Rassegna Bibliografica
SEVERINO DAL BO, Primavere cenedesi e altre stagioni, Vittorio
Veneto, De Bastiani, l99l,pp. 162.
Devo ammettere di aver provato un p0' di invidia nel leggere questi piacevolissimi
bozzetti di Severino Dal Bo. Invidia suscitata dal fatto che solo lui,
stando sene a Milano da cinquant'anni, può ricordare le cose di
qui come le racconta. Per noi, indigeni radicati al sito natale, esse
si stemperano nella stratificazione delle emozioni e degli accadimenti,
tanto da non essere più sostanzialmente quelle dei tempi andati.
Per noi è un mondo perduto, ed egli sa farcelo riguadagnare, avendo
mantenuto, nella dimensione di lontananza spazio/temporale, lo stupore
con cui si guardano con occhio e animo vergine le cose nell'età
favolosa.
Qui egli ha conosciuto i primi trasalimenti della fantasia e del sentimento,
le prime rivelazioni dell'infanzia a contatto con l'infinita, intatta
natura, il senso di quei giorni uguali, senza tempo, legati a una realtà
naturale e umana apparentemente immobile.
E così vengono avanti nella rievocazione i ricordi netti ed intatti
dei luoghi, dei profumi, delle sensazioni, delle situazioni, delle persone,
delle esperienze... Non è nostalgia: è una vita che scorre
sotterranea e parallela a quella concreta quotidiana di oggi.
Alla base di tutto una sconfinata ammirazione per questa terra, per questo
insieme di monti, di vallette, di colline, di stradicciole tra il verde,
con epicentro la Cervada. Neanche il più esercitato autocontrollo
ancorato all'ironia (perché la rivisitazione non degeneri nel sentimentale),
può esimere dal ritenere che questo angolo sia il più bello
e godibile del mondo, capace di comunicare al corpo e allo spirito piaceri
segreti e supremi.
Poi la simpatia umana per la gente, le sue virtù, le sue debolezze,
"l'economia e la cultura del corti-vo", i costumi, l'eloquio.
Emergono dal flusso della memoria potenzialità ignorate o dimenticate
del nostro dialetto e della sua espressività, vocaboli che pur
costituiscono il patrimonio lessicale di base per ciascuno di noi, ma
che acquistano una freschezza e un'efficacia sorprendenti, spontaneamente
mescolati alla lingua italiana. Ciò nell'istintiva convinzione
che l'espressione dialettale, usata con tutta la compiaciuta complicità
di un codice segreto, abbia qualcosa di più, quella sfumatura che
rende meglio un'idea, una sensazione, uno
stato d'animo. Ad arricchire la capacità comunicativa dell'autore,
qui trova cittadinanza a pieno titolo il lessico scientifico. Nella convinzione
umanistica del medico-scrittore (si pensi a Leonardo: "Se vogli avere
vera notizia della forma delle cose comincerai alle particule di quelle...")
in natura non c'è nulla di trascurabile o di insignificante. Ed
allora egli si china a compiere la mansione che fu affidamento divino
al primo uomo, quella cioè di dare un nome a ciascuna erba, a ciascun
fiore, a ciascun cespuglio, a ciascun insetto, a ciascun uccello.
La memoria del bambino aveva prodigiosamente catalogato tutte queste entità
ed ora la conoscenza scientifica soccorre ad evocarle più in concreto,
perchè chiamate non genericamente.
C'è in tutta questa vivace composizione un legante: ed è
il modo sottilmente ironico e sorridente e comprensivo di guardare e di
giudicare. Richiama certe argute e finissime osservazioni del miglior
Nievo e, quasi indipendentemente dalla volontà del nostro autore,
è una specie di omaggio a quell"esprit de San Fris",
che è stato riconosciuto come una delle impareggiabili prerogative
dei cenedesi.
Sono pagine davvero godibili perché vi si ritrova finezza di cultura,
eleganza di scrittura, fascino narrativo, autentica poesia.
E soprattutto - benché con una certa civetteria Severino si consideri
fortunato di portare 'scarpe da vecchio' - vi trascorre un alitare sereno
e impagabile di fanciullezza, di eterna giovinezza.
Mario Ulliana
|