Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°4 - 1985 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigianae

TERESA BALLANCIN

TRA MATERNITÀ E CRIMINE: CASI DI INFANTICIDIO NEL FEUDO DI VALMARENO (SEC. XVII-XVIII).

Introduzione

L'analisi di un fondo processuale, ricco quale quello della Contea di Valmareno, anche se in certi punti purtroppo lacunoso, si presenta sempre molto interessante e stimolante, I fascicoli processuali ci offrono numerosi spunti per indagini in varie direzioni: ricostruzioni di realtà socio-economiche, analisi di vissuti quotidiani, di strutture culturali, per non parlare poi di indagini su specifici reati o sulla amministrazione della giustizia in genere.
Diverse sono le strade che si possono seguire, a seconda di ciò che si vuol mettere a fuoco. Si può procedere attraverso un'analisi di tipo quantitativo e seriale (specialmente se la documentazione è completa), oppure con uno studio qualitativo su particolari aspetti di un problema, o sulle implicanze di un reato. In ogni caso il "documento processo" ci permette di cogliere uno spaccato sociale, spesso pregnante e denso di significato, anche se, preso singolarmente, può


TERESA BALLANCIN di Pieve di Soligo, studiosa di storia veneta e locale in particolare, laureatasi in Lettere a Venezia, attualmente insegna.

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apparire limitato e parziale. Esso acquista valore proprio se viene calato nella realtà in cui si inserisce e di cui è frutto; se viene messo cioè in relazione con gli elementi politico-economici o culturali che l'hanno prodotto. La sua validità, a questo punto, si dilata e trascende i limiti del singolo evento.
L'esame di un processo per infanticidio ci può offrire, in questo caso, uno strumento per cercare di cogliere i vari aspetti di un problema in tutta la sua complessità. Il valore connotativo di questo micro evento è strettamente subordinato al suo valore esemplificativo; al fatto che, unito all'analisi di altri processi simili, ci permette di avere un'immagine sufficientemente chiara e completa della realtà in questione. Ecco quindi che, partendo da un singolo processo, si è tentato di ricostruire la realtà in cui si muovevano le protagoniste di questi fatti, le motivazioni che le portavano ad agire, le loro esperienze, il loro vissuto, l'ostilità o la complicità che le circondavano. Preziose sono apparse, a tal proposito, le loro testimonianze e quelle dei testimoni interrogati dal giudice anche se bisogna tener presente che non sono espressioni spontanee, ma prodotte in un contesto particolare quale quello di un dibattimento processuale. Talvolta possono apparire, in alcuni punti, troppo crude, senza pudore. Però forse, questa loro "crudezza", ci fornisce un'immagine, per certi versi, abbastanza immediata e senza veli, di una situazione piuttosto delicata e particolare. La dimensione e la drammaticità del problema vengono a galla proprio ascoltando queste voci ricche di particolari, di valutazioni e di considerazioni.

Siamo a Vergoman, una piccola villa della contea di Valmareno (I), quando il 2 maggio 1610 Battista de Lazer, a nome del meriga di Visnà (2) presenta alla Cancelleria di Cison una denuncia in cui si afferma che la "mattina ne/ far del giorno Zampiero del Merlo et Bertolo... hano trovato apresso la chiesa di San Vi da Visnà nell'horto dei Fabri una creatura nascente ancor viva, la qual per pietà hanno come si dice rancurata e fatta batizar" (3).

La denuncia fa scattare immediatamente i meccanismi dell'apparato giudiziario feudale (4). È necessario definire con precisione i contorni della vicenda e, in particolar modo, cercare di appurare chi sia l'autore o l'autrice (molto più probabilmente) di questo gesto. A tal fine, il Podestà stesso, accompagnato dal suo "coadiutore" e dal Cavaliere di Corte, si reca a Visnà per vedere la creatura e per interrogare i testimoni del reperimento.

"Trovai questa creatura in terra nuda la quale non haveva ancora ligato il bonigolo", afferma una donna, e continua: "si dice publicamente che questa creatura sia stata partorita da una vedova de quei de Piero Donà". Questa testimonianza apre subito uno spiraglio per individuare la colpevole, anzi sembra che sia notorio che la creatura appartenga a questa vedova, identificata, per il momento, in modo abbastanza generico.
L'interrogatorio di altri testi continua in maniera piuttosto serrata e concitata; così pian piano la vicenda si arricchisce di nuovi particolari. Alcuni testi affermano di aver inteso "che quella dona la matina avanti giorno era stata per Vergoman in doi o tre luochi per partorir et che tutti l'havevan cacciata via ".

Vicino all'orto, viene trovato un "drapo nigro insanguinato", e Maria, moglie di Angelo Bandel, afferma di aver visto "del sangue per strada et questo sangue cominciava alla chiesa di San Andrea et veniva a San Vido".

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Comincia a delinarsi anche la figura della colpevole: una certa Tomasina, sorella di Piero de Donà da Vergoman, una donna che aveva vagato per la villa cercando invano qualcuno che l'aiutasse. La sua immagine però, si precisa meglio con le testimonianze rese da coloro che abitavano vicino a lei. Data la tipologia urbanistica di queste ville del contado, che obbligava ad una certa promiscuità, ognuno sapeva perfettamente ciò che accadeva nella casa adiacente.
È vedova, ha già dei figli del primo marito, inoltre, come afferma un teste, essa è capace di cose simili perché "ne ha portato via delli altri in altro tempo che essa ha partorito, anco si dice per la strada pubblicamente che possi esser stata lei perché si dice che era gravida". Un altro teste, ancor più preciso, sostiene che Tomasina un anno prima "aveva portato via un putto che aveva partorito dopo che è vedova... e che fu trovato il puto morto a Col San Martin".
Dopo aver accertato che quasi tutti i testi concordano nell'indicare Tomasina come colpevole, il Podestà si reca nella casa di Piero Donà, dove lei viveva, per perquisire la sua camera. Vengono trovate delle lenzuola insanguinate e nessun altro indumento compromettente; d'altra parte, afferma la zia di Tomasina, sua nipote non "ha camisa di sorte alcuna" perché "è povereta et carga defioli".
Il 5 maggio gli officiali si recano nuovamente alla casa di Piero Donà per arrestare Tomasina, ma questa è già fuggita. Chi è questa Tomasina, tanto povera "et carga de fioli" da non avere nemmeno una "camisola?" Vedova da tre anni, è tornata a vivere con il fratello ed ora lo aiuta portando al pascolo le sue bestie; una donna che, secondo alcune testimonianze, ha "fatto piacer ad altri della sua vita", "una donna di cattiva vita"(5).

Il 26 maggio il Podestà pubblica il mandato di comparizione contro Tomasina; il tono del documento non lascia dubbi sulla colpevolezza e sulla cattiva fama di questa donna: "donna di cattiva et dishonesta vita, l'anno prossimo passato poco avanti il giorno di S. Titian havessi partorito una creatura d'illecito coito, ci di nascosto quella habbi portata da sè stessa a Col San Martin et lasciata sotto il campanil della chiesa, quale ritrovata da un certo di quel luogo, poco dopo che si passasse ad altra vita, et continuando in questo suo maloperar, sendo anco il presente anno fatta graveda pur d'illecito coito,... s'habbi fatto lecito... havendo partorito una creatura.., quella portar da Virgoman a Visnà nell'orto di m.ro Giacometto Fauro... comettendo le cose sodette.. . con animo di cometter homicidio nella propria sua carne contra Iddio, raggion et Giustitia et contra ogni pietà materna, con scandalo et pessimo esempio…" (6).

Perciò viene ora incolpata anche del precedente misfatto, oltre che per il tentativo più recente "di cometter homicidio nella propria sua carne". Il Giudice ha infatti verificato, durante le sue indagini, che il corpo del neonato è stato gettato nell'orto, lanciandolo con veemenza oltre il cancello; è caduto quindi con la faccia verso terra e perciò, come affermano alcuni testimoni, la sua "bocha era piena di terra". Non si trattava, quindi, di un semplice abbandono, ma di un vero e proprio tentativo di infanticidio, e perciò la colpa era ancor più grave.
Tomasina, nonostante il proclama di comparizione, non si presenta e viene condannata, in contumacia, al bando perpetuo dalla Contea; se verrà presa entro i confini sarà decapitata nella pubblica piazza (7). La condanna non lascia scampo: viene applicata la pena prevista dagli Statuti (8); perciò Tomasina deve abbandonare per sempre la sua numerosa figliolanza.

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La vicenda sembrava definitivamente conclusa, quando però nel 1612, perviene alla Cancelleria di Cison una supplica del comune di Virgoman, dal tono veramente commovente ed implorante; caratteristiche tipiche di uno strumento quale la supplica che fa appello non a leggi o a codici, ma alla discrezione e alla benevolenza del Principe. "Ill.mo Signor. Gli huomeni della Regola ci Commun di Virgoman", così recitava la supplica, "mossi a compassione delle miserie di Tomasina sorella di Piero di Donà bandita et fuori di Valmareno rispetto a quattro figlio/mi da lei lasciati orfani, et senza governo: supplicano con ogni af/ètto possibile V.S. Il/ma che per sua misiricordia et clemenza in questo tempo di Quaresima si degni di far a detti huomeni gratia che possa costei venir a governar ditte sue creaturine col rimeterle il rimanente del suo bando; del che oltre che V.S. Ill.ma ne riceverà il dovuto premio da S.D. Maestà, questi supplicanti gli n'havrano obligo perpetuo". Il Conte Giulio Camillo Brandolini, che reggeva il feudo a nome dei suoi nipoti, accolse la supplica e liberò Tomasina dal suo bando (9).

L'analisi di questo processo penale ci pone di fronte ad un fenomeno sociale abbastanza diffuso e di difficile catagolazione. Lo strumento processuale permette di avvicinarsi al problema sentendo dalle voci dei protagonisti, pur filtrate e talvolta mediate, lo svolgimento dei fatti e il giudizio larvato che essi ne danno.

Il singolo processo può essere preso come esemplificazione di una realtà più ampia che travalica i confini dell'evento ed acquista un valore meno contingente e parziale.
La realtà sociale che circonda Tomasina, i motivi, le condizioni che la portano al suo misfatto si ritrovano, quasi fedelmente, anche in altri processi di questo tipo. Il suo problema non è esclusivo e singolare, ma è il problema di molte donne che vogliono nascondere i frutti di relazioni illecite.

Nel XVIII secolo, poi, il problema degli illegittimi acquisterà rilievo e gravità sempre maggiori. Scomparso quasi del tutto il concubinato e qualsiasi forma di relazione non formalizzata, l'illegittimo diventa sempre più una colpa, un elemento scomodo che turba l'ordine istituzionalizzato della famiglia. Perciò, esso viene abbandonato in luoghi di facile ritrovamento, come chiese, strade frequentate ecc.; oppure viene portato negli ospedali, che con l'adozione della "ruota" assicurano alla donna l'anonimato (10). Il processo di istituzionalizzazione della famiglia, portato avanti dalle autorità ecclesiastiche e dallo Stato, portò alla sconfitta del concubinato e all'emarginazione degli illegittimi. Finche questo processo non fu completamente compiuto, le relazioni illecite, e quindi gli illegittimi, venivano benevolmente accettati dalla comunità, venivano regolarmente battezzati, come dimostrano le numerose registrazioni che troviamo nei registri parrocchiali fin verso la metà del XVII secolo (11). La seconda metà del 600 èun'epoca di transizione in quanto il concubinato tende progressivamente a sparire; solo in alcuni villaggi isolati, o nelle valli alpine esso appare ancora abbastanza radicato.

Come possiamo vedere nella tabella sotto riportata, che si riferisce a Cison, capoluogo della Contea di Valmareno che comprendeva anche Vergoman, le registrazioni degli illegittimi proseguono fino alla fine del XVII secolo, forse proprio perché Cison era un comune collinare abbastanza periferico.

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Quella della Contea era una società avvezza alle relazioni non regolari, agli adulteri, ai rapporti poco conformistici, talvolta incestuosi (12); pronta a risolvere certe incombenze ricorrendo anche all'infanticidio o all'abbandono. Per niente regolare era, ad esempio, la relazione tra Iseppo Bella "speciaro" di Cison e Zuanna "sua serva" da Ceneda: essi ebbero tre figli (16 14-1616-1618) che vennero regolarmente battezzati e registrati come "nati non di legitimo matrimonio"; la loro paternità venne sempre specificata proprio perché questa unione era di dominio pubblico e felicemente inserita nella comunità. Così come era nota a tutti la relazione tra Donà Buffon e Bona f. Francesco Betto da cui nacquero tre figli (1638-1640-1642), regolarmente battezzati e registrati (13).
Solo nel XVIII secolo si assiste ad un irrigidimento dei costumi e il concubinato viene quasi completamente sconfitto anche in questa Vallata. Già nella seconda metà del 1600, nelle trascrizioni battesimali degli illegittimi, compare sempre più spesso la dicitura "pater ignoratur"; non solo, ma aumentano i ritrovamenti di infanti abbandonati. Questi sono sintomi di una realtà che sta pian piano mutando il proprio atteggiamento nei confronti delle relazioni irregolari. L'elemento maschile, sempre più spesso, si sottrae alle proprie responsabilità e lascia l'intero peso della situazione sulle spalle della donna che, abbandonata a se stessa, trova nell'abbandono una facile soluzione al suo problema.
Nel XVIII secolo le registrazioni degli illegittimi vanno progressivamente diminuendo, fino a scomparire. Questo non perché non vi fossero più nascite illegittime, ma perché, ora, gli illegittimi venivano sempre più spesso mandati negli ospedali delle città vicine, proprio perché erano sentiti come colpa molto grave e vergognosa, troppo grave per poter essere accettata dalla comunità stessa.
Si assiste perciò ad una emarginazione completa dei bambini nati fuori da unioni regolari; essi non trovano più pareti domestiche accomodanti, disposte ad accoglierli ma vengono ora relegati negli ospizi, dove le loro speranze di vita sono assai scarse per le condizioni poco igieniche e poco salutari di questi istituti (14). L'idea di "figlio d'incogniti", sostituendosi tra il 1600 e il 1700 a quella di "figlio naturale", ha reso l'illegittimo un individuo non più integrabile e lo ha privato della identità sociale. E questo uno scotto che la società moderna ha dovuto pagare per pervenire ad un assetto razionale e regolare della struttura famiglia (15).

Incidenza e tipologia del reato del XVII sec.

La vicenda processuale che abbiamo analizzato mette a fuoco il problema degli illegittimi in tutta la sua gravità e drammaticità. Ma non solo, essa ci fornisce anche elementi importanti e significativi per un'analisi abbastanza ravvicinata di questo reato. Alcune situazioni tipiche si ripetono anche in altri processi per infanticidio, istituiti sempre dal Podestà di Valmareno.
La tabella sottostante ci offre un quadro dei casi di infanticidio puniti dal Giudice feudale, con la relativa pena comminata. E stata compilata analizzando le raspe dal 1600 al 1680 (16) perciò essa ci fornisce solo i casi in cui l'autore del reato è stato scoperto e condannato.

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Appare, abbastanza chiaramente, come l'arresto degli imputati sia piuttosto limitato ed interessi principalmente gli uomini che erano implicati nel caso. La pena che veniva data più di frequente era il bando, proprio per la contumacia delle colpevoli, anche se poi talvolta il Conte graziava il condannato, liberandolo dal suo bando.
I procedimenti giudiziari scattavano immediatamente non solo quando veniva trovato il cadavere dell'infante, ma anche quando era giunta notizia che la donna fosse stata gravida e avesse poi partorito di nascosto. Il fatto di occultare il proprio stato di gravidanza, e di partorire da sola, di nascosto, era, per il Giudice, una prova abbastanza certa di colpevolezza. "Alla fine ha confessato d'esser stata gravida... ci ha fatto una creatura morta senza saputa da alcun" sottolinea il Giudice, in un processo contro una donna che sosteneva di aver partorito anzitempo una creatura morta (17). Proprio con l'intento di prevenire possibili casi di infanticidio, erano state emanate apposite ordinanze, ad esempio in Francia, contro coloro che occultavano la propria gravidanza (18). D'altra parte riusciva difficile nascondere il proprio stato, specialmente nelle piccole comunità dove tutto ciò che accadeva era di dominio pubblico. I testi infatti, riportano sempre le dicerie del paese e i sospetti che gravitano su certe donne e sul loro stato. L'elemento femminile, più esperto, forniva talvolta particolari assai precisi: "conoscea essa Maria per graveda nel caminar e nella panza", affermava con sicurezza una teste. Occultare la gravidanza era perciò abbastanza arduo, come pure era difficile nascondere il parto e il cadavere.

I luoghi e le modalità del ritrovamento erano spesso i più casuali e fortuiti. Venivano talvolta seppelliti nell'orto, o nei pressi della casa, oppure nella "corte". Veramente fortuito, ad esempio, il ritrovamento compiuto da un operaio che stava svuotando le "cane" del "necessario" del Guidice d'Appellazione, quando "con il badil" cozzò contro "un pezzo di carne che scopersi esser un gamba d'una creatura humana", come sostiene nella sua deposizione.
La donna, di fronte al ritrovamento del cadavere, adottava un comportamento che rendeva palese, agli occhi del Giudice, la sua colpevolezza, cioè la fuga; l'unica via di salvezza era quella di sottrarsi alle forze della giustizia (ved. sottostante tabella III).

Perciò sono relativamente poche le testimonianze che possediamo dalla viva voce delle dirette protagoniste. Se invece veniva arrestata cercava di evitare la massima condanna, sostenendo di aver partorito una creatura già morta e, per rendere questo più credibile, affermava di averla partorita prima del tempo. Il compito del Giudice, a questo punto, diventava più difficile; gli interrogatori dovevano appurare se veramente l'infante fosse nato morto (19). Chiedeva perciò ai testi se avessero sentito dei vagiti; richiedeva all'imputata delle minuziose descrizioni sullo stato fisico del feto nato morto. Talvolta si trattava di interrogatori molto crudi, quasi agghiaccianti, ricchi di particolari che la donna forniva per rendere credibile e più accettabile la sua versione dei fatti: "attrovandomi nel bosco" - sostiene una imputata - "ho partorita una creatura morta in due pezzi"

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come manza. .. li messi nelle strazze e poi andando a lavare alla riva della fontana li lasciai sgorlando nell'acqua et erano come due pezetti di carna che non era creatura "formata". "Richiesta come fossero li pezzi", rispose: "era una creatura putta in due pezzi una parte cioè coscia e piedi e poi il resto della creatura che haveva le sue manine e testa ma tutto negro"(20).
Per stabilire se veramente avesse partorito anzitempo, il Giudice sottoponeva la donna alla visita di "comari" di sicura esperienza che, attraverso una serie di controlli, dovevano stabilire la data del parto. Una della prove era quella di controllare il latte; dopo un simile esame Zuanna Trevisola, esperta "comare", poteva affermare con una sufficiente sicurezza: "ha partorito già giorni 15 una creatura avanti tempo perché volendo farli uscir latte dalle mamelle ho trovato uscirli latte guasto et putrefatto simile vinir quando vien partorito avanti il tempo" (21). Questa deposizione, che venne confermata anche da un'altra "comare", diede corpo e sostanza alla linea di difesa dell'imputata che riuscì, infatti, ad evitare la condanna.

Particolarmente emblematico per taluni aspetti, ma anche abbastanza "straordinario" per altri, è il processo istituito nel 1647 contro Zuanna di Donà Busanella da Tovena (21).
L'imputata rispondeva a quel tipico ritratto dell'infanticida che si vien pian

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piano configurando dall'esame dei vari casi processuali: aveva 30 anni circa, era nubile e faceva la massara presso l'oste della villa, in un'osteria molto frequentata, specialmente da "zattari", gente di passaggio, ambulanti, proprio perché si trovava presso il passo di S. Boldo che metteva in comunicazione la vallata trevigiana con il bellunese. Era accusata di aver partorito nell'orto del suo padrone "una creatura di sesso feminino viva poi con un sasso, ridotta in stato di morte, aver quella sepolta in esso horto sotto un baro di rosmarino, nel qual luoco è stata trovata spirante". L'infante viene poi portata in chiesa, dove muore dopo aver ricevuto il battesimo. Riuscire ad impartire il battesimo al neonato era molto importante perché, al di là della sua salvezza fisica, gli veniva così assicurata almeno quella spirituale. Privare l'infante, oltre che della vita, anche del battesimo era una colpa assai grave, che il Giudice sottolineava di continuo nelle sue sentenze contro le imputate.

Il Podestà, dopo aver ricevuto la denuncia, inizia l'esame dei vari testimoni, secondo lo schema ordinario in questi casi: stabilire se l'imputata avesse manifestato a qualcuno il proprio stato, o se lo avesse tenuto nascosto di proposito, accertare se qualcuno l'avesse assistita durante il parto, e se la creatura fosse nata viva. Prioritario era assodare se l'imputata avesse tenuta celata la gravidanza. Tutte le testi interrogate, a tal proposito, sostennero che, nonostante le loro ripetute pressioni perché Zuanna rivelasse le sue condizioni e nonostante i segni chiari della sua gravidanza, ella aveva sempre negato di essere incinta (23). Come abbiamo già sottolineato, per il Giudice, questa era una prova certa e sicura della premeditazione e della volontà di compiere l'infanticidio. A questo punto il Podestà ordina al Cavaliere di arrestare Zuanna; questi riesce ad arrestarla proprio mentre sta scappando attraverso i campi, la conduce a casa perché si lavi e si pulisca, quindi la porta nelle carceri del Castello. La "retentione" dell'imputata è un fatto veramente straordinario perché nella maggior parte dei casi, non solo di infanticidio, gli imputati riuscivano a sfuggire alla giustizia.

Questo ci permette di conoscere, almeno per un volta, le esperienze, il vissuto, la realtà della protagonista attraverso la sua stessa voce. Nell'arco di tre giorni, viene sottoposta ad un lungo interrogatorio durante il quale, dopo aver esposto tutte le sue precedenti esperienze, cerca di difendersi sostenendo che la "putta" era nata morta. Veniamo così a sapere che questa donna dai "capelli castagni scuri.., viso longo et naso non molto profilato... di grandezza piuttosto alta che mediocre", aveva già avuto, due anni prima, un figlio illegittimo da Toni Favero. La presente gravidanza la attribuiva, invece, a Nadal Zardetto, "maritato" e già con figli, presso cui era stata a "far opere" e specificava di essere stata da lui "ricercata l'anno passato di settembre al tempo che si raccoglievano i sorghi turchi a congiungersi seco carnalmente al che - continuava la ragazza - io condiscesi et così hebbe più volte meco commercio". Faceva la massara presso l'osteria da pochi mesi (gennaio 1647), quando si accorse di essere incinta, ma non lo confessò a nessuno perché temeva le minacce che suo padre le aveva già rivolto, durante la prima gravidanza. Nel suo disperato tentativo di difesa, cerca, invano, di sostenere che la creatura era morta e quindi la voleva seppellire "non havendo battesimo"; ma infine, stremata dalle martellanti domande del Giudice, confessa: "Signor sì conosco et confesso di haver fatto il mancamento dimandando di tutte le mie operationi di sopra da me commesse. .. prima a Dio, et poi alla Giustizia del mondo perdono"

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. E prosegue, precisando: "nell'atto stesso di partorire mi vene quella tentazione di fare quello che ho fatto senza consiglio di nessuno".
Dopo questa aperta confessione, la sua sorte è già segnata, avrà, dice il Podestà, quel castigo "che doverà servire alle altre donne di essempio memorabile per astenersi da tali delitti". E viene, infatti, condannata a morte. Così il 17 giugno 1647 "Zuanna vile ci impudica solita far copia di se medesima", così recita la condanna, viene "condotta sopra un eminente solaro", nella piazza di Cison e davanti a una moltitudine di popolo è decapitata. Il Giudice applica il massimo della pena prevista, senza alcuna attenuante; il presunto padre, invece, non viene nemmeno interrogato, nè tantomeno imputato di adulterio, dal momento che era sposato.
Questa è una, delle due condanne a morte eseguite nel feudo di Valmareno nel corso di un secolo (1580-1680) (24) e ciò sta a testimoniare la gravità del reato, o meglio, la determinazione con cui si voleva colpire coloro che ricorrevano a questo sistema per evitare la vergogna di relazioni illecite. Doveva essere una punizione esemplare che servisse da ammonimento per tutti e perciò nello spazio di soli 15 giorni il caso venne chiuso, con questa dura sentenza, quando solitamente la durata media dei processi, istituiti nel feudo, era più lunga (25).

Caratteristiche sociali e psicologiche dell'infanticida

Ciò che appare evidente, dall'esame dei vari processi, è il ripetersi di certe costanti, per quanto riguarda le imputate, tanto che si può tentare di delineare un ritratto, seppur approssimativo, dell'infanticida in genere. Come mostra la tabella III, nella maggior parte dei casi si tratta di donne vedove o nubili che ricorrono a questo estremo rimedio per mascherare la loro colpa. Vedove, che hanno già figli del primo marito e che vivono di espedienti, oppure di umili lavori: pascolare le bestie, andare a servizio, filare, ecc.
Molto spesso la colpa che volevano nascondere andava oltre l'adulterio, in quanto implicava talvolta anche relazioni incestuose, che venivano duramente colpite dalle leggi del feudo. Si trattava di vedove che, continuando a vivere nella casa del defunto marito, intrecciavano rapporti con i fratelli dello scomparso; rapporti che, trattandosi di un cognato, erano considerati incestuosi.
Particolarmente interessante, a tal proposito, è il caso (1614) che vede implicati Cia, vedova di Jacomo Soldà e Greguol "frateI di detto .Jacomo" (26). "Havendo havuto più e più volte negotio carnale insieme essendo cognati", dice la denuncia, "essendosi fatta gravida la detta Cia... havendo partorito una putta viva essi querelati. . . soffocarono essa creatura senza battesimo e l'ascosero in una brentella de sal in casa della loro habitatione dove fu trovata fresca da Lucia, moglie di detto Greguol". I testi e la moglie stessa dell'imputato, affermano di aver avuto dei sospetti sulla loro relazione; anche nella "villa si ragionava assai e tutti sapevano che essa praticava con suo cognato". Quindi una situazione nota e accettata dalla comunità quasi con spirito di comprensione e di complicità; infatti, dopo essere stati condannati al bando perpetuo, furono graziati

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dal Conte, proprio per una supplica che il comune rivolse al Signore, intercedendo in loro favore.
Per quanto riguarda i casi implicanti donne nubili, è da sottolineare che la maggior parte di esse vivevano separate dalla loro famiglia per vari motivi, talvolta perché "erano a servizio" presso altre famiglie; erano sole senza il sicuro e attento controllo delle strutture familiari e quindi più esposte a esperienze e relazioni non del tutto regolari. Le "massere", considerate particolarmente soggette ai rischi di unioni irregolari, venivano viste con occhi del tutto particolari. Basti pensare che la Rubrica, degli Statuti della Valle, riguardante la violenza contro le donne, prescriveva pene assai più ridotte a coloro che offendevano una "massera", rispetto alle condanne previste per la violenza contro donne maritate, o che vivevano con il padre, o con il fratello, o con la madre (27).
Molte delle infanticide nubili erano "massere", come ad esempio Maria Furlana, accusata nel 1598 di aver ucciso la creatura partorita. Serviva presso la casa del Giudice d'Appellazione, ma si mormorava per la villa di Cison che avesse "praticha con il Signor Marcantonio Crocecalle da Cividal", che abitava presso il castello dei Conti stessi (28). "Massara in casa di Domenego Baetto da Tovena" era pure Margarita Toffola, imputata insieme allo stesso Domenego di infanticidio. Margarita venne condannata al bando, in contumacia, Domenego, invece, "stante le sue difese" venne assolto e rilasciato (29).
Questa sentenza ci fa riflettere sul ruolo e sulle responsabilità che venivano addossate all'elemento maschile, implicato. Pochi sono i casi in cui viene condannato come complice; per lo più esso appare solo di sfuggita, è un elemento di contorno. I testi sono spesso molto chiari nell'indicare il presunto responsabile, ma il Giudice non sempre prende in considerazione le loro indicazioni. Nel caso, già citato, di Maria Furlana, il Podestà non si cura di interrogare nè il Giudice d'Appellazione, presso cui serviva, né il signor Crocecalle, che tutti indicavano come il presunto responsabile della gravidanza. Tutta la colpa ricade unicamente sulla massara, che è fatta oggetto delle mormorazioni di tutta la villa.
Compito del giudice, in questi casi, è quello di colpire l'autore materiale dell'infanticidio, senza curarsi di altri possibili responsabili. Il seduttore resta nell'ombra, viene considerato un elemento di secondo piano che può essere inquisito e processato solo quando si è certi della sua diretta partecipazione all'atto della concreta eliminazione dell'infante. Questa stretta compartecipazione al misfatto si verifica specialmente nei casi in cui la donna viveva a fianco dell'uomo con cui aveva avuto la relazione, perché ciò comportava un suo maggior coinvolgimento nelle varie fasi della vicenda stessa, compresa l'uccisione del neonato (30).
Per comprendere la scarsa responsabilità addossata all'elemento maschile, è da tener presente che in questi casi l'uomo non aveva svolto il ruolo di vero e proprio seduttore ingannando la ragazza con promesse di matrimonio, proprio per il fatto che, come abbiamo visto, egli era spesso legato a lei da vincoli di parentela, oppure era già maritato. Quindi, da questo punto di vista, la sua responsabilità morale era piuttosto limitata; più difficile resta invece stabilire se, in qualche modo, facesse delle pressioni, più o meno larvate, per "convincere" ed indurre la donna a liberarsi del pesante e scomodo fardello della loro unione.
L'infanticidio diventa quindi un reato tipicamente femminile e nel corso del XVIII secolo si registra una ancor più sostanziale perdita di potere da parte delle donne che, sempre più difficilmente, riescono ad addossare parte della responsabilità all'uomo e maschile in causa. L'infanticida, vedova o nubile e, spesso, priva di un regolare nucleo familiare proprio, si trova perciò sola ad affrontare le conseguenze di situazioni che l'opinione pubblica avverte sempre più come vergognose e fuorvianti per l'ordine sociale costituito.
Nelle città, la presenza di ospedali e di ospizi per l'infanzia abbandonata rappresenta per la donna una soluzione comoda e poco problematica; mentre nei piccoli centri periferici la soppressione dell'infante era spesso l'unico modo, anche se rischioso, per nascondere il proprio errore e salvaguardare quindi l'onore.

Teresa Ballancin


NOTE
  1. Per quanto riguarda la storia e la realtà socio-economica del feudo di Valmareno, dei conti Brandolini, cfr. BERNARDI J. Cison e la Vallata, cenni storico-ecclesiastici, Venezia, 1851; BUOGO A. La Valmarena dei contadini e dei feudatari, Treviso, 1983; STEFANI P. Miane della Valmareno nel Trecento, Vittorio Veneto, 1980; GASPARINI
    D. La contea di Valmareno, tesi di Laurea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Venezia, anno accademico 1980-1981; dello stesso autore: Signori e contadini nella Contea di Valmareno, in corso di pubblicazione; BALLANCIN T. Società e Giustizia nel Feudo di Valmareno, tesi di Laurea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia degli Studi di Venezia, anno accademico 1980-1981. Per la storia della famiglia Brandolini v. CHIAVENNA A. Delle più nobili imprese fatte nelle guerre più famose..., Padova, 1648; MARCHESI 5. Marcantonio Brandolini una belva umana, Milano, 1891; BRANDOLINI D'ADDA A. I Brandolini da Bagnacavallo, Venezia, 1945.

  2. Rientrava tra i compiti specifici del meriga denunciare qualsiasi tipo di reato di cui venisse a conoscenza; egli era passibile di denuncia se non svolgeva con cura questo incarico, tralasciando di denunciare le trasgressioni che si verificavano nel suo comune.
    Per i problemi, inerenti la giustizia nel feudo di Valmareno v: BALLANCIN T. L 'esercizio dei poteri giurisdizionali in un feudo della terraferma veneta: l'amministrazione della giustizia penale nel con tado di Valmareno, saggio dattiloscritto, in corso di pubblicazione.

  3. Infatti nel registro dei battesimi di Miane, sotto la cui giurisdizione ecclesiastica si trovava Vergoman, troviamo : "2 maggio 1610. Fu battezzata Catherina figlia di N. et di N. Padrino m°. Angelo Fabro per charità", Archivio Parrocchiale di Miane, Registro Nati 1605-29, c.17 tergo.

  4. La denuncia e il relativo processo sono presso Archivio di Stato di Treviso , Contea di Valmareno, Busta 293, Criminalium liber 49, e. 7 v. (denuncia); A.S.T. Contea di Valmareno, Busta 294, n' 22 (processo).

  5. Purtroppo la ricerca di dati anagrafici riguardanti l'imputata non ha dato esiti positivi, poiché nei registri parrocchiali non è stato possibile reperire l'atto di battesimo, né l'atto di matrimonio o di morte. Questo sia per delle lacune nella documentazione, sia per una sottoregistrazione abbastanza diffusa specialmente per quanto riguarda il periodo in questione (fine 500-inizio 600), periodo di "rodaggio" per quanto concerne l'obbligo dei
    parroci di annotare simili aventi, dopo le disposizioni del Concilio di Trento.

  6. Queste sono le parole che il Podestà, Niccolò Burlina, che si occupò del caso, usò nel proclama di comparizione contro Tommasina. Nel mandato di comparizione si citava il
    colpevole a presentarsi alla giustizia per difendersi, entro un determinato tempo; scaduti
    i termini l'imputato veniva condannato, come reo confesso, in contumacia.
    Per quanto riguarda l'amministrazione della giustizia nello stato Veneto in generale, cfr. CRIVELLARI G. Intorno al diritto penale nella Repubblica di Venezia, in Archivio giuridico, voi. V, 1870; MELCHIORRI B. Miscellanea di materie criminali, Venezia, 1776; POVOLO C. Aspetti e problemi dell'amministrazione della giustizia penale nella Repubblica Veneta, Secoli XVI-XVII, in Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta, a cura di G. Cozzi, Roma, 1981; COZZI G. La giustizia e la politica nella Venezia seicentesca, estratto da La formazione storica del diritto moderno in Europa, volI, Firenze, 1977; dello stesso autore: Note sui tribunali e procedure penali a Venezia nel 700, in Rivista storica Italiana, anno LXX VII, fase. I, Napoli, 1965.

  7. Oltre al bando le vengono confiscati tutti i suoi beni. Secondo le leggi dello stato veneto l'alternativa al bando perpetuo era la pena capitale, quindi la sentenza contro Tommasina rispetta pienamente la legislazione vigente.

  8. Questo non sta a significare che negli Statuti dei Feudo ci fosse un'apposita rubrica riguardante l'infanticidio, ma in questi casi venivano applicate le pene previste per i casi di omicidio, v. Volumen Statutorum Legum ac iurium comitatus vallis Mareni Venezia, 1600, Rubrica XXIX-XXX. Il volume degli Statuti fu stampato a cura del Podestà Francesco Guerra.

  9. La liberazione dal bando, per grazia del Conte, non era un avvenimento eccezionale per la vita Giudiziaria del foro di Valmareno. Vari sono infatti i casi di imputati, condannati anche per gravi colpe, che ottengono la grazia dal Conte. Per quanto riguarda le condanne per infanticidio è da registrare, per esempio, la grazia concessa a due cognati che erano stati banditi nel 1914 per l'uccisione di una "putta" appena nata.

  10. La ruota era un recipiente cilindrico che ruotava sul proprio asse e presentava una apertura dentro cui si poneva il bambino. Per il problema degli illeggittimi e degli esposti v. POVOLO C. Tre Villaggi del contado di Vicenza. Indagine demografica per una storia sociale..., in Lisiera storia e cultura di una comunità veneta, Vicenza, 1981, pp. 875-1035.

  11. I registri dei battesimi, dei matrimoni, dei morti, che si trovano negli archivi parrocchiali, sono fonti molto utili e preziose per le indagini demografiche relative alla società "d'ancien régime", proprio perché ci permettono uno studio del movimento naturale della popolazione per un periodo, in cui mancano altre fonti alternative di diversa origine (es. registri anagrafici municipali).
    Colgo l'occasione per ringraziare i parroci di Miane, Mareno, Cison, che mi hanno
    gentilmente concesso di poter esaminare e consultare i preziosi fondi dei rispettivi archivi parrocchiali.

  12. Clamoroso fu, ad esempio, il caso di Domenica q. Pietro de Conto che venne denunciata da "persona secreta" per rapporti incestuosi avuti con il fratello, restando anche gravida del medesimo.
    Arrestata ed interrogata, ella negò l'accusa e sostenne invece di essere stata "assasinata" da una persona mascherata. Il 5 febbraio 1664 (due mesi circa dopo l'arresto) partorì in carcere "una figlia femina"; l'8 marzo il Podestà, Giacomo Donati, pubblicò la sentenza di condanna: "Domenica candannata alla berlino in giorno et udienza, et frequenza di populo per hore tre dalla qual levata star debba in una priggion serrata alla luce pe anni 10...". 11 cartello della berlina recava scritto: "Un stupro incestuoso t'ha condotto a quest'injàmia, che ad ogn'un è nota et una pregion decenia ti aspetta ad emendar tua vita incoretta". Il fratello, assente, venne bandito in perpetuo dal contado; v. A.S.T. Contea di Valmareno, Busta 362.

  13. Archivio parrocchiale di Cison, Registro battesimi

  14. Sulle condizioni degli ospizi per i trovatelli e sulla sorte degli esposti v. CAPPELLETTO G. Infanzia abbandonata e ruoli di mediazione sociale nella Verona del Settecento, in "Quaderni storici", n' 53 anno XVIII, fascicolo Il, pp. 42 1-445; DORIGUZZI F. I messaggi dell'abbandono: bambini esposti a Torino nel '700, idem pp. 445-469.

  15. POVOLO C. Aspetti sociali e penali del reato d'infanticidio. Il caso di una contadina padovana nel 700, estratto dagli Atti dell'Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, tomo CXXXVIII, Venezia 1980, pp. 4 15-432; l'articolo è molto interessante per l'esame di un fascicolo processuale riguardante l'infanticidio.

  16. Le raspe sono la raccolta delle sentenze che venivano emesse e pubblicate, dall'autorità giudiziaria, contro i colpevoli.
    Purtroppo, per quanto riguarda le raspe del feudo di Valmareno, la documentazione archivistica presenta delle lacune, per cui non è possibile disporre della serie completa delle sentenze emesse in tutti gli anni.

  17. A.S.T, Contea di Valmareno, Busta 352.

  18. FLANDRIN J.L. Amori contadini, Milano, 1980, pag. 176 e segg.

  19. Una delle prove, adottata nel Veneto verso la metà del 700, era quella di immergere un pezzo di polmone dell'infante in un recipiente pieno d'acqua. Se il pezzo veniva a galla, stava a significare che aveva respirato, quindi era nato vivo; cfr. POVOLO C. Aspetti sociali e penali, cit.

  20. A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 352, n'21 processo contro Corona Damin.

  21. A.S.T.,Contea di Valmareno, Busta 352 (processo contro Corona)

  22. A.S.T.,Contea di Valmareno, Busta 332 cc. 130-181 (processo); A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 333 cc. 867-68 (sentenza);

  23. Una testimone, Tadia moglie di Andrea d'Agostin, afferma di averle chiesto più volte se era gravida perché aveva osservato che Zuanna "da certo tempo in qua haveva il fiato grosso et dimostrava anco gonfio il ventre più dell'ordinario oltre che si vedeva nella faccia molte (panne), inditio manifesto di gravidanza

  24. L'altra sentenza capitale venne eseguita nel 1 602, per un caso di omicidio (marito che aveva ucciso la moglie); A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 288.

  25. La lunghezza era determinata da vari fattori: quantità di testi da esaminare, capitoli e difese presentate dagli avvocati, complessità del caso. Nella maggior parte dei casi la sentenza veniva emessa entro un anno dalla presentazione della denuncia, spesso il caso si concludeva entro pochi mesi (specialmente per infrazioni contro i proclami). Assai raro che la condanna fosse pubblicata dopo pochi giorni, quando si trattava di processi delicati, come quelli per infanticidio.

  26. A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 298 (processo); A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 293 (sentenza).

  27. Volumen Statutorum, cit., libro criminale, Rub. XXXVI.

  28. A.S.T. Contea di Valmareno, Busta 286.

  29. A.S.T., Contea di Valmareno, Busta 307, Raspa 24' c. 31-32.

  30. Era coinvolto nell'infanticidio, ad esempio, Greguol Soldà da Visnà che viveva insieme alla cognata con cui aveva avuto la relazione, A.S.T., Contea di Valmareno, Busta
    298.

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