TERESA BALLANCIN
TRA MATERNITÀ E CRIMINE: CASI DI INFANTICIDIO
NEL FEUDO DI VALMARENO (SEC. XVII-XVIII).
Introduzione
L'analisi di un fondo processuale, ricco quale quello della
Contea di Valmareno, anche se in certi punti purtroppo lacunoso, si presenta
sempre molto interessante e stimolante, I fascicoli processuali ci offrono
numerosi spunti per indagini in varie direzioni: ricostruzioni di realtà
socio-economiche, analisi di vissuti quotidiani, di strutture culturali,
per non parlare poi di indagini su specifici reati o sulla amministrazione
della giustizia in genere.
Diverse sono le strade che si possono seguire, a seconda di ciò
che si vuol mettere a fuoco. Si può procedere attraverso un'analisi
di tipo quantitativo e seriale (specialmente se la documentazione è
completa), oppure con uno studio qualitativo su particolari aspetti di
un problema, o sulle implicanze di un reato. In ogni caso il "documento
processo" ci permette di cogliere uno spaccato sociale, spesso
pregnante e denso di significato, anche se, preso singolarmente, può
TERESA BALLANCIN di Pieve di Soligo, studiosa di storia
veneta e locale in particolare, laureatasi in Lettere a Venezia, attualmente
insegna.
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apparire limitato e parziale. Esso acquista valore proprio se viene calato
nella realtà in cui si inserisce e di cui è frutto; se viene
messo cioè in relazione con gli elementi politico-economici o culturali
che l'hanno prodotto. La sua validità, a questo punto, si dilata
e trascende i limiti del singolo evento.
L'esame di un processo per infanticidio ci può offrire, in questo
caso, uno strumento per cercare di cogliere i vari aspetti di un problema
in tutta la sua complessità. Il valore connotativo di questo micro
evento è strettamente subordinato al suo valore esemplificativo;
al fatto che, unito all'analisi di altri processi simili, ci permette
di avere un'immagine sufficientemente chiara e completa della realtà
in questione. Ecco quindi che, partendo da un singolo processo, si è
tentato di ricostruire la realtà in cui si muovevano le protagoniste
di questi fatti, le motivazioni che le portavano ad agire, le loro esperienze,
il loro vissuto, l'ostilità o la complicità che le circondavano.
Preziose sono apparse, a tal proposito, le loro testimonianze e quelle
dei testimoni interrogati dal giudice anche se bisogna tener presente
che non sono espressioni spontanee, ma prodotte in un contesto particolare
quale quello di un dibattimento processuale. Talvolta possono apparire,
in alcuni punti, troppo crude, senza pudore. Però forse, questa
loro "crudezza", ci fornisce un'immagine, per certi versi,
abbastanza immediata e senza veli, di una situazione piuttosto delicata
e particolare. La dimensione e la drammaticità del problema vengono
a galla proprio ascoltando queste voci ricche di particolari, di valutazioni
e di considerazioni.
Siamo a Vergoman, una piccola villa della contea di Valmareno
(I), quando il 2 maggio 1610 Battista de Lazer, a nome del meriga di Visnà
(2) presenta alla Cancelleria di Cison una denuncia in cui si afferma
che la "mattina ne/ far del giorno Zampiero del Merlo et Bertolo...
hano trovato apresso la chiesa di San Vi da Visnà nell'horto dei
Fabri una creatura nascente ancor viva, la qual per pietà hanno
come si dice rancurata e fatta batizar" (3).
La denuncia fa scattare immediatamente i meccanismi dell'apparato
giudiziario feudale (4). È necessario definire con precisione i
contorni della vicenda e, in particolar modo, cercare di appurare chi
sia l'autore o l'autrice (molto più probabilmente) di questo gesto.
A tal fine, il Podestà stesso, accompagnato dal suo "coadiutore"
e dal Cavaliere di Corte, si reca a Visnà per vedere la creatura
e per interrogare i testimoni del reperimento.
"Trovai questa creatura in terra nuda la quale non
haveva ancora ligato il bonigolo", afferma una donna, e continua:
"si dice publicamente che questa creatura sia stata partorita da
una vedova de quei de Piero Donà". Questa testimonianza
apre subito uno spiraglio per individuare la colpevole, anzi sembra che
sia notorio che la creatura appartenga a questa vedova, identificata,
per il momento, in modo abbastanza generico.
L'interrogatorio di altri testi continua in maniera piuttosto serrata
e concitata; così pian piano la vicenda si arricchisce di nuovi
particolari. Alcuni testi affermano di aver inteso "che quella
dona la matina avanti giorno era stata per Vergoman in doi o tre luochi
per partorir et che tutti l'havevan cacciata via ".
Vicino all'orto, viene trovato un "drapo nigro insanguinato",
e Maria, moglie di Angelo Bandel, afferma di aver visto "del sangue
per strada et questo sangue cominciava alla chiesa di San Andrea et veniva
a San Vido".
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Comincia a delinarsi anche la figura della colpevole: una certa Tomasina,
sorella di Piero de Donà da Vergoman, una donna che aveva vagato
per la villa cercando invano qualcuno che l'aiutasse. La sua immagine
però, si precisa meglio con le testimonianze rese da coloro che
abitavano vicino a lei. Data la tipologia urbanistica di queste ville
del contado, che obbligava ad una certa promiscuità, ognuno sapeva
perfettamente ciò che accadeva nella casa adiacente.
È vedova, ha già dei figli del primo marito, inoltre, come
afferma un teste, essa è capace di cose simili perché
"ne ha portato via delli altri in altro tempo che essa ha partorito,
anco si dice per la strada pubblicamente che possi esser stata lei perché
si dice che era gravida". Un altro teste, ancor più preciso,
sostiene che Tomasina un anno prima "aveva portato via un putto
che aveva partorito dopo che è vedova... e che fu trovato il puto
morto a Col San Martin".
Dopo aver accertato che quasi tutti i testi concordano nell'indicare Tomasina
come colpevole, il Podestà si reca nella casa di Piero Donà,
dove lei viveva, per perquisire la sua camera. Vengono trovate delle lenzuola
insanguinate e nessun altro indumento compromettente; d'altra parte, afferma
la zia di Tomasina, sua nipote non "ha camisa di sorte alcuna"
perché "è povereta et carga defioli".
Il 5 maggio gli officiali si recano nuovamente alla casa di Piero Donà
per arrestare Tomasina, ma questa è già fuggita. Chi è
questa Tomasina, tanto povera "et carga de fioli" da
non avere nemmeno una "camisola?" Vedova da tre anni,
è tornata a vivere con il fratello ed ora lo aiuta portando al
pascolo le sue bestie; una donna che, secondo alcune testimonianze, ha
"fatto piacer ad altri della sua vita", "una donna di
cattiva vita"(5).
Il 26 maggio il Podestà pubblica il mandato di comparizione
contro Tomasina; il tono del documento non lascia dubbi sulla colpevolezza
e sulla cattiva fama di questa donna: "donna di cattiva et dishonesta
vita, l'anno prossimo passato poco avanti il giorno di S. Titian havessi
partorito una creatura d'illecito coito, ci di nascosto quella habbi portata
da sè stessa a Col San Martin et lasciata sotto il campanil della
chiesa, quale ritrovata da un certo di quel luogo, poco dopo che si passasse
ad altra vita, et continuando in questo suo maloperar, sendo anco il presente
anno fatta graveda pur d'illecito coito,... s'habbi fatto lecito... havendo
partorito una creatura.., quella portar da Virgoman a Visnà nell'orto
di m.ro Giacometto Fauro... comettendo le cose sodette.. . con animo di
cometter homicidio nella propria sua carne contra Iddio, raggion et Giustitia
et contra ogni pietà materna, con scandalo et pessimo esempio
"
(6).
Perciò viene ora incolpata anche del precedente misfatto,
oltre che per il tentativo più recente "di cometter homicidio
nella propria sua carne". Il Giudice ha infatti verificato, durante
le sue indagini, che il corpo del neonato è stato gettato nell'orto,
lanciandolo con veemenza oltre il cancello; è caduto quindi con
la faccia verso terra e perciò, come affermano alcuni testimoni,
la sua "bocha era piena di terra". Non si trattava, quindi,
di un semplice abbandono, ma di un vero e proprio tentativo di infanticidio,
e perciò la colpa era ancor più grave.
Tomasina, nonostante il proclama di comparizione, non si presenta e viene
condannata, in contumacia, al bando perpetuo dalla Contea; se verrà
presa entro i confini sarà decapitata nella pubblica piazza (7).
La condanna non lascia scampo: viene applicata la pena prevista dagli
Statuti (8); perciò Tomasina deve abbandonare per sempre la sua
numerosa figliolanza.
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La vicenda sembrava definitivamente conclusa, quando però nel 1612,
perviene alla Cancelleria di Cison una supplica del comune di Virgoman,
dal tono veramente commovente ed implorante; caratteristiche tipiche di
uno strumento quale la supplica che fa appello non a leggi o a codici,
ma alla discrezione e alla benevolenza del Principe. "Ill.mo Signor.
Gli huomeni della Regola ci Commun di Virgoman", così
recitava la supplica, "mossi a compassione delle miserie di Tomasina
sorella di Piero di Donà bandita et fuori di Valmareno rispetto
a quattro figlio/mi da lei lasciati orfani, et senza governo: supplicano
con ogni af/ètto possibile V.S. Il/ma che per sua misiricordia
et clemenza in questo tempo di Quaresima si degni di far a detti huomeni
gratia che possa costei venir a governar ditte sue creaturine col rimeterle
il rimanente del suo bando; del che oltre che V.S. Ill.ma ne riceverà
il dovuto premio da S.D. Maestà, questi supplicanti gli n'havrano
obligo perpetuo". Il Conte Giulio Camillo Brandolini, che reggeva
il feudo a nome dei suoi nipoti, accolse la supplica e liberò Tomasina
dal suo bando (9).
L'analisi di questo processo penale ci pone di fronte ad
un fenomeno sociale abbastanza diffuso e di difficile catagolazione. Lo
strumento processuale permette di avvicinarsi al problema sentendo dalle
voci dei protagonisti, pur filtrate e talvolta mediate, lo svolgimento
dei fatti e il giudizio larvato che essi ne danno.
Il singolo processo può essere preso come esemplificazione
di una realtà più ampia che travalica i confini dell'evento
ed acquista un valore meno contingente e parziale.
La realtà sociale che circonda Tomasina, i motivi, le condizioni
che la portano al suo misfatto si ritrovano, quasi fedelmente, anche in
altri processi di questo tipo. Il suo problema non è esclusivo
e singolare, ma è il problema di molte donne che vogliono nascondere
i frutti di relazioni illecite.
Nel XVIII secolo, poi, il problema degli illegittimi acquisterà
rilievo e gravità sempre maggiori. Scomparso quasi del tutto il
concubinato e qualsiasi forma di relazione non formalizzata, l'illegittimo
diventa sempre più una colpa, un elemento scomodo che turba l'ordine
istituzionalizzato della famiglia. Perciò, esso viene abbandonato
in luoghi di facile ritrovamento, come chiese, strade frequentate ecc.;
oppure viene portato negli ospedali, che con l'adozione della "ruota"
assicurano alla donna l'anonimato (10). Il processo di istituzionalizzazione
della famiglia, portato avanti dalle autorità ecclesiastiche e
dallo Stato, portò alla sconfitta del concubinato e all'emarginazione
degli illegittimi. Finche questo processo non fu completamente compiuto,
le relazioni illecite, e quindi gli illegittimi, venivano benevolmente
accettati dalla comunità, venivano regolarmente battezzati, come
dimostrano le numerose registrazioni che troviamo nei registri parrocchiali
fin verso la metà del XVII secolo (11). La seconda metà
del 600 èun'epoca di transizione in quanto il concubinato tende
progressivamente a sparire; solo in alcuni villaggi isolati, o nelle valli
alpine esso appare ancora abbastanza radicato.
Come possiamo vedere nella tabella sotto riportata, che
si riferisce a Cison, capoluogo della Contea di Valmareno che comprendeva
anche Vergoman, le registrazioni degli illegittimi proseguono fino alla
fine del XVII secolo, forse proprio perché Cison era un comune
collinare abbastanza periferico.
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Quella della Contea era una società avvezza alle relazioni non
regolari, agli adulteri, ai rapporti poco conformistici, talvolta incestuosi
(12); pronta a risolvere certe incombenze ricorrendo anche all'infanticidio
o all'abbandono. Per niente regolare era, ad esempio, la relazione tra
Iseppo Bella "speciaro" di Cison e Zuanna "sua serva"
da Ceneda: essi ebbero tre figli (16 14-1616-1618) che vennero regolarmente
battezzati e registrati come "nati non di legitimo matrimonio";
la loro paternità venne sempre specificata proprio perché
questa unione era di dominio pubblico e felicemente inserita nella comunità.
Così come era nota a tutti la relazione tra Donà Buffon
e Bona f. Francesco Betto da cui nacquero tre figli (1638-1640-1642),
regolarmente battezzati e registrati (13).
Solo nel XVIII secolo si assiste ad un irrigidimento dei costumi e il
concubinato viene quasi completamente sconfitto anche in questa Vallata.
Già nella seconda metà del 1600, nelle trascrizioni battesimali
degli illegittimi, compare sempre più spesso la dicitura "pater
ignoratur"; non solo, ma aumentano i ritrovamenti di infanti
abbandonati. Questi sono sintomi di una realtà che sta pian piano
mutando il proprio atteggiamento nei confronti delle relazioni irregolari.
L'elemento maschile, sempre più spesso, si sottrae alle proprie
responsabilità e lascia l'intero peso della situazione sulle spalle
della donna che, abbandonata a se stessa, trova nell'abbandono una facile
soluzione al suo problema.
Nel XVIII secolo le registrazioni degli illegittimi vanno progressivamente
diminuendo, fino a scomparire. Questo non perché non vi fossero
più nascite illegittime, ma perché, ora, gli illegittimi
venivano sempre più spesso mandati negli ospedali delle città
vicine, proprio perché erano sentiti come colpa molto grave e vergognosa,
troppo grave per poter essere accettata dalla comunità stessa.
Si assiste perciò ad una emarginazione completa dei bambini nati
fuori da unioni regolari; essi non trovano più pareti domestiche
accomodanti, disposte ad accoglierli ma vengono ora relegati negli ospizi,
dove le loro speranze di vita sono assai scarse per le condizioni poco
igieniche e poco salutari di questi istituti (14). L'idea di "figlio
d'incogniti", sostituendosi tra il 1600 e il 1700 a quella di
"figlio naturale", ha reso l'illegittimo un individuo
non più integrabile e lo ha privato della identità sociale.
E questo uno scotto che la società moderna ha dovuto pagare per
pervenire ad un assetto razionale e regolare della struttura famiglia
(15).
Incidenza e tipologia del reato del XVII sec.
La vicenda processuale che abbiamo analizzato mette a fuoco
il problema degli illegittimi in tutta la sua gravità e drammaticità.
Ma non solo, essa ci fornisce anche elementi importanti e significativi
per un'analisi abbastanza ravvicinata di questo reato. Alcune situazioni
tipiche si ripetono anche in altri processi per infanticidio, istituiti
sempre dal Podestà di Valmareno.
La tabella sottostante ci offre un quadro dei casi di infanticidio puniti
dal Giudice feudale, con la relativa pena comminata. E stata compilata
analizzando le raspe dal 1600 al 1680 (16) perciò essa ci fornisce
solo i casi in cui l'autore del reato è stato scoperto e condannato.
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Appare, abbastanza chiaramente,
come l'arresto degli imputati sia piuttosto limitato ed interessi principalmente
gli uomini che erano implicati nel caso. La pena che veniva data più
di frequente era il bando, proprio per la contumacia delle colpevoli,
anche se poi talvolta il Conte graziava il condannato, liberandolo dal
suo bando.
I procedimenti giudiziari scattavano immediatamente non solo quando veniva
trovato il cadavere dell'infante, ma anche quando era giunta notizia che
la donna fosse stata gravida e avesse poi partorito di nascosto. Il fatto
di occultare il proprio stato di gravidanza, e di partorire da sola, di
nascosto, era, per il Giudice, una prova abbastanza certa di colpevolezza.
"Alla fine ha confessato d'esser stata gravida... ci ha fatto
una creatura morta senza saputa da alcun" sottolinea il Giudice,
in un processo contro una donna che sosteneva di aver partorito anzitempo
una creatura morta (17). Proprio con l'intento di prevenire possibili
casi di infanticidio, erano state emanate apposite ordinanze, ad esempio
in Francia, contro coloro che occultavano la propria gravidanza (18).
D'altra parte riusciva difficile nascondere il proprio stato, specialmente
nelle piccole comunità dove tutto ciò che accadeva era di
dominio pubblico. I testi infatti, riportano sempre le dicerie del paese
e i sospetti che gravitano su certe donne e sul loro stato. L'elemento
femminile, più esperto, forniva talvolta particolari assai precisi:
"conoscea essa Maria per graveda nel caminar e nella panza",
affermava con sicurezza una teste. Occultare la gravidanza era perciò
abbastanza arduo, come pure era difficile nascondere il parto e il cadavere.
I luoghi e le modalità del ritrovamento erano spesso
i più casuali e fortuiti. Venivano talvolta seppelliti nell'orto,
o nei pressi della casa, oppure nella "corte". Veramente
fortuito, ad esempio, il ritrovamento compiuto da un operaio che stava
svuotando le "cane" del "necessario"
del Guidice d'Appellazione, quando "con il badil" cozzò
contro "un pezzo di carne che scopersi esser un gamba d'una creatura
humana", come sostiene nella sua deposizione.
La donna, di fronte al ritrovamento del cadavere, adottava un comportamento
che rendeva palese, agli occhi del Giudice, la sua colpevolezza, cioè
la fuga; l'unica via di salvezza era quella di sottrarsi alle forze della
giustizia (ved. sottostante tabella III).
Perciò sono relativamente poche le testimonianze
che possediamo dalla viva voce delle dirette protagoniste. Se invece veniva
arrestata cercava di evitare la massima condanna, sostenendo di aver partorito
una creatura già morta e, per rendere questo più credibile,
affermava di averla partorita prima del tempo. Il compito del Giudice,
a questo punto, diventava più difficile; gli interrogatori dovevano
appurare se veramente l'infante fosse nato morto (19). Chiedeva perciò
ai testi se avessero sentito dei vagiti; richiedeva all'imputata delle
minuziose descrizioni sullo stato fisico del feto nato morto. Talvolta
si trattava di interrogatori molto crudi, quasi agghiaccianti, ricchi
di particolari che la donna forniva per rendere credibile e più
accettabile la sua versione dei fatti: "attrovandomi nel bosco"
- sostiene una imputata - "ho partorita una creatura morta in
due pezzi"
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come manza. .. li messi nelle strazze e poi andando a lavare
alla riva della fontana li lasciai sgorlando nell'acqua et erano come
due pezetti di carna che non era creatura "formata".
"Richiesta come fossero li pezzi", rispose: "era
una creatura putta in due pezzi una parte cioè coscia e piedi e
poi il resto della creatura che haveva le sue manine e testa ma tutto
negro"(20).
Per stabilire se veramente avesse partorito anzitempo, il Giudice sottoponeva
la donna alla visita di "comari" di sicura esperienza
che, attraverso una serie di controlli, dovevano stabilire la data del
parto. Una della prove era quella di controllare il latte; dopo un simile
esame Zuanna Trevisola, esperta "comare", poteva affermare
con una sufficiente sicurezza: "ha partorito già giorni
15 una creatura avanti tempo perché volendo farli uscir latte dalle
mamelle ho trovato uscirli latte guasto et putrefatto simile vinir quando
vien partorito avanti il tempo" (21). Questa deposizione, che
venne confermata anche da un'altra "comare", diede corpo
e sostanza alla linea di difesa dell'imputata che riuscì, infatti,
ad evitare la condanna.
Particolarmente emblematico per taluni aspetti, ma anche
abbastanza "straordinario" per altri, è il processo
istituito nel 1647 contro Zuanna di Donà Busanella da Tovena (21).
L'imputata rispondeva a quel tipico ritratto dell'infanticida che si vien
pian
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piano configurando dall'esame dei vari casi processuali: aveva 30 anni
circa, era nubile e faceva la massara presso l'oste della villa, in un'osteria
molto frequentata, specialmente da "zattari", gente di
passaggio, ambulanti, proprio perché si trovava presso il passo
di S. Boldo che metteva in comunicazione la vallata trevigiana con il
bellunese. Era accusata di aver partorito nell'orto del suo padrone "una
creatura di sesso feminino viva poi con un sasso, ridotta in stato di
morte, aver quella sepolta in esso horto sotto un baro di rosmarino, nel
qual luoco è stata trovata spirante". L'infante viene
poi portata in chiesa, dove muore dopo aver ricevuto il battesimo. Riuscire
ad impartire il battesimo al neonato era molto importante perché,
al di là della sua salvezza fisica, gli veniva così assicurata
almeno quella spirituale. Privare l'infante, oltre che della vita, anche
del battesimo era una colpa assai grave, che il Giudice sottolineava di
continuo nelle sue sentenze contro le imputate.
Il Podestà, dopo aver ricevuto la denuncia, inizia
l'esame dei vari testimoni, secondo lo schema ordinario in questi casi:
stabilire se l'imputata avesse manifestato a qualcuno il proprio stato,
o se lo avesse tenuto nascosto di proposito, accertare se qualcuno l'avesse
assistita durante il parto, e se la creatura fosse nata viva. Prioritario
era assodare se l'imputata avesse tenuta celata la gravidanza. Tutte le
testi interrogate, a tal proposito, sostennero che, nonostante le loro
ripetute pressioni perché Zuanna rivelasse le sue condizioni e
nonostante i segni chiari della sua gravidanza, ella aveva sempre negato
di essere incinta (23). Come abbiamo già sottolineato, per il Giudice,
questa era una prova certa e sicura della premeditazione e della volontà
di compiere l'infanticidio. A questo punto il Podestà ordina al
Cavaliere di arrestare Zuanna; questi riesce ad arrestarla proprio mentre
sta scappando attraverso i campi, la conduce a casa perché si lavi
e si pulisca, quindi la porta nelle carceri del Castello. La "retentione"
dell'imputata è un fatto veramente straordinario perché
nella maggior parte dei casi, non solo di infanticidio, gli imputati riuscivano
a sfuggire alla giustizia.
Questo ci permette di conoscere, almeno per un volta, le
esperienze, il vissuto, la realtà della protagonista attraverso
la sua stessa voce. Nell'arco di tre giorni, viene sottoposta ad un lungo
interrogatorio durante il quale, dopo aver esposto tutte le sue precedenti
esperienze, cerca di difendersi sostenendo che la "putta"
era nata morta. Veniamo così a sapere che questa donna dai "capelli
castagni scuri.., viso longo et naso non molto profilato... di grandezza
piuttosto alta che mediocre", aveva già avuto, due anni
prima, un figlio illegittimo da Toni Favero. La presente gravidanza la
attribuiva, invece, a Nadal Zardetto, "maritato" e già
con figli, presso cui era stata a "far opere" e specificava
di essere stata da lui "ricercata l'anno passato di settembre
al tempo che si raccoglievano i sorghi turchi a congiungersi seco carnalmente
al che - continuava la ragazza - io condiscesi et così hebbe più
volte meco commercio". Faceva la massara presso l'osteria da
pochi mesi (gennaio 1647), quando si accorse di essere incinta, ma non
lo confessò a nessuno perché temeva le minacce che suo padre
le aveva già rivolto, durante la prima gravidanza. Nel suo disperato
tentativo di difesa, cerca, invano, di sostenere che la creatura era morta
e quindi la voleva seppellire "non havendo battesimo";
ma infine, stremata dalle martellanti domande del Giudice, confessa:
"Signor sì conosco et confesso di haver fatto il mancamento
dimandando di tutte le mie operationi di sopra da me commesse. .. prima
a Dio, et poi alla Giustizia del mondo perdono"
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. E prosegue, precisando: "nell'atto stesso di partorire mi vene
quella tentazione di fare quello che ho fatto senza consiglio di nessuno".
Dopo questa aperta confessione, la sua sorte è già segnata,
avrà, dice il Podestà, quel castigo "che doverà
servire alle altre donne di essempio memorabile per astenersi da tali
delitti". E viene, infatti, condannata a morte. Così il
17 giugno 1647 "Zuanna vile ci impudica solita far copia di se
medesima", così recita la condanna, viene "condotta
sopra un eminente solaro", nella piazza di Cison e davanti a
una moltitudine di popolo è decapitata. Il Giudice applica il massimo
della pena prevista, senza alcuna attenuante; il presunto padre, invece,
non viene nemmeno interrogato, nè tantomeno imputato di adulterio,
dal momento che era sposato.
Questa è una, delle due condanne a morte eseguite nel feudo di
Valmareno nel corso di un secolo (1580-1680) (24) e ciò sta a testimoniare
la gravità del reato, o meglio, la determinazione con cui si voleva
colpire coloro che ricorrevano a questo sistema per evitare la vergogna
di relazioni illecite. Doveva essere una punizione esemplare che servisse
da ammonimento per tutti e perciò nello spazio di soli 15 giorni
il caso venne chiuso, con questa dura sentenza, quando solitamente la
durata media dei processi, istituiti nel feudo, era più lunga (25).
Caratteristiche sociali e psicologiche dell'infanticida
Ciò che appare evidente, dall'esame dei vari processi,
è il ripetersi di certe costanti, per quanto riguarda le imputate,
tanto che si può tentare di delineare un ritratto, seppur approssimativo,
dell'infanticida in genere. Come mostra la tabella III, nella maggior
parte dei casi si tratta di donne vedove o nubili che ricorrono a questo
estremo rimedio per mascherare la loro colpa. Vedove, che hanno già
figli del primo marito e che vivono di espedienti, oppure di umili lavori:
pascolare le bestie, andare a servizio, filare, ecc.
Molto spesso la colpa che volevano nascondere andava oltre l'adulterio,
in quanto implicava talvolta anche relazioni incestuose, che venivano
duramente colpite dalle leggi del feudo. Si trattava di vedove che, continuando
a vivere nella casa del defunto marito, intrecciavano rapporti con i fratelli
dello scomparso; rapporti che, trattandosi di un cognato, erano considerati
incestuosi.
Particolarmente interessante, a tal proposito, è il caso (1614)
che vede implicati Cia, vedova di Jacomo Soldà e Greguol "frateI
di detto .Jacomo" (26). "Havendo havuto più e
più volte negotio carnale insieme essendo cognati", dice
la denuncia, "essendosi fatta gravida la detta Cia... havendo
partorito una putta viva essi querelati. . . soffocarono essa creatura
senza battesimo e l'ascosero in una brentella de sal in casa della loro
habitatione dove fu trovata fresca da Lucia, moglie di detto Greguol".
I testi e la moglie stessa dell'imputato, affermano di aver avuto
dei sospetti sulla loro relazione; anche nella "villa si ragionava
assai e tutti sapevano che essa praticava con suo cognato". Quindi
una situazione nota e accettata dalla comunità quasi con spirito
di comprensione e di complicità; infatti, dopo essere stati condannati
al bando perpetuo, furono graziati
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dal Conte, proprio per una supplica che il comune rivolse al Signore,
intercedendo in loro favore.
Per quanto riguarda i casi implicanti donne nubili, è da sottolineare
che la maggior parte di esse vivevano separate dalla loro famiglia per
vari motivi, talvolta perché "erano a servizio"
presso altre famiglie; erano sole senza il sicuro e attento controllo
delle strutture familiari e quindi più esposte a esperienze e relazioni
non del tutto regolari. Le "massere", considerate particolarmente
soggette ai rischi di unioni irregolari, venivano viste con occhi del
tutto particolari. Basti pensare che la Rubrica, degli Statuti della Valle,
riguardante la violenza contro le donne, prescriveva pene assai più
ridotte a coloro che offendevano una "massera", rispetto
alle condanne previste per la violenza contro donne maritate, o che vivevano
con il padre, o con il fratello, o con la madre (27).
Molte delle infanticide nubili erano "massere", come
ad esempio Maria Furlana, accusata nel 1598 di aver ucciso la creatura
partorita. Serviva presso la casa del Giudice d'Appellazione, ma si mormorava
per la villa di Cison che avesse "praticha con il Signor Marcantonio
Crocecalle da Cividal", che abitava presso il castello dei Conti
stessi (28). "Massara in casa di Domenego Baetto da Tovena"
era pure Margarita Toffola, imputata insieme allo stesso Domenego di infanticidio.
Margarita venne condannata al bando, in contumacia, Domenego, invece,
"stante le sue difese" venne assolto e rilasciato (29).
Questa sentenza ci fa riflettere sul ruolo e sulle responsabilità
che venivano addossate all'elemento maschile, implicato. Pochi sono i
casi in cui viene condannato come complice; per lo più esso appare
solo di sfuggita, è un elemento di contorno. I testi sono spesso
molto chiari nell'indicare il presunto responsabile, ma il Giudice non
sempre prende in considerazione le loro indicazioni. Nel caso, già
citato, di Maria Furlana, il Podestà non si cura di interrogare
nè il Giudice d'Appellazione, presso cui serviva, né il
signor Crocecalle, che tutti indicavano come il presunto responsabile
della gravidanza. Tutta la colpa ricade unicamente sulla massara, che
è fatta oggetto delle mormorazioni di tutta la villa.
Compito del giudice, in questi casi, è quello di colpire l'autore
materiale dell'infanticidio, senza curarsi di altri possibili responsabili.
Il seduttore resta nell'ombra, viene considerato un elemento di secondo
piano che può essere inquisito e processato solo quando si è
certi della sua diretta partecipazione all'atto della concreta eliminazione
dell'infante. Questa stretta compartecipazione al misfatto si verifica
specialmente nei casi in cui la donna viveva a fianco dell'uomo con cui
aveva avuto la relazione, perché ciò comportava un suo maggior
coinvolgimento nelle varie fasi della vicenda stessa, compresa l'uccisione
del neonato (30).
Per comprendere la scarsa responsabilità addossata all'elemento
maschile, è da tener presente che in questi casi l'uomo non aveva
svolto il ruolo di vero e proprio seduttore ingannando la ragazza con
promesse di matrimonio, proprio per il fatto che, come abbiamo visto,
egli era spesso legato a lei da vincoli di parentela, oppure era già
maritato. Quindi, da questo punto di vista, la sua responsabilità
morale era piuttosto limitata; più difficile resta invece stabilire
se, in qualche modo, facesse delle pressioni, più o meno larvate,
per "convincere" ed indurre la donna a liberarsi del
pesante e scomodo fardello della loro unione.
L'infanticidio diventa quindi un reato tipicamente femminile e nel corso
del XVIII secolo si registra una ancor più sostanziale perdita
di potere da parte delle donne che, sempre più difficilmente, riescono
ad addossare parte della responsabilità all'uomo e maschile in
causa. L'infanticida, vedova o nubile e, spesso, priva di un regolare
nucleo familiare proprio, si trova perciò sola ad affrontare le
conseguenze di situazioni che l'opinione pubblica avverte sempre più
come vergognose e fuorvianti per l'ordine sociale costituito.
Nelle città, la presenza di ospedali e di ospizi per l'infanzia
abbandonata rappresenta per la donna una soluzione comoda e poco problematica;
mentre nei piccoli centri periferici la soppressione dell'infante era
spesso l'unico modo, anche se rischioso, per nascondere il proprio errore
e salvaguardare quindi l'onore.
Teresa Ballancin
NOTE
- Per quanto riguarda la storia e la realtà socio-economica
del feudo di Valmareno, dei conti Brandolini, cfr. BERNARDI J. Cison
e la Vallata, cenni storico-ecclesiastici, Venezia, 1851; BUOGO A. La
Valmarena dei contadini e dei feudatari, Treviso, 1983; STEFANI P. Miane
della Valmareno nel Trecento, Vittorio Veneto, 1980; GASPARINI
D. La contea di Valmareno, tesi di Laurea presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Venezia, anno
accademico 1980-1981; dello stesso autore: Signori e contadini nella
Contea di Valmareno, in corso di pubblicazione; BALLANCIN T. Società
e Giustizia nel Feudo di Valmareno, tesi di Laurea presso la Facoltà
di Lettere e Filosofia degli Studi di Venezia, anno accademico 1980-1981.
Per la storia della famiglia Brandolini v. CHIAVENNA A. Delle più
nobili imprese fatte nelle guerre più famose..., Padova, 1648;
MARCHESI 5. Marcantonio Brandolini una belva umana, Milano, 1891; BRANDOLINI
D'ADDA A. I Brandolini da Bagnacavallo, Venezia, 1945.
- Rientrava tra i compiti specifici del meriga denunciare
qualsiasi tipo di reato di cui venisse a conoscenza; egli era passibile
di denuncia se non svolgeva con cura questo incarico, tralasciando di
denunciare le trasgressioni che si verificavano nel suo comune.
Per i problemi, inerenti la giustizia nel feudo di Valmareno v: BALLANCIN
T. L 'esercizio dei poteri giurisdizionali in un feudo della terraferma
veneta: l'amministrazione della giustizia penale nel con tado di Valmareno,
saggio dattiloscritto, in corso di pubblicazione.
- Infatti nel registro dei battesimi di Miane, sotto
la cui giurisdizione ecclesiastica si trovava Vergoman, troviamo : "2
maggio 1610. Fu battezzata Catherina figlia di N. et di N. Padrino m°.
Angelo Fabro per charità", Archivio Parrocchiale di Miane,
Registro Nati 1605-29, c.17 tergo.
- La denuncia e il relativo processo sono presso Archivio
di Stato di Treviso , Contea di Valmareno, Busta 293, Criminalium liber
49, e. 7 v. (denuncia); A.S.T. Contea di Valmareno, Busta 294, n' 22
(processo).
- Purtroppo la ricerca di dati anagrafici riguardanti
l'imputata non ha dato esiti positivi, poiché nei registri parrocchiali
non è stato possibile reperire l'atto di battesimo, né
l'atto di matrimonio o di morte. Questo sia per delle lacune nella documentazione,
sia per una sottoregistrazione abbastanza diffusa specialmente per quanto
riguarda il periodo in questione (fine 500-inizio 600), periodo di "rodaggio"
per quanto concerne l'obbligo dei
parroci di annotare simili aventi, dopo le disposizioni del Concilio
di Trento.
- Queste sono le parole che il Podestà, Niccolò
Burlina, che si occupò del caso, usò nel proclama di comparizione
contro Tommasina. Nel mandato di comparizione si citava il
colpevole a presentarsi alla giustizia per difendersi, entro un determinato
tempo; scaduti
i termini l'imputato veniva condannato, come reo confesso, in contumacia.
Per quanto riguarda l'amministrazione della giustizia nello stato Veneto
in generale, cfr. CRIVELLARI G. Intorno al diritto penale nella Repubblica
di Venezia, in Archivio giuridico, voi. V, 1870; MELCHIORRI B. Miscellanea
di materie criminali, Venezia, 1776; POVOLO C. Aspetti e problemi dell'amministrazione
della giustizia penale nella Repubblica Veneta, Secoli XVI-XVII, in
Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta, a cura di
G. Cozzi, Roma, 1981; COZZI G. La giustizia e la politica nella Venezia
seicentesca, estratto da La formazione storica del diritto moderno in
Europa, volI, Firenze, 1977; dello stesso autore: Note sui tribunali
e procedure penali a Venezia nel 700, in Rivista storica Italiana, anno
LXX VII, fase. I, Napoli, 1965.
- Oltre al bando le vengono confiscati tutti i suoi
beni. Secondo le leggi dello stato veneto l'alternativa al bando perpetuo
era la pena capitale, quindi la sentenza contro Tommasina rispetta pienamente
la legislazione vigente.
- Questo non sta a significare che negli Statuti dei
Feudo ci fosse un'apposita rubrica riguardante l'infanticidio, ma in
questi casi venivano applicate le pene previste per i casi di omicidio,
v. Volumen Statutorum Legum ac iurium comitatus vallis Mareni Venezia,
1600, Rubrica XXIX-XXX. Il volume degli Statuti fu stampato a cura del
Podestà Francesco Guerra.
- La liberazione dal bando, per grazia del Conte, non
era un avvenimento eccezionale per la vita Giudiziaria del foro di Valmareno.
Vari sono infatti i casi di imputati, condannati anche per gravi colpe,
che ottengono la grazia dal Conte. Per quanto riguarda le condanne per
infanticidio è da registrare, per esempio, la grazia concessa
a due cognati che erano stati banditi nel 1914 per l'uccisione di una
"putta" appena nata.
- La ruota era un recipiente cilindrico che ruotava
sul proprio asse e presentava una apertura dentro cui si poneva il bambino.
Per il problema degli illeggittimi e degli esposti v. POVOLO C. Tre
Villaggi del contado di Vicenza. Indagine demografica per una storia
sociale..., in Lisiera storia e cultura di una comunità veneta,
Vicenza, 1981, pp. 875-1035.
- I registri dei battesimi, dei matrimoni, dei morti,
che si trovano negli archivi parrocchiali, sono fonti molto utili e
preziose per le indagini demografiche relative alla società "d'ancien
régime", proprio perché ci permettono uno studio
del movimento naturale della popolazione per un periodo, in cui mancano
altre fonti alternative di diversa origine (es. registri anagrafici
municipali).
Colgo l'occasione per ringraziare i parroci di Miane, Mareno, Cison,
che mi hanno
gentilmente concesso di poter esaminare e consultare i preziosi fondi
dei rispettivi archivi parrocchiali.
- Clamoroso fu, ad esempio, il caso di Domenica q. Pietro
de Conto che venne denunciata da "persona secreta" per rapporti
incestuosi avuti con il fratello, restando anche gravida del medesimo.
Arrestata ed interrogata, ella negò l'accusa e sostenne invece
di essere stata "assasinata" da una persona mascherata. Il
5 febbraio 1664 (due mesi circa dopo l'arresto) partorì in carcere
"una figlia femina"; l'8 marzo il Podestà, Giacomo
Donati, pubblicò la sentenza di condanna: "Domenica candannata
alla berlino in giorno et udienza, et frequenza di populo per hore tre
dalla qual levata star debba in una priggion serrata alla luce pe anni
10...". 11 cartello della berlina recava scritto: "Un stupro
incestuoso t'ha condotto a quest'injàmia, che ad ogn'un è
nota et una pregion decenia ti aspetta ad emendar tua vita incoretta".
Il fratello, assente, venne bandito in perpetuo dal contado; v. A.S.T.
Contea di Valmareno, Busta 362.
- Archivio parrocchiale di Cison, Registro battesimi
- Sulle condizioni degli ospizi per i trovatelli e sulla
sorte degli esposti v. CAPPELLETTO G. Infanzia abbandonata e ruoli di
mediazione sociale nella Verona del Settecento, in "Quaderni storici",
n' 53 anno XVIII, fascicolo Il, pp. 42 1-445; DORIGUZZI F. I messaggi
dell'abbandono: bambini esposti a Torino nel '700, idem pp. 445-469.
- POVOLO C. Aspetti sociali e penali del reato d'infanticidio.
Il caso di una contadina padovana nel 700, estratto dagli Atti dell'Istituto
Veneto di Scienze Lettere ed Arti, tomo CXXXVIII, Venezia 1980, pp.
4 15-432; l'articolo è molto interessante per l'esame di un fascicolo
processuale riguardante l'infanticidio.
- Le raspe sono la raccolta delle sentenze che venivano
emesse e pubblicate, dall'autorità giudiziaria, contro i colpevoli.
Purtroppo, per quanto riguarda le raspe del feudo di Valmareno, la documentazione
archivistica presenta delle lacune, per cui non è possibile disporre
della serie completa delle sentenze emesse in tutti gli anni.
- A.S.T, Contea di Valmareno, Busta 352.
- FLANDRIN J.L. Amori contadini, Milano, 1980, pag.
176 e segg.
- Una delle prove, adottata nel Veneto verso la metà
del 700, era quella di immergere un pezzo di polmone dell'infante in
un recipiente pieno d'acqua. Se il pezzo veniva a galla, stava a significare
che aveva respirato, quindi era nato vivo; cfr. POVOLO C. Aspetti sociali
e penali, cit.
- A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 352, n'21 processo
contro Corona Damin.
- A.S.T.,Contea di Valmareno, Busta 352 (processo contro
Corona)
- A.S.T.,Contea di Valmareno, Busta 332 cc. 130-181
(processo); A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 333 cc. 867-68 (sentenza);
- Una testimone, Tadia moglie di Andrea d'Agostin, afferma
di averle chiesto più volte se era gravida perché aveva
osservato che Zuanna "da certo tempo in qua haveva il fiato grosso
et dimostrava anco gonfio il ventre più dell'ordinario oltre
che si vedeva nella faccia molte (panne), inditio manifesto di gravidanza
- L'altra sentenza capitale venne eseguita nel 1 602,
per un caso di omicidio (marito che aveva ucciso la moglie); A.S.T.,
Contea di Valmareno, Busta 288.
- La lunghezza era determinata da vari fattori: quantità
di testi da esaminare, capitoli e difese presentate dagli avvocati,
complessità del caso. Nella maggior parte dei casi la sentenza
veniva emessa entro un anno dalla presentazione della denuncia, spesso
il caso si concludeva entro pochi mesi (specialmente per infrazioni
contro i proclami). Assai raro che la condanna fosse pubblicata dopo
pochi giorni, quando si trattava di processi delicati, come quelli per
infanticidio.
- A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 298 (processo);
A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 293 (sentenza).
- Volumen Statutorum, cit., libro criminale, Rub. XXXVI.
- A.S.T. Contea di Valmareno, Busta 286.
- A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 307, Raspa 24'
c. 31-32.
- Era coinvolto nell'infanticidio, ad esempio, Greguol
Soldà da Visnà che viveva insieme alla cognata con cui
aveva avuto la relazione, A.S.T., Contea di Valmareno, Busta
298.
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