PER IL DIALETTO
Il dialetto è venuto di moda e gli facciamo, con molta apprensione,
gli auguri. Perché, dall'essere di moda, il dialetto non avrà
che da perdere.
I testi in dialetto si leggono ormai un po' dovunque: in libri, settimanali,
giornali, in prosa e in poesia. E se ne vedono - è il caso di
dirlo - di tutti i colori per cui, da sinceri amanti del dialetto quali
siamo, proponiamo una serie di riflessioni che dovrebbero servire per
quelli che hanno coraggio di scriverlo, il dialetto, e di farlo stampare.
1) Per scrivere bene in dialetto, bisogna parlarlo bene;
e per parlarlo bene bisogna conoscerlo.
2) Affermare che il dialetto è una lingua, o
è una banalità, o è un errore.
Se infatti per lingua si intende semplicemente un sistema di comunicazione
orale fra i singoli componenti di una comunità, si può
concludere che tutti gli uomini parlano una lingua e non c'è
comunità, per quanto primitiva, che non parli la sua. Dire, procedendo
da queste premesse, che il dialetto è una lingua, è una
banalità.
Se per lingua invece intendiamo un sistema di parole complesso e com-pleto
in uso comune tra i componenti di una comunità, per comunicare
tra loro, non solo, ma come strumento di comunicazione nelle scuole
e negli uffici, e nelle pubbliche istituzioni, usato per scrivere le
leggi e i giornali, idoneo alla composizione di un testo di filosofia
come di una cartella clinica o di una relazione scientifica: se per
lingua intendiamo questo, affermare che il dialetto è una lingua
è un errore.
3) Dire che il dialetto assume dignità di lingua
perché e quando viene usato da un poeta è un altro errore.
Primo perché ogni dialetto ha la sua dignità a prescindere
dal fatto che lo abbia usato qualche poeta. Secondo perché la
"dignità di lingua" non è un livello di qualità
che si possa contrapporre al dialetto.
Dialetto è bello, insomma. E la poesia, per il fatto di essere
in dialetto, non offusca il suo nitore
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ove lo sia veramente.
E il dialetto, per il fatto di essere in poesia, non cessa di essere
dialetto.
4) Chi scrive in dialetto, non solo deve conoscere le
regole del dialetto, ma anche quelle dello scrivere. E deve fare una
scelta precisa: cioè quella dei destinatari di ciò che
scrive.
Ove egli scriva per i linguisti, per far loro conoscere un particolare
tipo di dialetto, deve usare con rigore le regole dell'alfabeto fonetico.
Ove invece egli scriva per i parlanti quello stesso dialetto, ha il
dovere di scegliere la forma più semplice possibile, perché
tra i parlanti il dia-letto i linguisti sono pochissimi.
E viceversa.
5) Regola fondamentale e preliminare per chiunque scriva
in dialetto è pensare in dialetto. Ne consegue che il testo dialettale
non deve essere una traduzione in dialetto dall'italiano.
6) Chi scrive in dialetto deve scrivere il "proprio"
dialetto.
Tentare di costruire un ipotetico dialetto del passato, magari indossando
i panni di uno status sociale di altri tempi, è operazione priva
di valore culturale.
7) Per quel che concerne la nostra regione, va detto
che non esiste il dialetto veneto, ma esistono i dialetti veneti, simili
ma diversi tra di loro.
A meno di inventare una specie di "esperanto" veneto (sul
tipo di quello che è risuonato qualche mese fa in Parlamento
per iniziativa di un de-putato che probabilmente pensava di far ridere,
in tal modo, oltre che i colleghi parlamentari, anche tutti i veneti,
nessuno dei quali parla quella specie di dialetto lì), il testo
dialettale non può che essere espressione di una determinata
zona.
Come per i libri, così per i giornali vale in questo caso la
regola di in-dicare la zona a cui il dialetto del testo pubblicato appartiene.
8) Il dialetto non è un fatto paesano, per cui
"difendere" il dialetto non deve essere come una difesa della
paesanità, rispetto alla "Lingua" delle città.
Anche le città hanno i loro dialetti, talora perfino distinti
per quartieri, ed anche questo è un fatto culturale.
Mentre, dall'angolatura del paese, si sostiene giustamente la difesa
del patrimonio dialettale, non si deve dimenticare il diffuso fastidio
provato e denunciato in molte regioni d'Italia per il dilagare del romanesco
in radio e televisione. E cosa era? "Difesa della "campagna
rispetto alla
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"città" per antonomasia? o non piuttosto
perplessità di fronte all'inva-denza di un dialetto nell'ambito
di strumenti di comunicazione che, per essere nazionali, devono usare
la lingua di tutti gli italiani? Come dire che la difesa del dialetto
deve essere anche difesa dei suoi limiti. Farlo debordare, in qualsiasi
modo, significa danneggiarlo. Dialetto è bello, insomma, purché
dialetto sia. Fatto di comunità, non paesano. Con confini precisi,
di espressività e di diffusione. Che vanno difesi.
9) "Insegnare" il dialetto a scuola è
impossibile, inutile e ridicolo. Come insegnare a mangiare. 0 a crescere
di statura. Il dialetto è la lingua di casa. La sua scuola è
la famiglia. Lo si impara, fin dai primi mesi, con la vita. Insegnato
a scuola sarebbe una cosa artificiale, sintetica, di plastica. Un falso,
insomma. Dio scampi!
10) Un testo in dialetto non è per sè espressione di cultura
locale. Le stupidagginí, le ridicolaggini, le banalità,
le ... "monade", restano tali, sia che siano scritte in italiano,
sia che siano scritte in dialetto.
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