LUCIANO CECCHINEL
PROVERBI E MODI DI DIRE DELLA VALLATA DELLE PREALPI TREVIGIANE
E DEL VITTORIESE
Alcuni filoni tematici
All'interno del generale sistema dei proverbi si possono
ritagliare molti sottosistemi e il discorso vale, pur se non all'infinito,
anche per i singoli sottosistemi. Ognuno di essi è una chiave,
fabbricata dagli uomini in millenni
- giacché il sistema paremiologico affonda vertiginosamente nelle
profondità di altri sistemi linguistici contemporanei o trascorsi
- una chiave destinata ad aprire alcuni segreti del mondo, a stabilire
connessioni, più o meno misteriose, tra le cose e gli esseri che
sono sulla terra. I detti narrano dunque la lunga storia d'una ricerca
segreta d'intesa tra la mente dell'uomo e la realtà, ricerca che
non ha avuto solo motivazioni pratiche ma ha investito ogni zona, fino
alle più alte, in cui si muove la vita.
Pertanto frugare nella "sapienza del passato" non ha solo un
senso nostalgico, può anzi permettere, come già detto, di
scoprire quanto di "esistenzialmente strutturale" rischia d'essere
dimenticato o calpestato. Si ècomunque di fronte a un tesoro comune,
elaborato lungamente nel tempo, affinato dall'esperienza, che non si ricostituisce
in poche generazioni: ègiusto accoglierlo dalle innumerevoli che
ci hanno preceduto, nelle sue nozioni e nelle sue sfumature. Anche se
parte del suo fardello di sofferenze e affetti ci rimarrà sempre
segreto, è comunque in questo senso che può essere inteso
il proverbio: come elemento della grande funzione interpretativa del mondo
costruita dalla filosofia popolare. Sulla base di questi presupposti un
sistema paremiologico si configura, pur in un assetto composito, come
una struttura complessivamente unitaria: e se ha in sé molte contraddizioni,
da queste non sono esenti altri sistemi più alti elaborati dall'uomo.
LUCIANO CECCHINEL. Insegnante di materie letterarie, ha pubblicato articoli
e studi su materiale folklorico e sulle culture subalterne. E' autore di
alcune raccolte di poesie in dialetto alto-trevigiano.
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La selezione in capitoli tematici è stata difficoltosa e rimane,
in linea con le riserve fin dall'inizio avanzate, discutibile; presenta
certo meno margini di opinabilità l'analisi dell'uso e degli aspetti
formali dei proverbi; in certi casi, pure abbastanza contenuti, ci si
è poi trovati di fronte a massime che apparivano acquisizione diretta
in dialetto di altre di diffusione più larga.
Sulla scia di quanto detto in sede di introduzione, è altresì
da ribadire che dal punto di vista del senso, rispetto ad un diritto di
nascita, di natura concretamente denotativa, si impone progressivamente
nei proverbi un diritto d'uso di natura spesso connotativa che ne privilegia
la funzione allusiva e quindi intrinsecamente ironica. Certi proverbi
possono pertanto essere incasellati secondo il senso d'origine o secondo
il loro senso d'uso. Si pensi a modi di dire come no 'l sa ne trar
ne mòrder o come na òlta cor al can na olta cor al gévero,
che per marchio d'origine sono da classificare come venatori ma che vengono
comunemente applicati al di fuori del loro alveo di nascita per qualificare
aspetti comuni dell'esistenza. Oppure a un proverbio come i ciòdi
in tel rore i é come i schèi in te le man de i prèti,
la cui nascita potrebbe essere riferita a ragioni coloritamente artigianali
ma che è intriso di acredine anticlericale e che in questo senso
("capovolto?) viene oggi solamente usato.
Si è qui scelto come criterio "parziale" quello di assemblare
i proverbi attinenti alcuni settori che appaiono "per emergenza"
più peculiari della cultura locale e di dare meno spazio a quelli
che si possono classificare più generalmente e genericamente morali,
che sono per lo più simili a quelli usati anche in altre culture
e comunque in più vaste aree di raccolta.
La classificazione si sedimenta qui nell'ordine nei seguenti
temi: la memoria, la religione, la superstizione, il fatalismo, il potere,
la povertà, la morte, il tempo, il lavoro, il vino, la caccia e
1 'uccellagione; compare alla fine un breve comparto sui proverbi contraddittori.
È da dire che la collazione ha altresì avuto due direzioni:
una prima, impostasi per emergenza di contenuti dalla congerie stessa
dei proverbi analizzati, è consistita nella definizione dei filoni;
una seconda, per così dire di rifinitura, è stata richiamata
da riferimenti di arrotondamento e collegamento, sulla via dell'approfondimento
di ogni specifica tematica.
La memoria
pitòst che pèrder na usanzha l' é
mèjo brusar an paese
In certe manifestazioni della cultura popolare si è
potuto leggere un atteggiamento di ripulsa delle vestigia della propria
subalternità. Il fenomeno è stato oltre tutto riscontrabile,
almeno fino a poco tempo fa, nella fuga dalle case rustiche, segni più
visibili e scomodi della cultura in estinzione, ma lo si può leggere
anche e pure emblematicamente nel goffo tentativo di chi vuoi parlare
l'italiano che non sa al posto dei dialetto che invece parla a meraviglia.
Per chi possiede le altre culture è di converso facile parlare
(anche) dialetto, come lodare i rustici, in cui non abita. Non per caso
i pastori, tanto importanti e vagheggiati in letteratura, non trovano
più l'Arcadia. Ma c'è d'altro canto anche chi riesce, pur
dall'interno di una cultura subalterna, a vedere oltre agli aspetti che
lo mortificano, anche quelli che gli conferiscono senso e dignità;
e sente di dover rifiutare di abbandonare il suo mondo perché gli
si è accasato nel cuore come una patria familiare e tormentosa.
In fondo nella continuità della sofferenza si può trovare,
aldilà di ogni pulsione masochistica, una petizione di senso per
il proprio passato, per le risorse investite o, si dica pure, dilapidate
sia per una scelta sbagliata sia per una costrizione ineluttabile.
Ci si trova di fronte più che all'iterazione come rito dell'immortalità,
alla continuità come metafisica di ripiego di chi spera di non
aver sbagliato o vuole convincersi di questo. Giacché se ogni canbiada
i' é na brusada e al pèdo no l'é mai mòrt,
pitòst depèrder na usanzha l'é mèjo brusar
anpaese:
la continuità dunque come forma di difesa e di petizione di senso.
E tale posizione assiomatica trova nella sua staticità un risvolto
etico: infatti se chi che no se còntenta del' onèstopèrde
'i mànego e anca 'l zhesto, meglio, come già detto, rimanere
poreti ma galantòmi tanto più che a èsserporeti no
l' é 'n disonor. Lo stesso detto no l' é pi relijon,
che può essere usato dalle vecchiette per denunciare in chiave
di morale cattolica la mancata osservanza dei buoni costumi come dagli
uomini per commentare i tuoni e i lampi a dicembre o a gennaio, tradisce
il senso di disagio, quasi di stizza per ciò che è straordinario:
e forse una delle ragioni dell'uso frequente del motto al di fuori del
campo religioso è che ciò che fuoriesce dalla norma è
sentito quasi come blasfemo. Di fronte ai cambiamenti "anormali"
meglio in fondo la rassicurante ciclicità/ritualità dei
ritmi di lavoro.., un po' come un rimanere nel divenire.
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La religione
alleluja, alleluja, al porzhèl te la vanuia
al Signor ricama e noi vedon i grop
Il senso religioso, nella commistione di ritualità
primitiva e religione ufficiale, permea per molteplici aspetti la cultura
contadina. Forse proprio l'atavico confronto fra sacralità pagana
e religione cattolica, investendo il radicale rapporto natura-cultura,
ha impedito un'assunzione passiva della religione ufficiale e ad un tempo
fecondato certa "proverbiale" autonomia critica della civiltà
rurale.
C'è certo stata anche una lampante assunzione della dottrina cattolica,
talvolta in chiave discretamente ortodossa, tal altra in chiave singolarmente
superstiziosa: se laorofat defèsta al vafòra par lafenèstra,
messa scoltada, jornada guadagnada; ma a balar de quaresima sefa le ganbe
storte; e ad ogni modo al dotor, alprète e a l'avocato dighe senpre
la verità, che tu sarà beato. E la carità la vafòraparlapòrta
e la vien dentro par lafenèstra e poi me se à sarà
na pòrta e me se à vèrt an porton. D'altro canto
quando che 'l còrpo se frusta I' ànema se justa e spizha
de cul, sagra a I' infèrno, se almeno è vero che no sepol
cantar, balar e anca portar al Cristo. E se per caso il tarlo intellettuale
tentasse di far breccia nel dogma, sarà inevitabile ricordare che
no se movefoje che Dio no 'l voje e che comunque quel che Dio
manda l'è sènpre tant; e ove le spiegazioni diventassero
ardue, ecco la formula di sapore poetico al Signor ricama e noi vedon
i grop. E infine se mor quando che 'I Signor ne ciama e, a
fini consolatori, al Signor al toca i soi.
Come poi il potere religioso ha paludato funzionalmente consuetudini e
riti pagani preesistenti, la gente contadina ha mutuato molti dei suoi
aspetti dottrinali; ma è da dire che più spesso ha vissuto
o ridotto superstiziosamente, ma pur sempre funzionalmente, i riti e le
formule proposti, quando non li ha più o meno mimeticamente rifiutati
attraverso atteggiamenti, modi di dire e proverbi; più o meno mimeticamente,
perché frequente è, come si potrà verificare, il
ricorso a percorsi espressivi polisemici.
E' attraverso questo processo di velato respingimento o di "assunzione
resistente" che si estrinseca in fondo, ben oltre la coloritura formale
dei contenuti religiosi ortodossi, certa funzione creativa della cultura
contadina, naturalmente nel tempo ipostatizzata attraverso l'iterazione
enunciativa. E la chiave prevalente del processo è quella dell'ironica
controdeduzione. Se pertanto la religione oggi, nella pratica più
o meno formale, ecclettica o contraddittoria del culto cattolico, rimane
in qualche modo il termine di riferimento di molteplici aspetti del vivere
contadino - si pensi qui, per non parlare delle desunzioni direttamente
ideologiche, alle correlazioni di tempo meteorologico e solare con il
calendario liturgico - la commisurazione ad essa è avvenuta anche
in direzione critica od apertamente reattiva. Imbevuti
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di agrore impotente sono infatti parecchi proverbi e modi di dire di diffusione
locale che, se non si riferiscono in modo diretto alla religione, la correlano
ad altri campi di significazione più strutturali all'interno della
civiltà contadina, quali sono, ad esempio, gli aspetti del lavoro
agricolo o artigianale e l'alimentazione.
Se ne riportano qui alcuni registrati nell'area all'inizio indicata, con
la premessa che ogni notazione di "volgarità" diviene
qui, ad onta dell' accezione d'onta, garanzia di autenticità. Di
ironico effetto plastico è l'equazione basabanchi, ciavasanti
, argutamente colorita quella che esorta a reguardarse da i dent de can,
da le scarpedade de mus e da quei che tien su le man, del cui ultimo
membro esiste anche la versione più politica e da quei che tien
la corona in man.
Bacchica o conviviale si può qualificare la massima pitòst
che spànder vin l' é mèjo che more 'l prète,
in cui se la reggente enunciativa dà per scontato che il prete
è quanto di più importante o quanto meno ritenuto tale nel
contesto paesano, la premessa comparativa banalizza causticamente la dimensione
religiosa sottesa dal termine prete per quasi sublimare, di contro, il
valore del vino. In sintonia appare la diffusa storpiatura di una strofe
di un noto inno alla Madonna che da "siam peccatori ma figli tuoi,
Immacolata, prega per noi diviene siam bevitori ma figli tuoi, missià
co l'aqua mi no ghe 'n voi. Analoga la deformazione dell'Ave Maria,
ad altri fini già considerata:
Ave Maria, grazia plena, chi li àfati se li tegna e così
di una nota formula liturgica che diviene Deus in auditorium meum intènde,
chi che no ghe n'à gnanca ghe 'n spènde. Di natura politico-sociale
l'espressione Corpus Domini Nostri Jesu Christi, poreti e anca malvisti
che appare attaccare, assemblando la situazione comunitaria per eccellenza
richiamata dalla formula della comunione con una rappresentazione della
povertà bistrattata, un "establishment" individuato come
commistione di perbenismo religioso e potere discriminatorio.
E' da notare qui, ma vale anche per altrove, come la ripresa del latino,
lingua della sacralità e ad ogni modo lingua nota e usata dai detentori
del potere, conferisca, attraverso il rinforzo contrappuntistico, un'ulteriore
connotazione di subalternità; ed era comunque certo la ricorrenza
frequente di formule religiose più o meno capite nel loro significato
a far echeggiare nella memoria della gente illetterata una melodia su
cui innestare altri sensi, funzionali al suo modo di essere o sentire.
Analoga alle precedenti è l'equazione di contrappunto tuti i
salmi i finis in gloria e tuite le magnade in mèrda, che, nella
consapevolezza dell'inconciliabilità di trionfalismo religioso
e meschina quotidianità, viene usata, in generale, per rastremare
a un destino comune situazioni e prospettive e, in particolare, per respingere
all'atto della formulazione proposte magniloquenti quanto difficilmente
realizzabili o per giustificarne a posteriori il fallimento. E' interessante,
di riscontro, notare come l'alleluja, la
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formula trionfale per antonomasia della liturgia cattolica, sia stata
appunto "volgarmente" ridotta in funzione di quella grande festa
contadina che era l'uccisione del maiale nel modo di dire alleluja,
alleluja, al porzhèl te la vanuja.
Nel campo dell'economia agricola si colloca il modo di dire le magna
fa i avocati e le rènzh fa i prèti, usato soprattutto
per le mucche. E, in analogia, direttamente artigianale e solo indirettamente
dissacratorio si presenta il mordace i ciòdi in te 'l rore i
é come i schèi in te le man de i prèti, in cui
a rendere l'idea di quanto sia "tegnoso" il legno di rovere
è la tenacia "archetipica" delle mani dei preti quando
impugnano i soldi. Sempre di sapore economico i detti, arguti nelle loro
connotazioni evangelico-picaresche, ndar sul sò del Signor e
la ròba de i canpi la é de Dio e de tuti iso santi che,
prendendo ironicamente alla lettera l'evangelismo cattolico, superano,
tornando per via "ortodossa" alle origini, il contratto sociale
e nella fattispecie le angustie determinate dalla proprietà privata.
La prima espressione aveva comunque in zona una collocazione accettata
e quindi legittimata nella consuetudine di cercare i pali del "panevin"
indiscriminatamente dai limiti normalmente posti dalla proprietà.
Alcune massime, non propriamente dissacratorie ma pregne di scetticismo,
investono il concetto cattolico, se non assolutamente indeterministico
certo polivalente, della provvidenza: l'usatissimo de riva in do ogni
santo 'l juta conviene per implicitazione perlomeno che de riva in
su non tutti i santi aiutano; ma spostano dallo scetticismo mimetizzato
a rassegnata quanto sperimentata certezza la radente formula constatativa
al Signor juta tuti fòra che i desperadi e quella di uso
prevalentemente metaforico al Signor ghefa vegner le zhuche a chi che
no à i porzhèi, che viene usata, e di solito stizzosamente,
al termine di conversazioni dal contenuto in sintonia col senso del proverbio
e spesso con la premessa chiosante al é propio vera si che....
E, d'altro canto, in più ortodossa applicazione della dottrina
religiosa, al diaul al chèga sul grun (grant); di riscontro,
usata solo raramente con rassegnazione da ortodossia e invece molto spesso
con miscredente caustica ironia di fronte a pesanti o interminabili eventi
negativi, è la massima quel che Dio manda no l' é mai
massa, certo coniata per contrapposizione sulla già citata
e ortodossa quel che Dio manda l'é sènpre tant. Eloquente
è poi l'adattamento per coda di un famoso detto evangelico: beati
i ultimi se i primi i a creanha, già visto in sede di analisi
della struttura dei proverbi. Lo scetticismo nei confronti dell'aspettativa
provvidenziale si registra del resto in moltissimi altri proverbi che
non fanno comparire direttamente la dimensione religiosa; valgano qui
ad esempio tu ghe scanpa al bò e la vaca te tra e pi bisogno
manco aiuto.
Ed ecco a complemento di siffatta visione del mondo la riformulazione
contrastiva del precetto ecclesiastico della santificazione della festa:
sènzha messa e senzha vèspro se pol star ma no senzha
disnar. E' da ricordare che
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in questo caso, come già visto, l'ortodossia è confortata
da ben due massime:
messa scoltada, jornada guadagnada e laoro fat de fèsta al va
fòra par la fenèstra, quasi a indice di un'umile diatriba
dottrinale consumata a suon di rima.
Più gratuitamente dissacratorio si presenta il modo di dire ver
i schèi del papa e far al mistier del gal come la perentoria
constatazione del distacco emotivo dei religiosi che scaturisce dal parallelismo
sangue de s-cios, àgreme de preti, sudor de stradini, evidentemente
condotto sul comune implicito denominatore dell'impossibilità.
Si può a questo punto costruire, in chiave metalinguistica, un
sortilegio:
se quanto scritto fa bollire qualche pignatta, un religioso cultore del
popolare ci metta un coperchio, giacché il celebre proverbio italiano
"il diavolo fa le pignatte ma non i coperchi" circola localmente
anche così "riformato": al diaul al fa le pignate
e i prèti i cuèrci.
E valga questa conclusione proverbiale, oltre che da estraniamento dalla
questione, anche quale restituzione del proverbio alla sua rituale funzione
che è quella di chiosare "culminativamente" una situazione,
sia pure, come in questo caso, solo discorsiva.
La superstizione
co tu é pèrs dal mazharol, òltete
na mànega
Pur se si tende negli studi etnologici a inquadrare tout
court tale categoria nell'ambito della religiosità popolare, quale
filone ad essa naturalmente intrinseco, si è qui optato per una
trattazione separata, sulla base della constatazione che sono di gran
lunga più numerosi i proverbi di matrice religiosa desunti dalla
catechesi cattolica, anche se va detto che la loro "riduzione"
ideologica non risulta sempre ortodossa: eloquente a tale proposito la
sentenza a balar de quaresima sefa le ganbe stòrte.
Accanto ai proverbi di matrice segnatamente religiosa, se ne allineano
qui dunque alcuni intrisi, qual più qual meno, di superstizione.
In questo ambito appaiono più propriamente annoverabili la loc
la ciama mòrti, detto del canto ritenuto nefasto dell'allocco
e co 'lfiòca su lafoja, al se repara da la goja, dove il
tempo, debitamente sottinteso, è sentito come entità animistica
e in qualche modo da placare. Un'implicazione animistica, anche se giocata
con ironica consapevolezza, si può cogliere nel modo di dire
l' é '1 Signor che reòlta le cuche, quale spiegazione
del rimbombo del tuono. E, sempre in tema di meteorologia, si connota
in modo so spetto anche il detto co I' àsen al stranuda, al
tènp al se ranuda.
Un po' superstiziosa, anche se di sapore "transtagionale", la
massima
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te i mesi co le ère mai sentarse su le piere; così
quelle di portata medica mal de la pèle risana le budèle
o aria de fessura porta a sepultura. Sempre sullo stesso piano, anche
se qui si tratta di superstizione innestata sull'etica, roba robada
no la à durada o la farina del diaul la va in sémola.
Superstiziosi per vocazione d'origine i detti collegati ai vari spiriti
della cultura popolare locale: a 'ndarpar la strada del mazharol, se
'l sènt rider; e così co tu é pers dal mazharol,
òltete na mànega, e infine parché i tosat no ipiande
o no i zhighe, basta 'l babau, al barbazhucon e le strighe. E' da
dire che queste figure-proiezione della coscienza subalterna della cultura
contadina veneta compaiono in modo complessivamente ambiguo: se si avverte
infatti chiaramente nei detti citati la paura di incontrarle, esse vengono
talvolta nominate e quasi invocate in funzione tutelare o vindice nei
confronti di persone o entità culturali avverse in espressioni
come che tu cate (che 'l cate), egnarà 'l mazhàrol o
le strighe o che la redosega (nome di strega) la te/ghe fae la gambarèla..
Scopertamente superstiziose infine certe formule di scongiuro come crose
crosat, cui veniva spesso aggiunta la coda mèrda de gat e cui si
accompagnava talvolta il gesto di segnare per terra col piede o con uno
stecco, delle croci.
Il fatalismo
al pèdo no l'é mai mòrt
L'impronta fatalistica della maggior parte dei proverbi
dà certo la tentazione di darne una lettura esclusiva in chiave
di subalternità. L'applicazione dell'equazione fatalismo-subalternità
può essere peraltro forzosamente semplificativa, a meno che non
si porti il termine subalternità, ben oltre la sua invalsa accezione
socio-culturale, al senso più lato di soggezione alle ragioni per
molteplici aspetti irragionevoli della vita e della morte.
In fondo, se è certo che un proverbio ha avuto la nascita in una
determinata contingenza, rimane incerto, al di là di certi casi
in cui compaiono particolari nozioni lavorative, l'alveo in cui è
nato. I proverbi non sono esclusivo appannaggio delle classi subalterne
come "il popolare" non trova una netta linea di demarcazione
nell'area storicamente subalterna. In questo caso "l'opposizione
popolare-dotto è prevalente rispetto all'opposizione di classe"
(Saintyves, P. 1936, Manuel de folklore, Nourry, Paris, pag. 42) come
il folklore è la cultura delle persone non istruite in una nazione
civilizzata" (ibid., pag. 35).
Ma se l'opposizione popolare-dotto non si colloca meccanicamente sul crinale
che separa i dominanti dai dominati, si può ad ogni modo convenire
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che il grande grembo dei proverbi è stata l'area subalterna; particolarmente
eloquente è a tale proposito l'operazione metalinguistica che un
proverbio popolare fa su un proverbio dotto: volere è potere
(ma 'l poret che 'l vol èsser an sior, l' é 'n mona),
dove si legge anche l'ammonimento, adombrato anche in qualche fiaba locale,
a non tentare di uscire dal proprio status di subalternità.
Ma all'interno del nutrito filone fatalistico, si può parlare di
fatalismo nel fatalismo, come dire le ragioni della soggezione nei rapporti
sociali all'internodi quella universale ai limiti "necessari"
dell'esistenza. Puntuale sembra, a tale proposito, la citazione del proverbio
la justizhia la éde entro de le porte del zhimitèrio,
in cui i due aspetti del fatalismo, da subalternità sociale e da
universalità, vengono implicitamente a confronto e, in particolare,
il primo è risolto egualitariamente nel secondo, in una specie
di "revanchismo della morte". Certo si tratta di consolazione
ma i proverbi, come più in generale tutta la saggezza popolare,
sono anche una forma di consolazione. E la filosofia consolatoria arriva
anche a punte masochistiche: an ciòdo ghe' n cazha n'antro.
C'è ad ogni modo un evidente attraversamento del filone fatalista
da parte del fattore giustizia/ingiustizia: chi che à schèi
vinzh tute le cause; sòldi e amicizhia inorbis la justizhia; e
il già visto la justizhia la é de entro de lepòrte
del zhimitèrio. Ma questo aspetto andrà più pertinentemente
sondato all'interno del tema del potere. Va invece subito aggiunto come
da un nugolo di proverbi trapeli, al di là della situazione e quindi
del registro con cui essi vengono usati, la rassegnazione alla fissità
dei ruoli: la razha no la va su par i talpon; an talpon no 'l fa zharese;
alformai tra drio 'I scàtol; I' aqua la ghe va drio also ghèbo";
quel che fa la simiafa anca 'l simiòt, chi dapita nasse in tèra
sbèca... ché se un cambiamento può avvenire è
in senso deteriore dato che al pèdo no l' é mai mòrt.
Si ritiene alfine necessaria una notazione di tipo strutturale: la stessa
enunciazione icastica per asindeto dà l'impressione dell'automaticità
fatale, di un determinismo che si pone come ineludibile; e la presenza
della rima, che appare connaturata con l'enunciato di molti proverbi,
sembra iscrivere il proverbio nei confini della necessità, conferirgli,
per così dire, la "marca fatale".
Oltre a quelli già citati e a quelli che lo saranno in tema di
potere/giustizia e povertà, si riporta qui una parte della grande
serie di proverbi che, per così dire, perpetuano, attraverso una
rappresentazione statica del mondo, il senso fatalistico e la disposizione
alla rassegnazione che ne consegue; e, quale più quale meno, essi
sono caratterizzati dall'ironia, che talvolta scaturisce dalla stessa
elementarità constatativa delle osservazioni - di apparente assoluta
referenzialità, si potrebbe dire-, talaltra discende dalle operazioni
raziocinanti. E l'ironia è ad un tempo derisione del potere/destino
e coscienza della vanità della lotta contro di esso. Ed ecco il
saggio - non certo accidioso - consiglio di resa di fronte al limite.
Non ci vuol molto infatti a capire
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che l'a qua la gheva drio 'l so ghèbo, che le razhe le ghe va
drio l'aqua, e meno ancora a comprendere che la razha no la va
su par i talpon e che an talpon no 'l fa zharese. E poi è evidente
che dal zhoc se cava (vien) la stèla e che al formai alghe tra
drio 'l scàtol così come naturalmente a/gai al canta,
al can al baia. E che dire allora se non con Bèpo gobo da Casier,
tuti quanti 'l so mistier. E se quasi di concerto la vaca e 'I
vedèl i va senpre d'acordo e quei che fa la simiafa anca 'i simiòt,
bisogna prendersi delle cautele: perché così come la
bolp la pèrzh al pel ma no 'I vizhi, a star co la loc se inpara
a ucar.
Ma tornando a quella che si potrebbe definire una specie di esistenziale
ineluttabilità, ecco alcuni detti concernenti il lavoro: quello
inerente l'attività agricola - e interferente col filone del tempo
- co se à tere al sol se è sojèti a la tenpèsta,
da cui emerge la consapevolezza di una sorta di fatale dicotomia della
condizione contadina; e non è raro sentire aggiunto all'occasione
a ironico rinforzo del detto appena citato quei che Dio manda no l'è
mai massa; e l'amaramente colorito modo di dire, inerente l'emigrazione,
co 'l mus, evidentemente coniato da molti espatriati in Germania, Svizzera
ed Austria per significare la necessità della loro condizione:
si tratta di un umile esempio di koinè linguistica in cui l'esotismo
della voce del verbo tedesco "mussen" ("dovere") assume,
in regime di arricchente ambiguità, i sensi del dialettale mus,
connotando l'amaro destino dell'emigrazione di quello altrettanto amaro
dell'asino, esistenziale portatore di soma.
E ancora in regime di "esistenziale ineluttabilità",
l' é inutile sforzhar la machina quando che no la ol ndar e sangue
dal mur no se ghe 'n cava così come è affatto velleitario
drezharghe le ganbe al gévero; e di fronte all 'ineluttabilità
imminente: se 'l disna, no 'l zhena. Bisognerà poi assumere
che male combinato è il mondo giacché chi che à
dent no à pan e chi che àpan no à dènt, così
come al panpar iso dènt no 'i ghe toca a gnessuni; e allora
meglio talvolta tirar ai mànego drio la manèra. Perché
strani ma come retti da unalegge crudele e oscura si configurano i casi
degli umani: fata la capia, mort (scanpà) l' osèl, sora
le scarpe nove prima o dòpo 'l piove, e tu tien par al spinèl
e tu spanzhpar ai cocon quando non capiti poi che la spanzh da tute le
part.
E se chi che va al mulin ai se infarina c'è poco da illudersi
o da ridere perché drio 'i rìder vien alfrìder
e chi che rit de vèndrepianzh de doménega.
Si può poi cogliere anche un sapore di predestinazione neutrale
in na òlta cor al can, na òlta cor al gévero,
e di predestinazione ingiusta nel già in altra forma citato al
pan destinà par i so dènt no l' é gnessuni che lo
magna e in chi fortuna, chi fortaia; si può leggere poi una
specie di sindrome da fatale accerchiamento in perìcol in mar,
perìcol in tèra, perìcol su la barèla.
E in chiave di fatalismo politico canbia maestro e capèla ma la
musica la é sènpre quela e canbia le stie ma i porzhèi
i é sènpre quei.
Nel settore del fatalismo si possono anche collocare certi modi di dire
veicolanti in modo paradossale il senso dell'inutilità:
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ndar a cior aqua col zhest; portar aqua co le reje, èsser come
quel che à sepulì la rùmola par coparla, farghe le
cape a i garòfoi...
Non bastassero le imposizioni di natura - giacché se no se à
'l gòs se à la gòba e i difèti de natura,
se vive e se more e se i pòrta a sepoltura - bisogna comunque
stare sempre all'erta perché co le riva bisogna vèrderghe
la porta e al mal al vien a chili e 'l va via a onzhe; d'altro canto se
ogni òto di sefa la luna, ogni òto di se ghe 'n sènt
una, inutile è farsi illusioni perché le brute notizhie
le é sènpre vere. E in chiave scopertamente ironica
per chi intenda resistere o non creda più che resistere conti canpa
caval che l'erba cresse e caval no sta morir che l'erba à da venir.
E con ironia mordace tu cret de èsser a caval e no tu à
gnanca alpié su la stafa e no tufa ora a oltarte che i te a magnà
anca ipedoci che tu à su la testa; perché in fondo al
pèdo no 'l dòrme mai (o no l'é mai mòrt).
E inutile sarà ad ogni modo prenderdela con gli ostinati perché
chi che no ol capir ne basto ne brena, no val russarghe la schena ne
darghe la vena.
Esiste anche qui un filone che, moderatamente alternativo, è forse
improprio chiamare antifatalistico, ma che comunque fuoriesce dalla categoria
della staticità:
le montagne le sta ferme, i òmi i camina chi che
no òlsa, boca pòlsa
chi che no se indegna alfa la tegna
chi che lo sa far lo magna còt, chi che no lo sa far lo magna cru
la roba la sta su le brazhe, chi che la vol se lafazhe
chi che ghe 'n fa ghe 'n trova
al can dur no ghe toca mai la carne nessun nas maèstro
impara l'arte e métela da parte
a forzha de bàter zhiede anca 'lfèr
se a usà anca 'i mus a magnar zhéole
quanto che l'aqua la toca '1 cul se inpara a nodar
le fortune le va a quei che le merita e le speazhade a chi che le ciapa
e i già citati in tema di potere:
no l' é mai pan suficiente par stroparghe la boca al maldicènte
miseria, vutu panada? ...se tu me da 'i cuciar
Le massime fatalistiche, generalmente pregne di uno stoicismo
consolatorio, si presentano talora col registro dell'ironico cinismo:
così la justizhia la é de entro de le porte del zhimitèrio
e solamente co son mòrti son tuti conpagni.
Ma non mancano, seppur rari, dei rigurgiti di sapore epicureo: se chi
che more 'l mondo assa e chi che rèsta se la spassa, intant andon
par orden e dopo o che more i' òrbo o chi che/o mena; e inoltre
scarpe gròsse e gòtopien, ciapa la vita come che la vien.
19
Ma l'ironia spinge anche ad acuizioni di tipo masochista:
canta che te passa; par che 'n poret magne na pita o che i'
malà lu o che l' é malada e/a; Corpus Domini Nostri Jesu
Christi, poreti e anca malvisti. E l'ironia arriva anche al masochismo
della rassegnazione nel già citato an ciòdo ghe 'n cazha
n'antro.
Il potere
la leje la é conpa gnu par tuti ma se no tu
à la onbrèla tu ciapa la piova
La diffidenza per il potere e per la giustizia, almeno per
quella che di questo è emanazione, è una costante della
cultura popolare e alla giustizia ufficiale si deve qui pensare, giacché
a quella spicciola di base appaiono ben attagliarsi detti come il corrente
pragmatico na aita e na basafa na galiva.
Nulla ha pertanto di singolare la constatazione dell'emergenza in molti
proverbi, rispetto ai temi succitati, di un atteggiamento di sfiducia
e sospetto, che si spinge a volte ai limiti del cinismo e che è
ad ogni modo generalmente inquadrabile anche nel filone del fatalismo.
Tale riscontro non deve peraltro far scivolare per contrasto nella facile
equazione subalternità-senso di giustizia. Spesso infatti l'interpretazione
del potere dal versante popolare ha luogo in chiave di ricerca dì
una collocazione clientelare. Né di questo d'altronde sì
può fare una colpa al popolano, dato che una valutazione normalmente
culturale del piano morale si può fare laddove si sia sedimentato,
o per elaborazione teorica o per sperimentazione diretta, un concetto
di "giusto potere". E questo non può evidentemente avvenire
quando le valutazioni hanno luogo in regime di squilibrio dei rapporti
di forza e in particolare dal versante di chi una condizione di soggezione,
quasi per tradizione fatale, ha sempre o spesso vissuto.
E' ad ogni modo un fatto che numerosissimi sono i proverbi che attaccano
la "giustizia ingiusta", ad essa in fondo sottomettendosi per
tragica assuefazione in un esemplare (il termine ha qui valenza culturale
e non certo politica) connubio di senso del sopruso e fatalismo. E nei
proverbi sulla giustizia si annida, e neanche tanto mimetizzata, la virulenza
anti-potere. Perché se chi che pol pi pianzh manco, chi che
à schèi vinzh tute le cause e schèi e amicizhia i
inorbis la justizhia, così come chi che à 'lpodestà
da la soa l'à in cui i sbiri: e allora la ièje la é
conpagna par tuti ma se no tu à la onbrèla tu cìapa
lapiova; e d'altro canto se can no magna can, aipes grant magna '1 cen
e se canbia maèstro e capèla ma la musica la é senpre
quela così come, in versione più colorita, canbia le stie
ma iporzhèi i é senpre quei e sinistra e dèstra,
tuta na menèstra; giacché co i é là i é
tuti conpagni.
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La legge nei proverbi appare uguale per tutti nel senso dell'intemperia
e per chi parla è intemperia da cui ripararsi - come di riscontro,
per traslazione terminologica dal campo della religione, sènzha
santi no se va in paradiso.
Dall'analisi dei proverbi emerge poi con netta evidenza, anche statistica,
un'individuazione di collateralità di potere politico e religione,
anche se gli enunciati non ne indicano di solito apertamente la collusione.
Il potere politico viene spesso poi individuato in termini localistici,
nella comare (surrogata progressivamente dalla figura del dottore), nel
podestà, nell'avvocato e nel prete, quali detentori del potere
civico o mediatori - e questo vale più propriamente per il prete
- rispetto alla giustizia in senso più lato e, nella fattispecie,
forse anche astratto.
D'altro canto anche il nutrito filone dei proverbi dissacratori si presta
ad essere letto come forma di resistenza ad una manifestazione del potere.
Così se, come già detto, can no magna can e al pes grant
magna '1 cèn, la comare, al prète e i sbiri i' é
da tegnerseli boni e chi che à 'l podestà da la soa l'a
in cul i sbiri; e atomo a la crose del canpanil gira i sbiri e coi prèti
e coi sbiri no bisogna mai intrigarse e no state intrigar coi preti, no
sta maltratar i veci; ma, d'altro canto a la comare (al dotor), al prete
e a l'avocato dighe sènpre la verità che tu sarà
beato anche se i avocati i vif de carne rabiada, i dotori de carne malada,
i prèti de carne morta.... e pur se è nozione comune
che certe bestie nella stalla le magna come i avocati e le rènzh
come i prèti.
Ma non c'è comunque una totale ammissione di inferiorità
perché il potere è talvolta visto anche come paludamento
della mediocrità: cose vestis an pal salta fòra an gardenal,
co se vestis nafassina salta fòra na regina.
Come premesso, con un'operazione semplificatoria si potrebbe riferire
questo atteggiamento di opposizione netta e caustica a quanto si configura
come potere ufficiale ad un senso di integrità giocato contro l'ingiustizia.
Probabilmente si può in termini generali parlare di risposta alla
secolare condizione di asservimento, di notificazione di presenza di fronte
alla consuetudine col sopruso, se non anche, talvolta, di assuefazione
ad esso. Si direbbe anzi che la dimestichezza con la prevaricazione altrui,
vissuta fatalisticamente come insuperabile in termini politici, e con
la soggezione propria abbia indotto una specie di filosofia delle soluzioni
obbligate, delle vie traverse d'uscita o di sussistenza. Pochissimi sono
infatti i proverbi che veicolano un'opposizione radicale al potere e che
vagheggiano velatamente un potere alternativo e sembrano questi ad ogni
modo travisamenti di colonizzazioni ideologiche e pertanto simili nella
loro genesi a quelli che, per contro, portano all'accettazione rassegnata
sulla scia di un'assunzione funzionale al potere della catechesi evangelica:
sotto questo profilo il proverbio mèjo paron de na sèssola
che secondo su na nave sarebbe, malgrado la differenza contenutistica,
assai vicino a al Signor ricama e noi vedon i grop.
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La risposta complessiva della sapienza proverbiale ad un potere prevaricatore
sembra porsi, oltre che in chiave di censura, in chiave propedeutica quale
soluzione parziale di fronte ad uno scoglio ineludibile, in chiave di
aggiramento o imbonimento, che si potrebbero definire anche "clientelari"
se non ci fosse il pericolo di creare un parallelismo col clientelismo
che ai giorni nostri viene con tutta disinvoltura praticato al di fuori
di condizioni di stringente necessità. Certo anche oggi, oltre
alle molte già citate, possono avere vigore massime come chi
lifa no li magna, chi li trova fati li magna o quela che fila porta na
camisa, queia che no fila la ghe nporta doi. Ma se pure anche ai nostri
tempi il patteggiamento con un potere bacato può configurarsi talvolta
come ineluttabile, molto meno di ieri esso può avere l'attenuante
della necessità economica e, ancor meno, quella della deprivazione
culturale.
Ma ecco anche abbattersi sul potere il sarcasmo nel già citato
co se vestis an pal salta fòra 'n gardenal, co se vestis na
fasina salta fòra na regina; e il sarcasmo fa la sua parte
anche in una curiosa, e pur sempre irremidiabilmente fatalistica, inversione
delle parti. Perché con gli occhi del potere no l' é
mai pan suficiente pur stroparghe la boca al maldicènte e miseria,
vutupanada?... se tu me da 'i cuciar!.
La povertà
pitòst che èsser poreti l' é mèjo
no ver gnent
Se il fatalismo alligna sul senso di un potere subito che
alimenta la consapevolezza dell'ingiustizia, il tutto ha per denominatore
comune la coscienza della povertà, generalmente sentita come destino.
C'è infatti in vari proverbi una intersec azione più o meno
sottile dei temi del fatalismo, del potere, dell'ingiustizia e della povertà:
così nel già citato proverbio a coda: volere è
potere (ma 'lporet che 'l vol èsser an sior, I' é 'n mona),
E, di seguito, se al mondo l' é mal crivelà: chi che copaporzhèl
e chi che no ghe n' à,panzha piena no pensa a quela voda e quel
che pensa a iporeti l'à 'ncora da nàsser; anzi poreti e
balegadi. E così se ròbafa ròba e schèifa
schèi e co gnent no se à gnent, I' é tre sòrt
de viver: viveron, viveret e viverat; giacché al cònt al
cor sul piat del magnar e l'ultima tenpèsta la é su la caljera.
E lo spettacolo della propria povertà "digerita" come
ingiustizia si cristallizza, attraverso un'autoironia che traligna nel
masochismo, in alcune massime di sapore picaresco. Mal 'humus della burla
indiscriminata e quindi della burloneria in forma riflessiva è
indice, secondo varie tesi psicanalitiche, della più cupa disperazione.
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E allora per amara comicità ecco che pur chi che se intende
e parchi che no se intende se tu à la camesa curta i te vede lefazhende
e vàrdelo ben, vàrdelo tutl'onporetquantchel'ébrute
Corpus Domini Nostri Jesu Christi, poreti e anca malvisti; e ancora par
che 'n poret magne na pita o che I' é malà lu o che l' é
malada ela; e analogo al precedente co se met la roba dafèsta ogni
di o che se é mati o che no ghe n' épi. E allora pitòst
che èsser poreti l'é mèjo no ver gnent. E in associazione
colle peculiarità stagionali: I' istà i' é la cusina
dei poréti.
Ma ecco dall'amarezza per la povertà ingiusta, un rigurgito d'orgoglio
che chiama in causa la "giustizia giusta": poreti ma galantòmi
e a èsserporeti no l' é 'n disonor; e in uno stizzito
inquadramento nell 'ortodossia religiosa: chi che no sa par chi pregar
preghe par chi che no copa porzhèl. E infine, con un evidente
tralignamento in un fatalismo paradossale che vuol ancorare "d'ufficio"
ad una "propria" condizione: co un al se met afar capèi,
i nas tuti sènzha tèsta.
La morte
e sperar de far na bòna mòrt... in salute
Chi vien e chi va: su la tèra se passa e no se
rèsta. Al di là di questo esemplare, che si può
qualificare raro e in cui, in registro di filosofico distacco, l'essere
si staglia "esistenzialisticamente" sullo sfondo del "non
essere", - autenticizzandosi, è forse il caso di dire in chiave
filosofica, in "essere per la morte" - la maggior parte dei
proverbi riguardanti l'argomento è improntata, si direbbe per ritorsione,
ad un tenace attaccamento alla vita: alpèdo l'épar chi che
la ghe toca, ndove che no se vol ndar toca corer, chi che vive ma gnu
pan e chi che more à so dan e chi che more 'i mondo assa e chi
che rèsta se la spassa. Attaccamento alla vita che culmina in quest'ultima
massima in una considerazione di tipo epicureo ma che ha altrove la "rituale",
pur se rarefatta, smentita: passà '1 canton, finida la passion
e chi che sta mèjo l' é chi che i' mort... ma attaccamento
alla vita che ha come riscontro ideologico lo scetticismo sull'aldilà
e sul valore propiziatorio della pratica religiosa: i morti no i camina
i morti no parla; da pur de là no se àmai vist tornar gnessun
e orazhion sul cavazhal no lafa né ben né mal; ma anche
lo scetticismo di queste massime trova una, seppur timida smentita, perché
sènzha santi no se va in paradiso, anche se questo proverbio,
come già visto, si presta ad essere utilizzato e viene di fatto
utilizzato con metaforica ironia per censurare o giustificare, a seconda
dell'interesse del soggetto parlante, le pratiche clientelari di questo
mondo.
Lugubremente colorito e ancora in sintonia con la prevalente impronta
di terrenità è il rapporto col concetto di giustizia: co
son morti son tuti conpagni e la justizhia la é de entro de le
pòrte del zhimitèrio.
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La morte, quasi forzata riappacificazione con la vita, è qui vissuta,
come precedentemente già sottolineato, in termini di revanchismo
misero: non compare un aldilà in cui i giusti ricevano un premio,
i defraudati compensazione e gli ingiusti punizione ma semplicemente la
morte come cesura appiattente, come orizzonte egualitante per annichilimento.
E, in una rastremazione rassegnata verso il basso, non affiorano neppure
i motivi di consolazione, altrove fecondi, del buon ricordo o della buona
fama. Ma non si può neanche dire che la morte sia sempre la giustizia
dei miseri, neanch'essa insomma fa sempre il suo dovere: la mòrt
dei lof è certo fortuna de la piégora ma capita anche che
co se é contènti se more e, peggio, che more i pi bòni
e rèsta i pi briconi.
Non solo: in uno dei pochi proverbi che presentano la morte in termini
di formale ortodossia religiosa, l'aldilà non compare come luogo
di compensazione per le ingiustizie subite: i siori 'i paradiso de
qua e quel par de là i se lo conpra; uno scandalo delle indulgenze
in versione perpetua ma in chiave di rassegnata, amara e superstiziosa
accettazione.... e sperar al manco de far na bòna mòrt,
in salute, par che i'é 'n mestier che 'i ghe olfat anca quel là.
Il tempo
al tènp, al cui e a i muti no se ghe comanda
Anche il tempo è visto in fondo come una forma di
potere e, per lo più, di potere ingiusto e anche tirannico. Cade
qui opportunamente in situazione, a rinforzo di quello citato in apertura,
il proverbio, impregnato di fatalistica impotenza, co se à tère
a la piova se é sojèti a la tenpèsta.
La civiltà contadina misurava i suoi passi sull'andamento del tempo
meteorologico e, per esperienza di scansione stagionale, sul tempo diurno,
a partire dall'apparentemente elementare e invece sottile al soi al magna
le ore. E il peso della religione si attesta anche qui, come presenza
almeno formale, attraverso la correlazione degli eventi naturali al calendario
liturgico. Si può isolare un nutrito lotto di proverbi che commisurano
la durata del dì al tempo dell'anno designato attraverso le feste
religiose:
Santa Lucia i' é 'l di pi curt che ghe sia
da San Tomìo al soi al pianta 'n pal e 'i torna indrio
da Nadal alpas de 'n gai, a Pasqueta meda oreta,
a San Biasi do ore squasi
da la Zhiriola al sol tramonta la montagnola (quest'ultimo fa registrare
la comparsa di un elemento di paesaggio locale, le colline subalpine della
Vallata delle Prealpi Trevigiane, e ha pertanto valore assai circoscritto).
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Alcuni altri proverbi mettono in relazione il tempo diurno con la meteorologia:
le jornade le se slònga e 'l fret al se sgranda
no ienfret se le nòt no le se slònga e no ien calt se i
di no i se scurta
piova a medodì piova tut al di
a le nove de matina o che 'l s-ciaris o che 'lpiof
Alcuni proverbi, per fornire previsioni meteorologiche,
si rifanno all'osservazione delle nubi e di altri fenomeni "celesti":
quando che le nèole lefa pan o che la ien ancoi o che la ien
doman quando che le nèole le fa lana la piova no la é tant
lontana se de dioba al sol al va do col capèl in tèsta vien
piova prima che vegne fèsta
se 'l piof la doménega matina tuta la setimana monesina a/primo
tòn de primavera, se 'l ien a matina ciol su 'l sachet e va afarina
(polènta pochetina); se '1 ien a sera, polenta pien caljera (in
analogia col più famoso detto sulle faville del panevin)
se le nèole le va verso 'i mar ciol su la sapa e va sul canp
a sapar la luna setenbrina par sète mesi la ghe indovina
aprile: i primi tré brilanti, quaranta de somiljanti
Di lettura solo locale, per il riferimento geografico (canal
= Val Lapisina) e toponomastico (Saraval = Serravalle) il proverbio:
piova dal canal, no la pasa Saraval.
E a quest'ultimo analogo:
piova del Canséi no la bagna 'n zhei
Assai colorite alcune massime che correlano comportamenti
animali ad imminenti cambiamenti atmosferici:
quando che l'àsen al stranuda al tènp al se ranuda (al
se muda)
quando che la vaca la varda 'l balcon al tènp al sefa bòn
Ma a costituire il grande stuolo di questo filone sono i
proverbi che correlano semplicemente le feste religiose a situazioni meteorologiche
o ad eventi e scadenze dell'anno vegetativo e lavorativo:
San Paulo ciaro, Zhiriòla scura, de l'inverno no von pi paura
San Paulo scur, Zhiriòla solaròla, de l'inverno son ormai
fòra da San Tizhian se injazha la coda del can da San Tizhian al
ghe pura fòra i dènt al can
da San Tizhian na gran frescura, da San Lorènzh na gran calura,
l'uno e l'altro poco 'i dura se 'l piof a la Sènsa pur quaranta
di no se sta sènzha
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o da le palme o da le òvu no l'é ano che no 'lpiova Pasqua
alta alta, aqua bassa bassa al di de San Martin se inbriaga 'i grundo
e 'l picenin da San Ròco le nosèle le va dal bròco
da San Burtolomìo ciol su la ganba e va con Dio (dove la ganba
è la canna del granoturco)
da San Simon al manegon, da i Santi le màneghe e anca i guanti
Esiste, ma è assai più rarefatta, una correlazione
che si potrebbe definire più laica ai mesi dell'anno o alle stagioni:
februro, curt e amaro
murzh intens, aprii penzh april inpianta 'lfienil
aprii i primi tré brilanti, quaranta de somiljanti fioris in april
anca 'l mànego del budil
tenpèsta de majo, seca gnu de agosto
piova de giun no la ghefu mal a gnessun
lapiova de istà, beati chi che la à (correlato talvolta
a la piova de inverno
che la vae a l'inferno)
agosto menarosto
E correlate alle stravaganze del tempo le due massime colorite,
la seconda surrealisticamente travisata per iperbole:
co tu à pan e legne, assa pura che la vegne
assa che'l piove fin che le ànere le bècu le stele
Il lavoro
co 'l sol tramonta al poltron se infrontu
I proverbi che riguardano il lavoro sono spesso collegati
al calendario liturgico; interferiscono inoltre, per la loro stessa natura,
col filone economico e sconfinano talvolta anche in quello morale. E in
questi filoni, più che in altri, emerge in chiave implicita o direttamente
esplicita la funzione imperativa: è nella loro stessa ragione di
nascere il prescrivere un tempo o un modo di lavoro o un comportamento
in relazione ad una difficoltà operativa o ad un problema di portata
generale. Fermo purtroppo restando che co se à tère a
lapiovu se è sojèti a la tenpèsta, co 'l cuc canta,
al da far no 'i manca e allora vestìssete talpon, despojete poltron
e anche di buonora perché bonora Dio l'àfata e non sia
pertanto che co 'I sol tramontu, al poltron se infronta (se inpronta).
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E la stessa vite chiama alla potatura con un'espressione utilizzabile
a mo' di indovinello: àsseme povera, te farò rico.
E d'altro canto si deve sapere che l'é mèjo laorar in
culènt e sut che in cressènt e moi e che aprii inpiuntu
'l fienil. E così chi che sémena vanti Sant'Andrea,
ghe 'n vien aimanco an suc pur culvéa e da San Bartolomìo
ciol su la gunba (la cana) e va con Dio, che rammenta che se il granoturco
non è per allora maturato non maturerà più comunque;
e nello stesso settore fin che la panòcia no l'é secu,
no se leva 'i penazh. Così per le nocciole bisognerà
tenere a mente che da San Ròco le nosèle le va dal bròco;
e così esortano a tenere i tempi: a San Martin do tèrzh
delfien e 'n quarto del vin e da sant'Isèpo, i cavalier sote 'i
lèto; e sempre in tema di bachicoltura, chi voi na bona galetu,
la mete via garbetu.
A generale prescrizione per la piantagione, in un'altra suggestiva commistione
di agricoltura e religione, che le piante le sènte l'Ave Maria,
cioè che i piedi delle piantine non siano collocati troppo in profondità.;
e, sempre in tema di piantagione, la vic in tel sas, l' ort in tel
grus.
E in tema di mucche sarà da tener bene a mente che chi che sfruta
massa la vucu sote 'i car al la molzh pur i còrni, che braure e
vache vèce ghe rèstu in man a i cojoni e che la bestia
va ben osservata prima dell'acquisto: alta de ganbu, suta de panzhu,
bòna da lat e cadigu (cadicia)fina, bòna da lat.
Per chi poi abbia soverchie tentazioni venatorie: ai restèl
tira dentro, al s-ciòp tirufòra.
E una valutazione/prescrizione per la donna: quando che 'i sorc al
mostra 'i muso, la brava dòna la fila 'i fuso.
Ma attenzione: se iaorofatparfòrzhu no 'i vai nu scòrzha
e ad ogni modo al luoro ben fut no i' é mai pagà assèi,
luorar presto e ben no se convien e un alfa pur un, dai ifa pur tre, ma
in pi che se é manco se fa, perché alla fine fare desfur
I' é tut un laorar. E la volontà di lavorare dà
prova di sè attraverso l'occhio, giacché i mistier i
épar tèra.
E per quanto concerne il rapporto pianura/montagna lòda 'i monte
ma tiente 'l pian e onora la canpugna ma tiente la montagna ma anche:
in montagna, chi che no ghe 'n porta no ghe 'n magna.
Per quanto poi concerne gli attrezzi - non è evidentemente solo
questione di soramànego: se ai secio afòrzhu de 'ndur
sul pos al assa 'i mànego, non sarà problematico rimpiazzarlo
perché Jaorar col ienc i' é 'ipi bel mistier che ghe
sie. Ed è da rammentare anche che al vussor i'à laponta
de argènto, la vanga la pontu de òro. E frattanto inpura
l'arte e métela da parte giacché val pila pràtica
che
la gràmaticu; ma d'altro canto se no se àpràtica
ghe ol studiar la gràmatica... e in continuità con un
certo rispetto "pragmatico" per l'apprendimento culturale: o
pena o schena e senza lavagna no se magna.
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La caccia e l'uccellagione
l'è mèjo cior su i archet e cunbiar zhiesa
La discreta consistenza e l'uso comune di molte espressioni
derivanti dall'attività venatoria sembra riferibile al fatto che
il suo esercizio valeva in passato da complemento al lavoro dei campi,
rapporto ben evidente nella già citata massima cautelativa al
restèi al tira dentro, al s-ciòp al tirafòra.
E se molti proverbi e modi dire nati con la caccia erano usati già
in passato in senso traslato, vieppiù hanno consolidato questa
funzione d'uso con lo scemare progressivo del valore esistenziale ditale
attività. Modi di dire come i'é mèjo cior su i
archet e canbiur zhiesa, al salta da 'n archet a quei'altro, ndur a meter
do le viscade, non sono quasi più usati in collegamento con
la funzione d'origine, anche perché collegati a pratiche oggi severamente
proibite. Ad essere normalmente usato anche prima dell'interdizione in
modo traslato era in particolare il modo di dire, direttamente concepito
in chiave metaforica, l' é 'n archét, per dire di
persona instabile, detto analogo nel senso a quello, desunto dalla cultura
vinicola e vero similmente di matrice veneziana, ai va e 'l vienfu
'i vin de Zhipro. Sempre nella stessa direzione il modo di dire robur
via (nel senso di riuscire a far perder le tracce) è oggi applicato
a certa abilità di conduzione del vivere. E in senso traslato vengono
ormai per lo più usati i proverbi na òlta cor al can
na òita cor al gévero, al gévero al sta 'ndove che
no se cret, al luora come 'n brac, no 'l sa né trar né mòrder.
Il vino
a chi che no ol béver vin Dio ghe cioe anca
l'aqua
Il vino fruisce nella tradizione proverbiale di una vera
e propria litania consacratoria. Al di làdi qualche modo di dire
diversamente conte stualizzabile, non c'è voce che contro di esso
nettamente si levi o si deve ad ogni modo supporre che essa sia stata
immantinente censurata o non abbia comunque fatto a tempo a sedimentarsi
in un detto sentenzioso. Ed è questo un caso raro nel campo proverbiale,
dove, dato un tema, si può certo assistere alla netta prevalenza
di una posizione, ma di solito in un regime di scoperta contraddittorietà.
Si può avanzare la supposizione che in una realtà in cui
la fatica e le tensioni erano spesso spasmodiche il vino venisse quasi
"naturalmente"
- e il termine vale per prerazionalmente - accettato come mezzo di lenimento,
oltre che di "sostegno fisico". Ben oltre la subdola e contraddittoria
mentalità odierna, per cui, sulla scia della pubblicità,
l'uomo che beve è circondato da
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un alone di virilità mentre l'alcoolizzato è dai più
ostracizzato, nella società contadina il bere sembra fatalisticamente
accettato quasi come umano bisogno e di concerto colui che ne era divenuto
più che altri vittima, non era di solito particolarmente disprezzato
e comunque relegato in disparte. Lo stesso modo di dire ver la gropola
sul stòmego, uno dei pochi che nel suo uso ambiguo può
essere rivolto contro l'alcol, è spesso proposto in chiave dileggio
o dispregio ma anche - e quasi altrettanto comunemente - in chiave di
assunzione/dimostrazione di virilità.
Certo la sequela di massime laudative si configura come un'arringa in
difesa della popolare bevanda.
Se l' aquu la marzhis i pai e pitòst che spànder vin
l' é mèjo che more 'i prète, a chi che no ol béver
vin Dio ghe cioe anca l'aqua. Giacché na tiruda de bocalla guuris
ogni male gòtopien e capèl in tèsta, manda 'lmèdego
a farfèsta e àgreme de vic e pìrole de galina manda
via la medésinu; e così brodo depit, siròp de vic.
Non solo: scarpa còmoda e gòtopien, cioi le ròbe
come che le vien. E anche se detti come al beffa na loru o i'àfut
la gropolu sul stòmego non sono certo sempre usati in senso lusinghiero,
meglio talvolta, tutto sommato, béver fa na lora e far la gropola
tel stòmego e a sentir udor de vin, èsser come 'I can drio
'i gévero perché oltre tutto al vin fa ganba e al bòn
vin fa bòn sangue. E nelle congiunture stagionali non bisognerà
disperare perché al di de San Martin se assa l' aqua e se bef
ai vin e sempre da San Martin se inbriaga al grando e 'i picenin e
poi da i Santi secur la botpur béver in tanti. Perché
chi che dis che 'l vinfa mai, l'é 'non da ospedai. E come
ultima medicina quando che la barba la tra al grisin, ussa lafémena
e bàtete al vin e così su la sessantina, assa lafémena
e va in cantina, perché ai vin l'è 'l lut de i vèci.
Ché poi a vin bon no ocore frasca. E se al vin l' é
bòn co 'l passu 'i gòto, mèdo no io ol gnuncu le
fémene e l'ultimo gota l'é quei che inciòca... e
implorare poi bianc e negro méneme a casa.
Di precauzioni, poche e improntate o alla salute del salutifero liquore:
al pèdofior l'é quel del vin; o alle sue sociali prerogative:
pèrs al vin, pèrsi i umighi.
Si cobra poi spesso di epicità, quasi si trattasse di una grande
impresa, l'ubriacatura, come emerge da numerosi e coloriti modi di dire,
di uso diffuso e in continuo conio.
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Il bianco e il nero
chi che more 'l mondo assa e chi che rèsta se
la spassa
pussà 'i canton,finida la passion
La cultura popolare: "agglomerato indigesto"
la definì acutamente Gramsci, quale assunzione diversificata e
funzionale della cultura "alta" in relazione con modi di pensare
direttamente scaturiti dall'esperienza quotidiana.
La diversificazione e la contraddittorietà che ne derivano, nascendo
i proverbi da lacerti di interpretazione del mondo in parte sorgivi in
parte imitativi, sembrerebbero dover essere e rimanere generalmente inconsapevoli.
Dalla congerie dei punti di vista che emergono dalle espressioni proverbiali,
quali propri, quali mutuati, sembra tuttavia far talvolta breccia la consapevolezza
di una realtà contraddittoria, pur nella fissità della condizione
subalterna. Certo, come si è visto, si sono conformati sedimenti
più compatti attraverso i filoni del fatalismo, della povertà
e di quello, generalmente trasversale, della diffidenza. E nel complesso
gli aspetti della contraddittorietà e dell'ambiguità sono
le punte d'iceberg della certezza.
Si potrebbe in fondo definire il proverbio il punto forte di un pensiero
che si sente complessivamente debole: in tale direzione il retaggio della
subalternità si giocherebbe sia in chiave di fierezza sia in chiave
di senso di inferiorità. E anche se la maggior parte dei proverbi
si impone culminativamente "in situazione" col crisma della
lapidaria indiscutibilità, sembra emergere dal loro complesso una
certa coscienza di relativismo culturale, un senso di fluidità
che, intrisa di fatalismo, si caratterizza comunque come negativa. E valgano
in questa ragione le massime se no tu mor de cunu te 'n sucede sènpre
una o - peggio - ulpèdo no i' é mai mòrt. Ma
per quanto concerne le massime che risultano, pure per arbitraria giustapposizione,
scopertamente contraddittorie, eccone una serie eloquente: chi che
vive mugna pan e chi che more à so dan e chi che more 'l mondo
usa e chi che rèsta se la spassa ma anche pasà 'I canton,
fini da lapassion e chi che sta mèjo i' é chi che i' mort;
e altresì co son morti son tati conpagni e la justizia la é
de entro de le porte dei zhimitèrio contro i siori i à 'l
paradiso de qua e quel par de là i se lo conpra.
Ma al di là di certo più o meno consapevole relativismo
culturale, nella contraddittorietà di molti proverbi e nell'ambiguità
che ne deriva, e che va qui ben oltre la copertura dei temi scabrosi di
matrice sessuale, si può leggere anche una certa tendenza alla
mimetizzazzione e quasi anche un lasciar aperta una direttrice di fuga.
In questo modo si può leggere certa oppositività di alcune
coppie di
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proverbi: a la comare, al prete e a l'uvocato, dighe
sènpre la verità che tu sarà beato e, detto di
mucche da latte, le mugna fA i avocAti e le rènzhfa i prèti.
Così per de riva indo ogni santo 'l juta e per jùtete
che 'I Signor te juta; e per la massima quel che Dio manda no l'é
mai massa e per quella più ortodossa quel che Dio manda
l'é sènpre tAnt.
E ancora val pi la pràtica che la gramàtica; ma d'altro
canto se no se à pràtica ghe al studiur la gramàtica.
Così come la ròba te 'n canton no la perde mai stajon
ma chi che sparagna la gata magna.
E di seguito in tema di previsioni meteorologiche, terreno anche per gli
specialisti odierni assai lubrico: San Paulo ciaro, Zhiriòla
scura, de i' inverno no von pi paura ma anche San Paulo scur, Zhiriòia
solaròla, de l'inverno san ormai fòra.
E fra le massime del lavoro se un alfa pur un, dai ifapar tre, si
può anche sentenziare che in pi che se é manco se fa.
Così per quanto concerne il rapporto pianura/montagna onora la
canpa gnu ma tiente la montagna ma anche loda 'i monte ma tiente 'I pian
e in montagna e chi che no ghe 'nporta no ghe 'n mugna.
E una certa frizione si può cogliere anche nel colorito metalinguismo
dei due seguenti proverbi: vozhe de popolo vozhe de Dio e i nostri
vèci supèrbi i ne à magnà la roba e i ne à
ussà i provèrbi; da intendersi, quest'ultimo, come dichiarazione
difensiva di posteri di fronte alla sapienza, sentita come un po' invadente,
dei nostri vecchi.
Ma, come già detto, nel suo assetto composito un sistema paremiologico
si configura come una struttura complessivamente unitaria: se certo ha
in sé delle contraddizioni - da cui non sono comunque esenti sistemi
più alti elaborati dall'uomo - queste non sono tali da alterarne
la sostanza profonda.
NOTA
I proverbi analizzati, al di là di quelli direttamenti
raccolti nella Vallata delle Prealpi
Trevigiane (denominazione che vuol qui geograficamente riferirsi alla
valle che va da
Longhere a Combai), sono stati tratti da: Peruch Paolo, Contributo allo
studio dei proverbi del Veneto con particolare riguardo al Comune di Vittorio
(tesi di laurea), Padova, A. A. 1963-64
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