.
Quando ullum invenies similem tibi? tamque colendum? Quando ullum
invenies Mesuli terra parem? |
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0 rara probitate virum: quem laude perenni Posteritas
omnis non tacitura ferat.
Vulneris istius vis ingens, maxima cladis
Accepta plaga est vix toleranda tibi:
Ut desyderio: tibi quod succrescere in horas |
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Credimus: et lachrymis vix queat esse modus. Quidfaciam?
Solerne tuum Tite chare dolorem?
Atqui: nefaciam: non sinit ipse dolor.
Est etiam nobis nimis alte vulnus adactum:
Nec quam te clades me minus ista premit. |
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Talia scribenti lachrymarum flumine largo Ingruit: ac
prohibet scribere plura dolor(7). |
A Tito Cesana Serravallese
Una triste notizia mi ha or ora raggiunto e un grande dolore
ha invaso il mio cuore straziato: tuo padre, o Tito, non respira più
l'aria di questo mondo e per lui la luce si è spenta.
Appena ebbi l'annunzio, e la voce diffusa e le lettere pervenutemi da
ogni parte lo confermarono, ne soffrii come per la morte di un amato fratello,
e il mio volto si bagnò di lacrime.
E ora vivo una ben triste stagione della mia vita, privato di un amico,
ahimè, quanto buono e quanto caro!
Per questa ferita si riaprono ora nel mio cuore le piaghe che si erano
appena chiuse, e crescono i miei mali.
A tutte le disgrazie che mi hanno colpito mancava questa sola: questa
doveva essere alla fine il colmo delle mie pene.
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O quale grande concittadino piangete, cittadini amici miei! Meglio: quale
uomo ha perduto questo tempo!
Ma questa perdita non colpisce nessuno, da nessuno può essere pianta
più che da te, o splendida Serravalle!
Questa notizia ha squassato le tue alte mura molto di più di quanto
è accaduto poco tempo fa, quando furono percosse da una tremenda
guerra.
Donato era per te una rocca munitissima, una solida difesa, una garanzia
in nessun tempo messa in forse.
Quando troverai uno simile a lui, degno di altrettanto amore, quando troverai
uno a lui pari, o terra del Meschio?
O uomo di rara onestà, che i posteri tutti ricorderanno ed esalteranno
con lode perenne!
O caro Tito, il dolore bruciante di codesta ferita, la terribile perdita
che hai subito hanno provocato in te una sofferenza intollerabile, cosicché
al rimpianto, che sento crescere in te ogni ora di più, e alle
lacrime, non c'è ormai più limite.
Che cosa posso fare? Dirti parole che leniscano il tuo dolore? No, non
lo farò:
è la stessa immensità del dolore che me lo impedisce. Anch'io
ho subito una ferita troppo profonda, che mi fa soffrire non meno dite.
Mentre ti scrivo queste cose il dolore mi assale con un fiume di lacrime,
e mi impedisce di dire di più.
L'intento del carme, anche se in forma di lettera al figlio
dello scomparso, è celebrativo, ma ciò non compromette l'importanza
obiettiva dei dati che ci comunica, dai quali emerge una figura nobilissima
di cittadino, amante della patria e della famiglia, decoro autentico della
sua terra. Il carme ci è utile anche perché ci fornisce
elementi per individuare il tempo, se non la data, della morte di Donato.
Il fatto che sia indirizzato a Tito ci dà il terminus ante quem,
che è la data della morte di questi, avvenuta il 27 agosto 1514(8).
L'accenno del v. 15 alla "guerra di poco tempo fa" che squassò
le "alte mura" di Serravalle, non può che riferirsi allo
scontro tra le milizie della Lega di Cambrai, che nel luglio del 1509
avevano invaso Serravalle, e quelle di Giovanni Brandolino, che dopo feroci
scontri ripresero la città (20 luglio 1509) abbandonandosi quindi
a violenze di ogni genere, per cui, dice Giovanni Bonifacio, "...patì
Serravalle grandissima calamità, essendo crudelmente saccheggiato..
"(9)o Giovanni Antonio Flaminio subì, da queste violenze,
danno irreparabile, per cui dovette tornarsene in quello stesso anno a
Imola, sua vecchia patria, presso i suoi genitori, portando con sé
la moglie Veturia, il figlio Marcantonio, l'unico rimastogli, e poche
cose che era riuscito a conservare (10) Questo chiaro riferimento all
'annus belli (così viene citato più volte nel Libro de'
Notai di Serravalle il 1509(11), ci dà il terminus post quem: la
data della morte di Donato Cesana deve essere quindi collocata tra il
1509 e il 1514. Non escludo poi che la sequenza di sventure cui il Flaminio
accenna nei versi 11-14, sequenza che egli dice culminare nella perdita
di Donato, comprende anche la scomparsa di Veturia, che sappiamo avvenuta
nell 513. In questa ipotesi, gli anni probabili della morte di Donato
si ridurrebbero a due: 1513-1514.
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Sappiamo che Donato ebbe tre figli: Tito, Pietro Andrea, Girolamo. Gli
unici due serravallesi citati nelle sue lettere da Marcantonio Flaminio,
il celebre figlio di Giovanni Antonio, sono proprio Tito e Girolamo. Di
quest'ultimo Marcantonio parla nella lettera scritta a Gasparo Contarini
da Sessa, l'li novembre 1538: lo dice "homo di ottimo ingegno et
dottore eccellente et lungamente versato nel foro... homo di costumi gentilissimi
et molto religioso..." e afferma di amarlo "come fratello"(12).
Di Tito parla nella lettera latina inviata ad Alessandro Marzoli, poco
dopo la morte dell'amico. Anche su di lui il Flaminio si esprime in termini
altamente laudativi: lo dice "...juvenis in omni litterarum genere
praeclarus, litteris graecis aeque ac latinis imbutus, natura vero ad
respoeticas adeo excitata, ut nihil esset quod ab eius ingenio sperare
non posses"(13). E più avanti afferma essergli stato, Tito,
l'amico più caro di tutti(14). Coincidenza suggestiva e commovente:
anche Marcantonio, scrivendo della morte di Tito, è interrotto
dalle lacrime, e dice di non poter più proseguire: "Sed de
Tito hactenus: nam plura prae lacrimis scribere non possum" (15)
Così, a pochi mesi di distanza, Flaminio padre parla della morte
dell'amico Cesana padre, e il pianto lo interrompe, e Flaminio figlio
parla della morte di Cesana figlio, anch'egli interrotto nel suo dire
dalle lacrime.
Un pianto, quello di Marcantonio, che ci fa un poco ricredere del giudizio
con cui bolliamo di enfasi letteraria il "fiume di lacrime"
da cui Giovanni Antonio si dice travolto mentre parla della morte dell'amico
Donato.
Non è certo se Marcantonio Flaminio, nel suo carme a Francesco
Robortello, con il nome di Sicco (Sicus) intenda ricordare uno dei fratelli
Cesana, ma lo ritengo probabile:
"Sicus,
elegans iuvenis, domo venusta,
te laetum accipiet libens".
(Sicco, giovane squisito, ti accoglierà con gioia nella sua bella
casa, e ne sarai contento).
E più avanti, nello stesso carme, Marcantonio immagina
che il Robortello lo rimproveri di stare lontano da Serravalle e gli ricordi
i luoghi dei suoi sollazzi infantili:
"Non hanc ludere per viam solebas
puer cum pueris?"
(Non eri solito giocare per questa strada, con i ragazzi tuoi pari?)(16).
Per la strada (via Tiera), nella Piazza, il Flaminio ebbe
certo a compagni di gioco - come si è detto più sopra -
Tito e Girolamo e Pietro Andrea Cesana, e certo frequentò la loro
bella casa, magari mentre i rispettivi padri, Giovanni Antonio e Donato,
se ne stavano in conversazione.
Probabilmente i ragazzi si saranno più volte fermati davanti alle
nume
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rose scritte che decoravano la casa e, forti del loro latinuccio, avranno
compitato e forse tentato di interpretare le frasi misteriose. Giovanni
Antonio, maestro dilatino a Serravalle(17), li avrà certo aiutati.
Noi, oggi, a più di cinquecento anni da allora, potremmo probabilmente
farcela anche senza i sapienti suggerimenti del buon Giovanni Antonio,
ma dobbiamo combattere con un nemico invincibile, il tempo, che ha cancellato
numerose lettere e ha reso indecifrabili alcune parole. La completa "lettura"
di Palazzo Cesana non potrà quindi che essere integrata, per noi,
da alcune ipotesi, relative alle frasi e alle parole mutile.
Per "leggere" Palazzo Cesana è necessario
partire dalla lapide esistente sulla facciata orientale, a fianco della
seconda finestrina dell'ammezzato, a partire da sud.
Lo scioglimento delle abbreviazioni, e quindi l'interpretazione, non pongono
particolari problemi.
Leggiamo, ponendo tra parentesi l'integrazione delle parole abbreviate.
DONATUS CAESAN(US) P(ETRI) F(ILIUS) PATRIAE ORNAMENTO SIBI
ET SUIS POSTERISQ(UE) DUCE MARIA EIUS MATRE
PIENTISS(IMA) DEI GRATIA V(IVUS) EREXIT MCDLXXXV PISA-
NO TAR(VISINO) ARCHITEC(TO).
Traduzione.
DONATO CESANA FIGLIO DI PIETRO, A DECORO DELLA SUA PATRIA, PER SÈ
E LA SUA FAMIGLIA EI SUOI DISCENDENTI, PER GRAZIA DI DIO E CON L'AIUTO
DI MARIA PIISSIMA MADRE SUA, NEL CORSO DELLA SUA VITA COSTRUÌ.
ANNO 1485. ARCHITETTO PISANO TREVIGIANO.
Il senso dell'epigrafe è chiaro. Si tratta, per così dire,
della "firma" del committente dell'opera.
Donato Cesana è orgoglioso del suo palazzo, che a quel tempo doveva
essere tra i più alti, se non il più alto, di Serravalle,
e tra i più belli. Capisce che esso è di ornamento alla
sua città, e dichiara che proprio questa è stata la sua
prima intenzione nel decidere di costruirlo.
Egli è uomo di fede, e afferma che quel che ha fatto è stato
possibile solo perché la Vergine Maria, cui è dedicata la
Chiesa Maggiore di Serravalle che sta proprio di fronte al palazzo, lo
ha guidato, e Dio lo ha fatto segno della sua benevolenza. V(IVUS) EREXIT,
esprime una sorta di contenuta esultanza: Donato Cesana vuole con quelle
parole dirci che egli ha deciso l'opera, ne ha seguito la costruzione
(durata probabilmente alcuni anni) e ora gode di vederla finita, bella
come l'aveva voluta. È il 1485. La lapide è l'atto conclusivo
dell'impresa: e il committente vuole che accanto al suo nome sia segnato
anche quello dell'architetto (cioè, insieme, progettista, direttore
dei lavori, forse anche responsabile dell' "impresa di costruzione"):
è chiaro che
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egli è soddisfatto del lavoro e del suo autore.
Letta per prima l'epigrafe che, da Palazzo Cesana, ha cominciato
a parlare per ultima, ora possiamo leggere le altre scritte secondo l'ordine
della loro presumibile apposizione.
Le facciate sud ed est del palazzo portano, sotto il cornicione, una serie
di frasi a contenuto sapienziale, scritte in sequenza in bei caratteri
maiuscoli, a formare una sorta di fregio.
Il tempo le aveva cancellate pressoché del tutto, ma fortunatamente
il primo dipintore si era aiutato con dei segni graffiti sull'intonaco,
per cui i recenti restauratori non hanno avuto molte difficoltà
a seguire quei segni e a rifare le scritte. Questo almeno per gran parte
del "fregio", perché in due punti di esso siamo indotti
a pensare che la "lettura" dei graffiti, e quindi il restauro
delle lettere, non siano corretti.
Leggiamo il fregio nell'ordine della scrittura, e quindi partendo dalla
facciata a sud, ponendo tra parentesi le lettere integrate su nostra congettura.
(D)EUM COLE - PXMDICS - TE IPSUM - O - (N)OSCE - TEMPORI PAREAS - FINEM
RESPICE - N(IL) NIMIS.
Traduzione.
ADORA DIO. Le lettere che seguono sono senza senso, per cui si deve ritenere
che il restauro sia errato.
CONOSCI TE STESSO. La scritta riproduce la versione latina della celeberrima
frase greca (gnòthi seautòn) che, scritta in lettere d'oro
sul frontone del tempio di Apollo in Delfo (la frase era attribuita da
alcuni a Talete, da altri a Solone; c'era chi, come Giovenale nella satira
11(v. 27) la diceva venuta direttamente dal Cielo) rappresentava per gli
antichi greci il principio universale della sapienza.
Per la lettera O che occupa il centro della prima canna fumaria della
facciata est valgono le osservazioni svolte sulle lettere indecifrabili
della facciata sud.
OBBEDISCI ALLE LEGGI DEL TEMPO. Cioè non affrettarti né
ritardare mai.
STA ATTENTO ALLE CONSEGUENZE. È la parte conclusiva di un proverbio
latino che suonava così: QUIDQUID AGIS PRUDENTER AGAS ET RESPICE
FINEM. Significa: qualunque cosa tu faccia, falla con prudenza, e sta
attento alle conseguenze.
NIENTE È DI TROPPO. Tutto può essere utile. Ma l'interpretazione
può essere anche: non fare niente di troppo. E un frammento di
un comico romano non identificato, riportato da Seneca (Epistole a Lucilio,
94, 43).
L'insieme delle scritte, tutto sommato, contiene un insegnamento morale
di alto valore, un programma nobile di vita, valido per ogni tempo.
Il Palazzo porta sulla facciata sud, quella che dà
sulla piazza, tre lapidi con
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altrettante massime. Due lapidi (quelle collocate appena sotto i poggioli
del primo piano) hanno le scritte incise, quella centrale in rilievo.
Le due lapidi incise. Quella a sinistra di chi guarda porta la scritta:
PECUNIA AVARO SUPLICIUM EST - LIBERALI DECUS - PARICIDIUM PRODITORI.
Traduzione
IL DENARO, IN MANO ALL'AVIDO È UN SUPPLIZIO, IN MANO AL GENEROSO
È UN ORNAMENTO, IN MANO AL TRADITORE È LA ROVINA DELLA PATRIA.
Non ho trovato la fonte e non escludo che la frase sia di invenzione dello
stesso committente.
Sotto il poggiòlo di destra l'altra scritta: CONTENTUM SUIS REBUS
ESSE MAXIM(A)E SUNT CERTISSIMAEQ(UE) DIVITIAE.
Traduzione.
CONTENTARSI DI QUEL CHE SI HA È LA RICCHEZZA PIÙ GRANDE
E PIÙ SICURA.
È un passo dei Paradoxa stoicorum (VI, Si) di Cicerone, esprimente
uno dei princìpi fondamentali, e il più diffuso, dell'etica
stoica.
Nella lapide centrale la scritta in rilievo ha la prima lettera abrasa,
ma, per recuperarla, la congettura è facile. Si legge: (P)ATERE
ET ABSTINE, e significa: SOPPORTA E ASTIENTI. E il celeberrimo precetto
del Manuale di Epitteto, il filosofo frigio del I - Il secolo d.C., che
invita a sopportare con rassegnazione tutte le vicende esteriori e a rinunciare
insieme ad ogni desiderio diretto alle cose esterne, che possa intaccare
la libertà interiore. Più diffusa è la forma "sustine
et abstine", assunta come motto da numerose casate nobiliari.
Concludendo, il giudizio che si può esprimere su
quello che "dice" il Palazzo Cesana è che si tratta di
un insieme di ammonimenti di grande significato morale, un alto e nobile
programma di vita ispirato in larga parte alla filosofia greca, ma riconducibile
a piena sintesi nella morale cristiana.
A ciò concorre anche un altro elemento, decorativo e insieme eloquente,
reperibile sulle facciate sud, est e nord del Palazzo: il monogramma di
San Bernardino, un disco con corona di raggi fiammeggianti portante al
centro il segno IHS (le iniziali di lesus Hominum Salvator o, forse, le
tre prime lettere del nome di Gesù parzialmente traslitterato dal
greco Jesous).
Gli storici locali raccontano che San Bernardino da Siena - che era solito
accompagnare le sue prediche con l''ostensione di una tavoletta col monogramma
di Cristo - abbia predicato a Serravalle intorno alla metà del
1423, e che ivi la sua parola, contrariamente a quanto era accaduto a
Ceneda, abbia ottenuto buoni frutti "perché ancora si scorge
il segno IHS sopra molte case, ch'eran quelle delle famiglie riconciliate
dalle sue sante predicazioni" (così il Laurenti nella sua
Storia di Serravalle). La predicazione serravallese di San Bernardino
appare confermata dal fatto che pressoché tutte le chiese
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serravallesi possiedono immagini di San Bernardino e del suo monogramma,
ma l'affermazione del Laurenti relativa ai monogrammi sulle case non trova
riscontri, anche perché delle case di abitazione esistenti a Serravalle
ai tempi di San Bernardino non ne restano che due otre. I tre monogrammi
sulle facciate di Palazzo Cesana, costruito a più di sessant' anni
di distanza dalle prediche serravallesi del Santo di Siena, debbono quindi
essere stati posti solo a ricordo del memorabile evento e delle sante
lezioni che nell'occasione apprese il popolo di Serravalle. Lezioni la
cui eco probabilmente risuona anche nelle scritte che abbiamo letto. (E
a proposito di quella sotto il poggiòlo di sinistra, di cui si
ignora la fonte, è interessante rilevare la rassomiglianza tra
la prima frase di essa - Pecunia avaro suplicium est - e il passo dell'Ecclesiaste,
5, 9 - Avarus unquam satiabiturpecunia: il denaro non saziarà mai
l'avido, commentato da San Bernardino in una delle sue prediche senesi).
Ma la facciata a sud di Palazzo Cesana tenta di dirci ancora qualcosa.
Essa porta infatti, sopra ciascuna delle due finestre principali del secondo
piano, due medaglioni dipinti, con profili umani rivolti l'uno verso l'altro.
Di chi siano i profili non è possibile sapere, anche se è
probabile trattarsi di personaggi della famiglia Cesana.
Per concludere facciamo un passo appena fuori della piazza,
su per via Roma. Lì, adiacente al vecchio Municipio, sta un altro
Palazzo Cesana, costruito negli anni a cavallo del 1500 dai fratelli Salgardo
e Vettor, del ramo Cesana del Colle. Sotto l'unico poggiòlo del
Palazzo, in collocazione identica a quelle del Palazzo Cesana della Piazza,
è infissa una lapide con la scritta: MELIUS EST BONUM NOMEN Q(UAM)
DIVITIAE MULTAE
- MCCCCCII DIE XX VII OCTOBRIS. Il significato è chiaro: È
MEGLIO POSSEDERE UN BUON NOME CHE MOLTO DENARO. Segue la data della conclusione
dei lavori di costruzione dell'edificio: 27 OTTOBRE 1502.
La frase, presa del Libro dei Proverbi (22, 1), richiama nello spirito
quelle che abbiamo letto più su. I due edifici, dimora di due famiglie
tra loro parenti, si scambiano, a poche decine di metri di distanza, come
un cenno d'intesa.
NOTE
Si ripropone - largamente rivisto e ampliato
- il testo di tre articoli, intitolati al Palazzo Cesana,
apparsi sull'Eco di Santa Maria Nova, n. 3-4, Maggio-Giugno 1989, n. 5-6,
Luglio-Agosto
1989, n. 1, Gennaio-Febbraio 1990.
1) Serravalle, 1740-1817.
2) Serravalle, 1498 - Roma, 1550.
3) Imola(?), 1464 - Bologna, 1536.
4) Giovanni Antonio Flaminio insegna a Serravalle in tre periodi: dal
1486 al 1491, dal 1502
al 1509, dal 1517 al 1520.
5)11 Flaminio è ammesso al Collegio dei Notai di Serravalle l'li
ottobre 1506 ("... ommesso il consueto esame, troppo nota essendo
la sua dottrina...") e già il 20ottobre di quell'anno èchiamato
a far parte, con Giambattista Mantovano e Donato Cesana, di una commissione
incaricata della revisione dello Statuto del Collegio. Il 7 luglio 1508
viene formata un'altra commissione, per un'ulteriore revisione, ancora
con la partecipazione del Flaminio e del Cesana, e Guidotto Raccola al
posto del Mantovano. (Notizie e citazioni da: Gianagostino GRADENIGO,
"Se Giannantonio e Marcantonio Flaminio si possano chiamar serravallesi.
., lettera.., al signor d. Bartolomeo Sabbionato, Sacerdote Mottense";
in Nuova Raccolta di opuscoli scientifici efilologici, torno ventesimo
quarto, Venezia, 1773).
6)11 testo a stampa porta lautum, il che comporterebbe la concordanza
con Serravalle-is (neutro della terza declinazione): ma tutti i testi
latini che citano la località usano Seravallumi (neutro della seconda
declinazione). Preferisco emendare con laute, che comporta una forzatura
più lieve, ammettendo il pentametro dattilico la sillaba breve
prima della cesura, sia pure in via eccezionale.
7) loannisAntonii FlaminiiForocorneliensis Silvarum libri/I. Eiusdem Epigrammatum
libri III, Bologna, 1515. 11 carme è l'ultimo del lI libro delle
Silvae.
8) GRADENIGO, op. cit.. p. 44.
9) Giovanni BONIFACCIO, Istoria di Trivigi, Venezia, 1744, ripr. anast.
Sala Bolognese, 1981, p. 506.
10) Di questa triste avventura parla lo stesso Flaminio in una lettera
al cardinale Raffaele Riario, scritta poco tempo dopo la fuga da Serravalle.
Dopo aver fatto un p0' la storia della sua vita, e detto della splendida
accoglienza riservatagli dai Serravallesi al suo ritorno da Montagnana
(1502) e dei successi della sua attività di maestro, prosegue:
"Ibi usque ad proximum bellum, quo aJflicta plurimum Veneta resfuit,
prospere nobis omnia cessissent; nisi de tribusfiliis maribus, primis
illis mei reditus mensihus duos perdidissem. Bello deinde aucta calamitas
est, oppido capto, et crudelissime direpto. Ubi quantam ego tum lihrorum
et lucubrationum mearum, cum rei familiaris jacturam frcerim, non scribo:
Tibi cogitandum relinquo, qui harbariem, ac immanitatem no.ltri temporis
militum non ignoras. Collegi parva( quasdam reliquias; et cum uxore ac
unico filio M. Antonio Flaminio mdc fugam arripui, ac me in veterem Patriam
et ad meos recepi. Ubi praecipuum mihi solatiumfuit in tot malis, quodpatrem
meum tum sexagenarium, quam item charissimam genitricem vivos et incolumes
reperi (Joannis Antoniii Flaminii forocorneliensis Epistolae Familiares...
editae... a Fr. Dominico Josepho Capponi, Bologna, 1744, pp. 16-17).
("Lì, fino alla guerra di questi ultimi tempi, da cui fu gravemente
investito il territorio Veneto, tutto mi andò bene, se non fosse
stato perla morte di due dei miei tre figli maschi, che perdetti pochi
mesi dopo il mio ritorno a Serravalle. Poi la guerra moltiplicò
le mie disgrazie, a seguito della presa della città e del terribile
saccheggio che ne seguì. Delle perdite che ebbi a subire in quella
circostanza, dei miei libri, dei miei lavori, del mio patrimonio, non
sto a dire: te lo lascio immaginare, a te che conosci bene la barbarie
e la ferocia dei soldati di questi tempi. Radunai le poche, piccole cose
rimastemi e con mia moglie e l'unico figlio Marco Antonio fuggii di lì
e mi rifugiai presso i miei, nella mia vecchia patria. Dove mi fu di grande
conforto in tante sventure trovare mio padre allora sessantenne e così
la mia amatissima madre, vivi e in buona salute").
11) GRADENIGO, op. cit., p. 30.
12) Marcantonio FLAMINIO, Lettere, a cura di Alessandro Pastore, Roma,
1978, p. 56.
13) "... giovane di grande dottrina in ogni genere di lettere, profondo
conoscitore del greco come del latino, con un'attitudine così vivace
alle cose della poesia, che non c'era niente che non si potesse sperare
dal suo ingegno".
Marcantonio FLAMINIO, Lettere cit., p. 216. Il testo porta litteram: si
tratta di un evidente
errore di stampa per litterarum.
Nella lettera al Manzoli il Flaminio dice che Tito è morto hoc
anno. La lettera è senza data
e il curatore della raccolta ipotizza per essa il 1515. La data va corretta
in 1514 (cfr. prec. n.
8).
14) "Video.., me... amicum amisisse quem ceteris omnibus anteponebam".
15) "Ma di Tito basta: le lacrime mi impediscono di scriverne ancora".
16) Marci Antonii... Carmina, Padova, 1743, p. 179 (Carminum lib. VI,
XXIX).
17) È assai probabile che Giovanni Antonio sia stato maestro anche
di Tito Cesana. A favore
di questa ipotesi sta l'Epigramma 59 del 1.1 (v.n.7), indirizzato aTito,
in cui Giovanni Antonio
rassicura il giovane Cesana - con tono e argomenti di maestro - che gli
restituirà quanto prima
con le sue osservazioni il lavoro su Ercole (certamente l'ElegiaAdulescentiaHerculis
lodata
da Marcantonio nella lettera citata - cfr. nn. 13, 14, 15 - ad Alessandro
Marzoli). La conferma
può venire dal fatto che proprio a Tito, e non ai suoi fratelli,
Giovanni Antonio si rivolge
all'annuncio della morte di Donato.
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