Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°13 - 2001 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane
LUCIANO CECCHINEL

PROVERBI E MODI DI DIRE DELLA VALLATA DELLE PREALPI TREVIGIANE E DEL VITTORIESE


Alcuni filoni tematici

All'interno del generale sistema dei proverbi si possono ritagliare molti sottosistemi e il discorso vale, pur se non all'infinito, anche per i singoli sottosistemi. Ognuno di essi è una chiave, fabbricata dagli uomini in millenni
- giacché il sistema paremiologico affonda vertiginosamente nelle profondità di altri sistemi linguistici contemporanei o trascorsi - una chiave destinata ad aprire alcuni segreti del mondo, a stabilire connessioni, più o meno misteriose, tra le cose e gli esseri che sono sulla terra. I detti narrano dunque la lunga storia d'una ricerca segreta d'intesa tra la mente dell'uomo e la realtà, ricerca che non ha avuto solo motivazioni pratiche ma ha investito ogni zona, fino alle più alte, in cui si muove la vita.
Pertanto frugare nella "sapienza del passato" non ha solo un senso nostalgico, può anzi permettere, come già detto, di scoprire quanto di "esistenzialmente strutturale" rischia d'essere dimenticato o calpestato. Si ècomunque di fronte a un tesoro comune, elaborato lungamente nel tempo, affinato dall'esperienza, che non si ricostituisce in poche generazioni: ègiusto accoglierlo dalle innumerevoli che ci hanno preceduto, nelle sue nozioni e nelle sue sfumature. Anche se parte del suo fardello di sofferenze e affetti ci rimarrà sempre segreto, è comunque in questo senso che può essere inteso il proverbio: come elemento della grande funzione interpretativa del mondo costruita dalla filosofia popolare. Sulla base di questi presupposti un sistema paremiologico si configura, pur in un assetto composito, come una struttura complessivamente unitaria: e se ha in sé molte contraddizioni, da queste non sono esenti altri sistemi più alti elaborati dall'uomo.


LUCIANO CECCHINEL. Insegnante di materie letterarie, ha pubblicato articoli e studi su materiale folklorico e sulle culture subalterne. E' autore di alcune raccolte di poesie in dialetto alto-trevigiano.

9

La selezione in capitoli tematici è stata difficoltosa e rimane, in linea con le riserve fin dall'inizio avanzate, discutibile; presenta certo meno margini di opinabilità l'analisi dell'uso e degli aspetti formali dei proverbi; in certi casi, pure abbastanza contenuti, ci si è poi trovati di fronte a massime che apparivano acquisizione diretta in dialetto di altre di diffusione più larga.
Sulla scia di quanto detto in sede di introduzione, è altresì da ribadire che dal punto di vista del senso, rispetto ad un diritto di nascita, di natura concretamente denotativa, si impone progressivamente nei proverbi un diritto d'uso di natura spesso connotativa che ne privilegia la funzione allusiva e quindi intrinsecamente ironica. Certi proverbi possono pertanto essere incasellati secondo il senso d'origine o secondo il loro senso d'uso. Si pensi a modi di dire come no 'l sa ne trar ne mòrder o come na òlta cor al can na olta cor al gévero, che per marchio d'origine sono da classificare come venatori ma che vengono comunemente applicati al di fuori del loro alveo di nascita per qualificare aspetti comuni dell'esistenza. Oppure a un proverbio come i ciòdi in tel rore i é come i schèi in te le man de i prèti, la cui nascita potrebbe essere riferita a ragioni coloritamente artigianali ma che è intriso di acredine anticlericale e che in questo senso ("capovolto?) viene oggi solamente usato.
Si è qui scelto come criterio "parziale" quello di assemblare i proverbi attinenti alcuni settori che appaiono "per emergenza" più peculiari della cultura locale e di dare meno spazio a quelli che si possono classificare più generalmente e genericamente morali, che sono per lo più simili a quelli usati anche in altre culture e comunque in più vaste aree di raccolta.

La classificazione si sedimenta qui nell'ordine nei seguenti temi: la memoria, la religione, la superstizione, il fatalismo, il potere, la povertà, la morte, il tempo, il lavoro, il vino, la caccia e 1 'uccellagione; compare alla fine un breve comparto sui proverbi contraddittori.
È da dire che la collazione ha altresì avuto due direzioni: una prima, impostasi per emergenza di contenuti dalla congerie stessa dei proverbi analizzati, è consistita nella definizione dei filoni; una seconda, per così dire di rifinitura, è stata richiamata da riferimenti di arrotondamento e collegamento, sulla via dell'approfondimento di ogni specifica tematica.


La memoria

pitòst che pèrder na usanzha l' é mèjo brusar an paese

In certe manifestazioni della cultura popolare si è potuto leggere un atteggiamento di ripulsa delle vestigia della propria subalternità. Il fenomeno è stato oltre tutto riscontrabile, almeno fino a poco tempo fa, nella fuga dalle case rustiche, segni più visibili e scomodi della cultura in estinzione, ma lo si può leggere anche e pure emblematicamente nel goffo tentativo di chi vuoi parlare l'italiano che non sa al posto dei dialetto che invece parla a meraviglia. Per chi possiede le altre culture è di converso facile parlare (anche) dialetto, come lodare i rustici, in cui non abita. Non per caso i pastori, tanto importanti e vagheggiati in letteratura, non trovano più l'Arcadia. Ma c'è d'altro canto anche chi riesce, pur dall'interno di una cultura subalterna, a vedere oltre agli aspetti che lo mortificano, anche quelli che gli conferiscono senso e dignità; e sente di dover rifiutare di abbandonare il suo mondo perché gli si è accasato nel cuore come una patria familiare e tormentosa. In fondo nella continuità della sofferenza si può trovare, aldilà di ogni pulsione masochistica, una petizione di senso per il proprio passato, per le risorse investite o, si dica pure, dilapidate sia per una scelta sbagliata sia per una costrizione ineluttabile.
Ci si trova di fronte più che all'iterazione come rito dell'immortalità, alla continuità come metafisica di ripiego di chi spera di non aver sbagliato o vuole convincersi di questo. Giacché se ogni canbiada i' é na brusada e al pèdo no l'é mai mòrt, pitòst depèrder na usanzha l'é mèjo brusar anpaese:
la continuità dunque come forma di difesa e di petizione di senso. E tale posizione assiomatica trova nella sua staticità un risvolto etico: infatti se chi che no se còntenta del' onèstopèrde 'i mànego e anca 'l zhesto, meglio, come già detto, rimanere poreti ma galantòmi tanto più che a èsserporeti no l' é 'n disonor. Lo stesso detto no l' é pi relijon, che può essere usato dalle vecchiette per denunciare in chiave di morale cattolica la mancata osservanza dei buoni costumi come dagli uomini per commentare i tuoni e i lampi a dicembre o a gennaio, tradisce il senso di disagio, quasi di stizza per ciò che è straordinario: e forse una delle ragioni dell'uso frequente del motto al di fuori del campo religioso è che ciò che fuoriesce dalla norma è sentito quasi come blasfemo. Di fronte ai cambiamenti "anormali" meglio in fondo la rassicurante ciclicità/ritualità dei ritmi di lavoro.., un po' come un rimanere nel divenire.

11

La religione

alleluja, alleluja, al porzhèl te la vanuia
al Signor ricama e noi vedon i grop

Il senso religioso, nella commistione di ritualità primitiva e religione ufficiale, permea per molteplici aspetti la cultura contadina. Forse proprio l'atavico confronto fra sacralità pagana e religione cattolica, investendo il radicale rapporto natura-cultura, ha impedito un'assunzione passiva della religione ufficiale e ad un tempo fecondato certa "proverbiale" autonomia critica della civiltà rurale.
C'è certo stata anche una lampante assunzione della dottrina cattolica, talvolta in chiave discretamente ortodossa, tal altra in chiave singolarmente superstiziosa: se laorofat defèsta al vafòra par lafenèstra, messa scoltada, jornada guadagnada; ma a balar de quaresima sefa le ganbe storte; e ad ogni modo al dotor, alprète e a l'avocato dighe senpre la verità, che tu sarà beato. E la carità la vafòraparlapòrta e la vien dentro par lafenèstra e poi me se à sarà na pòrta e me se à vèrt an porton. D'altro canto quando che 'l còrpo se frusta I' ànema se justa e spizha de cul, sagra a I' infèrno, se almeno è vero che no sepol cantar, balar e anca portar al Cristo. E se per caso il tarlo intellettuale tentasse di far breccia nel dogma, sarà inevitabile ricordare che no se movefoje che Dio no 'l voje e che comunque quel che Dio manda l'è sènpre tant; e ove le spiegazioni diventassero ardue, ecco la formula di sapore poetico al Signor ricama e noi vedon i grop. E infine se mor quando che 'I Signor ne ciama e, a fini consolatori, al Signor al toca i soi.
Come poi il potere religioso ha paludato funzionalmente consuetudini e riti pagani preesistenti, la gente contadina ha mutuato molti dei suoi aspetti dottrinali; ma è da dire che più spesso ha vissuto o ridotto superstiziosamente, ma pur sempre funzionalmente, i riti e le formule proposti, quando non li ha più o meno mimeticamente rifiutati attraverso atteggiamenti, modi di dire e proverbi; più o meno mimeticamente, perché frequente è, come si potrà verificare, il ricorso a percorsi espressivi polisemici.
E' attraverso questo processo di velato respingimento o di "assunzione resistente" che si estrinseca in fondo, ben oltre la coloritura formale dei contenuti religiosi ortodossi, certa funzione creativa della cultura contadina, naturalmente nel tempo ipostatizzata attraverso l'iterazione enunciativa. E la chiave prevalente del processo è quella dell'ironica controdeduzione. Se pertanto la religione oggi, nella pratica più o meno formale, ecclettica o contraddittoria del culto cattolico, rimane in qualche modo il termine di riferimento di molteplici aspetti del vivere contadino - si pensi qui, per non parlare delle desunzioni direttamente ideologiche, alle correlazioni di tempo meteorologico e solare con il calendario liturgico - la commisurazione ad essa è avvenuta anche in direzione critica od apertamente reattiva. Imbevuti

12

di agrore impotente sono infatti parecchi proverbi e modi di dire di diffusione locale che, se non si riferiscono in modo diretto alla religione, la correlano ad altri campi di significazione più strutturali all'interno della civiltà contadina, quali sono, ad esempio, gli aspetti del lavoro agricolo o artigianale e l'alimentazione.
Se ne riportano qui alcuni registrati nell'area all'inizio indicata, con la premessa che ogni notazione di "volgarità" diviene qui, ad onta dell' accezione d'onta, garanzia di autenticità. Di ironico effetto plastico è l'equazione basabanchi, ciavasanti , argutamente colorita quella che esorta a reguardarse da i dent de can, da le scarpedade de mus e da quei che tien su le man, del cui ultimo membro esiste anche la versione più politica e da quei che tien la corona in man.
Bacchica o conviviale si può qualificare la massima pitòst che spànder vin l' é mèjo che more 'l prète, in cui se la reggente enunciativa dà per scontato che il prete è quanto di più importante o quanto meno ritenuto tale nel contesto paesano, la premessa comparativa banalizza causticamente la dimensione religiosa sottesa dal termine prete per quasi sublimare, di contro, il valore del vino. In sintonia appare la diffusa storpiatura di una strofe di un noto inno alla Madonna che da "siam peccatori ma figli tuoi, Immacolata, prega per noi diviene siam bevitori ma figli tuoi, missià co l'aqua mi no ghe 'n voi. Analoga la deformazione dell'Ave Maria, ad altri fini già considerata:
Ave Maria, grazia plena, chi li àfati se li tegna e così di una nota formula liturgica che diviene Deus in auditorium meum intènde, chi che no ghe n'à gnanca ghe 'n spènde. Di natura politico-sociale l'espressione Corpus Domini Nostri Jesu Christi, poreti e anca malvisti che appare attaccare, assemblando la situazione comunitaria per eccellenza richiamata dalla formula della comunione con una rappresentazione della povertà bistrattata, un "establishment" individuato come commistione di perbenismo religioso e potere discriminatorio.
E' da notare qui, ma vale anche per altrove, come la ripresa del latino, lingua della sacralità e ad ogni modo lingua nota e usata dai detentori del potere, conferisca, attraverso il rinforzo contrappuntistico, un'ulteriore connotazione di subalternità; ed era comunque certo la ricorrenza frequente di formule religiose più o meno capite nel loro significato a far echeggiare nella memoria della gente illetterata una melodia su cui innestare altri sensi, funzionali al suo modo di essere o sentire.
Analoga alle precedenti è l'equazione di contrappunto tuti i salmi i finis in gloria e tuite le magnade in mèrda, che, nella consapevolezza dell'inconciliabilità di trionfalismo religioso e meschina quotidianità, viene usata, in generale, per rastremare a un destino comune situazioni e prospettive e, in particolare, per respingere all'atto della formulazione proposte magniloquenti quanto difficilmente realizzabili o per giustificarne a posteriori il fallimento. E' interessante, di riscontro, notare come l'alleluja, la

13

formula trionfale per antonomasia della liturgia cattolica, sia stata appunto "volgarmente" ridotta in funzione di quella grande festa contadina che era l'uccisione del maiale nel modo di dire alleluja, alleluja, al porzhèl te la vanuja.
Nel campo dell'economia agricola si colloca il modo di dire le magna fa i avocati e le rènzh fa i prèti, usato soprattutto per le mucche. E, in analogia, direttamente artigianale e solo indirettamente dissacratorio si presenta il mordace i ciòdi in te 'l rore i é come i schèi in te le man de i prèti, in cui a rendere l'idea di quanto sia "tegnoso" il legno di rovere è la tenacia "archetipica" delle mani dei preti quando impugnano i soldi. Sempre di sapore economico i detti, arguti nelle loro connotazioni evangelico-picaresche, ndar sul sò del Signor e la ròba de i canpi la é de Dio e de tuti iso santi che, prendendo ironicamente alla lettera l'evangelismo cattolico, superano, tornando per via "ortodossa" alle origini, il contratto sociale e nella fattispecie le angustie determinate dalla proprietà privata. La prima espressione aveva comunque in zona una collocazione accettata e quindi legittimata nella consuetudine di cercare i pali del "panevin" indiscriminatamente dai limiti normalmente posti dalla proprietà.
Alcune massime, non propriamente dissacratorie ma pregne di scetticismo, investono il concetto cattolico, se non assolutamente indeterministico certo polivalente, della provvidenza: l'usatissimo de riva in do ogni santo 'l juta conviene per implicitazione perlomeno che de riva in su non tutti i santi aiutano; ma spostano dallo scetticismo mimetizzato a rassegnata quanto sperimentata certezza la radente formula constatativa al Signor juta tuti fòra che i desperadi e quella di uso prevalentemente metaforico al Signor ghefa vegner le zhuche a chi che no à i porzhèi, che viene usata, e di solito stizzosamente, al termine di conversazioni dal contenuto in sintonia col senso del proverbio e spesso con la premessa chiosante al é propio vera si che.... E, d'altro canto, in più ortodossa applicazione della dottrina religiosa, al diaul al chèga sul grun (grant); di riscontro, usata solo raramente con rassegnazione da ortodossia e invece molto spesso con miscredente caustica ironia di fronte a pesanti o interminabili eventi negativi, è la massima quel che Dio manda no l' é mai massa, certo coniata per contrapposizione sulla già citata e ortodossa quel che Dio manda l'é sènpre tant. Eloquente è poi l'adattamento per coda di un famoso detto evangelico: beati i ultimi se i primi i a creanha, già visto in sede di analisi della struttura dei proverbi. Lo scetticismo nei confronti dell'aspettativa provvidenziale si registra del resto in moltissimi altri proverbi che non fanno comparire direttamente la dimensione religiosa; valgano qui ad esempio tu ghe scanpa al bò e la vaca te tra e pi bisogno manco aiuto.
Ed ecco a complemento di siffatta visione del mondo la riformulazione contrastiva del precetto ecclesiastico della santificazione della festa: sènzha messa e senzha vèspro se pol star ma no senzha disnar. E' da ricordare che

14

in questo caso, come già visto, l'ortodossia è confortata da ben due massime:
messa scoltada, jornada guadagnada e laoro fat de fèsta al va fòra par la fenèstra, quasi a indice di un'umile diatriba dottrinale consumata a suon di rima.
Più gratuitamente dissacratorio si presenta il modo di dire ver i schèi del papa e far al mistier del gal come la perentoria constatazione del distacco emotivo dei religiosi che scaturisce dal parallelismo sangue de s-cios, àgreme de preti, sudor de stradini, evidentemente condotto sul comune implicito denominatore dell'impossibilità.
Si può a questo punto costruire, in chiave metalinguistica, un sortilegio:
se quanto scritto fa bollire qualche pignatta, un religioso cultore del popolare ci metta un coperchio, giacché il celebre proverbio italiano "il diavolo fa le pignatte ma non i coperchi" circola localmente anche così "riformato": al diaul al fa le pignate e i prèti i cuèrci.
E valga questa conclusione proverbiale, oltre che da estraniamento dalla questione, anche quale restituzione del proverbio alla sua rituale funzione che è quella di chiosare "culminativamente" una situazione, sia pure, come in questo caso, solo discorsiva.

La superstizione

co tu é pèrs dal mazharol, òltete na mànega

Pur se si tende negli studi etnologici a inquadrare tout court tale categoria nell'ambito della religiosità popolare, quale filone ad essa naturalmente intrinseco, si è qui optato per una trattazione separata, sulla base della constatazione che sono di gran lunga più numerosi i proverbi di matrice religiosa desunti dalla catechesi cattolica, anche se va detto che la loro "riduzione" ideologica non risulta sempre ortodossa: eloquente a tale proposito la sentenza a balar de quaresima sefa le ganbe stòrte.
Accanto ai proverbi di matrice segnatamente religiosa, se ne allineano qui dunque alcuni intrisi, qual più qual meno, di superstizione. In questo ambito appaiono più propriamente annoverabili la loc la ciama mòrti, detto del canto ritenuto nefasto dell'allocco e co 'lfiòca su lafoja, al se repara da la goja, dove il tempo, debitamente sottinteso, è sentito come entità animistica e in qualche modo da placare. Un'implicazione animistica, anche se giocata con ironica consapevolezza, si può cogliere nel modo di dire l' é '1 Signor che reòlta le cuche, quale spiegazione del rimbombo del tuono. E, sempre in tema di meteorologia, si connota in modo so spetto anche il detto co I' àsen al stranuda, al tènp al se ranuda.
Un po' superstiziosa, anche se di sapore "transtagionale", la massima

15

te i mesi co le ère mai sentarse su le piere; così quelle di portata medica mal de la pèle risana le budèle o aria de fessura porta a sepultura. Sempre sullo stesso piano, anche se qui si tratta di superstizione innestata sull'etica, roba robada no la à durada o la farina del diaul la va in sémola.
Superstiziosi per vocazione d'origine i detti collegati ai vari spiriti della cultura popolare locale: a 'ndarpar la strada del mazharol, se 'l sènt rider; e così co tu é pers dal mazharol, òltete na mànega, e infine parché i tosat no ipiande o no i zhighe, basta 'l babau, al barbazhucon e le strighe. E' da dire che queste figure-proiezione della coscienza subalterna della cultura contadina veneta compaiono in modo complessivamente ambiguo: se si avverte infatti chiaramente nei detti citati la paura di incontrarle, esse vengono talvolta nominate e quasi invocate in funzione tutelare o vindice nei confronti di persone o entità culturali avverse in espressioni come che tu cate (che 'l cate), egnarà 'l mazhàrol o le strighe o che la redosega (nome di strega) la te/ghe fae la gambarèla..
Scopertamente superstiziose infine certe formule di scongiuro come crose crosat, cui veniva spesso aggiunta la coda mèrda de gat e cui si accompagnava talvolta il gesto di segnare per terra col piede o con uno stecco, delle croci.

Il fatalismo

al pèdo no l'é mai mòrt

L'impronta fatalistica della maggior parte dei proverbi dà certo la tentazione di darne una lettura esclusiva in chiave di subalternità. L'applicazione dell'equazione fatalismo-subalternità può essere peraltro forzosamente semplificativa, a meno che non si porti il termine subalternità, ben oltre la sua invalsa accezione socio-culturale, al senso più lato di soggezione alle ragioni per molteplici aspetti irragionevoli della vita e della morte.
In fondo, se è certo che un proverbio ha avuto la nascita in una determinata contingenza, rimane incerto, al di là di certi casi in cui compaiono particolari nozioni lavorative, l'alveo in cui è nato. I proverbi non sono esclusivo appannaggio delle classi subalterne come "il popolare" non trova una netta linea di demarcazione nell'area storicamente subalterna. In questo caso "l'opposizione popolare-dotto è prevalente rispetto all'opposizione di classe" (Saintyves, P. 1936, Manuel de folklore, Nourry, Paris, pag. 42) come il folklore è la cultura delle persone non istruite in una nazione civilizzata" (ibid., pag. 35).
Ma se l'opposizione popolare-dotto non si colloca meccanicamente sul crinale che separa i dominanti dai dominati, si può ad ogni modo convenire

16

che il grande grembo dei proverbi è stata l'area subalterna; particolarmente eloquente è a tale proposito l'operazione metalinguistica che un proverbio popolare fa su un proverbio dotto: volere è potere (ma 'l poret che 'l vol èsser an sior, l' é 'n mona), dove si legge anche l'ammonimento, adombrato anche in qualche fiaba locale, a non tentare di uscire dal proprio status di subalternità.
Ma all'interno del nutrito filone fatalistico, si può parlare di fatalismo nel fatalismo, come dire le ragioni della soggezione nei rapporti sociali all'internodi quella universale ai limiti "necessari" dell'esistenza. Puntuale sembra, a tale proposito, la citazione del proverbio la justizhia la éde entro de le porte del zhimitèrio, in cui i due aspetti del fatalismo, da subalternità sociale e da universalità, vengono implicitamente a confronto e, in particolare, il primo è risolto egualitariamente nel secondo, in una specie di "revanchismo della morte". Certo si tratta di consolazione ma i proverbi, come più in generale tutta la saggezza popolare, sono anche una forma di consolazione. E la filosofia consolatoria arriva anche a punte masochistiche: an ciòdo ghe' n cazha n'antro.
C'è ad ogni modo un evidente attraversamento del filone fatalista da parte del fattore giustizia/ingiustizia: chi che à schèi vinzh tute le cause; sòldi e amicizhia inorbis la justizhia; e il già visto la justizhia la é de entro de lepòrte del zhimitèrio. Ma questo aspetto andrà più pertinentemente sondato all'interno del tema del potere. Va invece subito aggiunto come da un nugolo di proverbi trapeli, al di là della situazione e quindi del registro con cui essi vengono usati, la rassegnazione alla fissità dei ruoli: la razha no la va su par i talpon; an talpon no 'l fa zharese; alformai tra drio 'I scàtol; I' aqua la ghe va drio also ghèbo"; quel che fa la simiafa anca 'l simiòt, chi dapita nasse in tèra sbèca... ché se un cambiamento può avvenire è in senso deteriore dato che al pèdo no l' é mai mòrt.
Si ritiene alfine necessaria una notazione di tipo strutturale: la stessa enunciazione icastica per asindeto dà l'impressione dell'automaticità fatale, di un determinismo che si pone come ineludibile; e la presenza della rima, che appare connaturata con l'enunciato di molti proverbi, sembra iscrivere il proverbio nei confini della necessità, conferirgli, per così dire, la "marca fatale".
Oltre a quelli già citati e a quelli che lo saranno in tema di potere/giustizia e povertà, si riporta qui una parte della grande serie di proverbi che, per così dire, perpetuano, attraverso una rappresentazione statica del mondo, il senso fatalistico e la disposizione alla rassegnazione che ne consegue; e, quale più quale meno, essi sono caratterizzati dall'ironia, che talvolta scaturisce dalla stessa elementarità constatativa delle osservazioni - di apparente assoluta referenzialità, si potrebbe dire-, talaltra discende dalle operazioni raziocinanti. E l'ironia è ad un tempo derisione del potere/destino e coscienza della vanità della lotta contro di esso. Ed ecco il saggio - non certo accidioso - consiglio di resa di fronte al limite. Non ci vuol molto infatti a capire

17

che l'a qua la gheva drio 'l so ghèbo, che le razhe le ghe va drio l'aqua, e meno ancora a comprendere che la razha no la va su par i talpon e che an talpon no 'l fa zharese. E poi è evidente che dal zhoc se cava (vien) la stèla e che al formai alghe tra drio 'l scàtol così come naturalmente a/gai al canta, al can al baia. E che dire allora se non con Bèpo gobo da Casier, tuti quanti 'l so mistier. E se quasi di concerto la vaca e 'I vedèl i va senpre d'acordo e quei che fa la simiafa anca 'i simiòt, bisogna prendersi delle cautele: perché così come la bolp la pèrzh al pel ma no 'I vizhi, a star co la loc se inpara a ucar.
Ma tornando a quella che si potrebbe definire una specie di esistenziale ineluttabilità, ecco alcuni detti concernenti il lavoro: quello inerente l'attività agricola - e interferente col filone del tempo - co se à tere al sol se è sojèti a la tenpèsta, da cui emerge la consapevolezza di una sorta di fatale dicotomia della condizione contadina; e non è raro sentire aggiunto all'occasione a ironico rinforzo del detto appena citato quei che Dio manda no l'è mai massa; e l'amaramente colorito modo di dire, inerente l'emigrazione, co 'l mus, evidentemente coniato da molti espatriati in Germania, Svizzera ed Austria per significare la necessità della loro condizione: si tratta di un umile esempio di koinè linguistica in cui l'esotismo della voce del verbo tedesco "mussen" ("dovere") assume, in regime di arricchente ambiguità, i sensi del dialettale mus, connotando l'amaro destino dell'emigrazione di quello altrettanto amaro dell'asino, esistenziale portatore di soma.
E ancora in regime di "esistenziale ineluttabilità", l' é inutile sforzhar la machina quando che no la ol ndar e sangue dal mur no se ghe 'n cava così come è affatto velleitario drezharghe le ganbe al gévero; e di fronte all 'ineluttabilità imminente: se 'l disna, no 'l zhena. Bisognerà poi assumere che male combinato è il mondo giacché chi che à dent no à pan e chi che àpan no à dènt, così come al panpar iso dènt no 'i ghe toca a gnessuni; e allora meglio talvolta tirar ai mànego drio la manèra. Perché strani ma come retti da unalegge crudele e oscura si configurano i casi degli umani: fata la capia, mort (scanpà) l' osèl, sora le scarpe nove prima o dòpo 'l piove, e tu tien par al spinèl e tu spanzhpar ai cocon quando non capiti poi che la spanzh da tute le part.
E se chi che va al mulin ai se infarina c'è poco da illudersi o da ridere perché drio 'i rìder vien alfrìder e chi che rit de vèndrepianzh de doménega.
Si può poi cogliere anche un sapore di predestinazione neutrale in na òlta cor al can, na òlta cor al gévero, e di predestinazione ingiusta nel già in altra forma citato al pan destinà par i so dènt no l' é gnessuni che lo magna e in chi fortuna, chi fortaia; si può leggere poi una specie di sindrome da fatale accerchiamento in perìcol in mar, perìcol in tèra, perìcol su la barèla.
E in chiave di fatalismo politico canbia maestro e capèla ma la musica la é sènpre quela e canbia le stie ma i porzhèi i é sènpre quei.
Nel settore del fatalismo si possono anche collocare certi modi di dire veicolanti in modo paradossale il senso dell'inutilità:


18

ndar a cior aqua col zhest; portar aqua co le reje, èsser come quel che à sepulì la rùmola par coparla, farghe le cape a i garòfoi...
Non bastassero le imposizioni di natura - giacché se no se à 'l gòs se à la gòba e i difèti de natura, se vive e se more e se i pòrta a sepoltura - bisogna comunque stare sempre all'erta perché co le riva bisogna vèrderghe la porta e al mal al vien a chili e 'l va via a onzhe; d'altro canto se ogni òto di sefa la luna, ogni òto di se ghe 'n sènt una, inutile è farsi illusioni perché le brute notizhie le é sènpre vere. E in chiave scopertamente ironica per chi intenda resistere o non creda più che resistere conti canpa caval che l'erba cresse e caval no sta morir che l'erba à da venir.
E con ironia mordace tu cret de èsser a caval e no tu à gnanca alpié su la stafa e no tufa ora a oltarte che i te a magnà anca ipedoci che tu à su la testa; perché in fondo al pèdo no 'l dòrme mai (o no l'é mai mòrt). E inutile sarà ad ogni modo prenderdela con gli ostinati perché chi che no ol capir ne basto ne brena, no val russarghe la schena ne darghe la vena.
Esiste anche qui un filone che, moderatamente alternativo, è forse improprio chiamare antifatalistico, ma che comunque fuoriesce dalla categoria della staticità:

le montagne le sta ferme, i òmi i camina chi che no òlsa, boca pòlsa
chi che no se indegna alfa la tegna
chi che lo sa far lo magna còt, chi che no lo sa far lo magna cru la roba la sta su le brazhe, chi che la vol se lafazhe
chi che ghe 'n fa ghe 'n trova
al can dur no ghe toca mai la carne nessun nas maèstro
impara l'arte e métela da parte
a forzha de bàter zhiede anca 'lfèr
se a usà anca 'i mus a magnar zhéole
quanto che l'aqua la toca '1 cul se inpara a nodar
le fortune le va a quei che le merita e le speazhade a chi che le ciapa

e i già citati in tema di potere:
no l' é mai pan suficiente par stroparghe la boca al maldicènte miseria, vutu panada? ...se tu me da 'i cuciar

Le massime fatalistiche, generalmente pregne di uno stoicismo consolatorio, si presentano talora col registro dell'ironico cinismo: così la justizhia la é de entro de le porte del zhimitèrio e solamente co son mòrti son tuti conpagni.
Ma non mancano, seppur rari, dei rigurgiti di sapore epicureo: se chi che more 'l mondo assa e chi che rèsta se la spassa, intant andon par orden e dopo o che more i' òrbo o chi che/o mena; e inoltre scarpe gròsse e gòtopien, ciapa la vita come che la vien.

19

Ma l'ironia spinge anche ad acuizioni di tipo masochista:
canta che te passa; par che 'n poret magne na pita o che i' malà lu o che l' é malada e/a; Corpus Domini Nostri Jesu Christi, poreti e anca malvisti. E l'ironia arriva anche al masochismo della rassegnazione nel già citato an ciòdo ghe 'n cazha n'antro.

Il potere

la leje la é conpa gnu par tuti ma se no tu à la onbrèla tu ciapa la piova

La diffidenza per il potere e per la giustizia, almeno per quella che di questo è emanazione, è una costante della cultura popolare e alla giustizia ufficiale si deve qui pensare, giacché a quella spicciola di base appaiono ben attagliarsi detti come il corrente pragmatico na aita e na basafa na galiva.
Nulla ha pertanto di singolare la constatazione dell'emergenza in molti proverbi, rispetto ai temi succitati, di un atteggiamento di sfiducia e sospetto, che si spinge a volte ai limiti del cinismo e che è ad ogni modo generalmente inquadrabile anche nel filone del fatalismo. Tale riscontro non deve peraltro far scivolare per contrasto nella facile equazione subalternità-senso di giustizia. Spesso infatti l'interpretazione del potere dal versante popolare ha luogo in chiave di ricerca dì una collocazione clientelare. Né di questo d'altronde sì può fare una colpa al popolano, dato che una valutazione normalmente culturale del piano morale si può fare laddove si sia sedimentato, o per elaborazione teorica o per sperimentazione diretta, un concetto di "giusto potere". E questo non può evidentemente avvenire quando le valutazioni hanno luogo in regime di squilibrio dei rapporti di forza e in particolare dal versante di chi una condizione di soggezione, quasi per tradizione fatale, ha sempre o spesso vissuto.
E' ad ogni modo un fatto che numerosissimi sono i proverbi che attaccano la "giustizia ingiusta", ad essa in fondo sottomettendosi per tragica assuefazione in un esemplare (il termine ha qui valenza culturale e non certo politica) connubio di senso del sopruso e fatalismo. E nei proverbi sulla giustizia si annida, e neanche tanto mimetizzata, la virulenza anti-potere. Perché se chi che pol pi pianzh manco, chi che à schèi vinzh tute le cause e schèi e amicizhia i inorbis la justizhia, così come chi che à 'lpodestà da la soa l'à in cui i sbiri: e allora la ièje la é conpagna par tuti ma se no tu à la onbrèla tu cìapa lapiova; e d'altro canto se can no magna can, aipes grant magna '1 cen e se canbia maèstro e capèla ma la musica la é senpre quela così come, in versione più colorita, canbia le stie ma iporzhèi i é senpre quei e sinistra e dèstra, tuta na menèstra; giacché co i é là i é tuti conpagni.

20

La legge nei proverbi appare uguale per tutti nel senso dell'intemperia e per chi parla è intemperia da cui ripararsi - come di riscontro, per traslazione terminologica dal campo della religione, sènzha santi no se va in paradiso.
Dall'analisi dei proverbi emerge poi con netta evidenza, anche statistica, un'individuazione di collateralità di potere politico e religione, anche se gli enunciati non ne indicano di solito apertamente la collusione. Il potere politico viene spesso poi individuato in termini localistici, nella comare (surrogata progressivamente dalla figura del dottore), nel podestà, nell'avvocato e nel prete, quali detentori del potere civico o mediatori - e questo vale più propriamente per il prete - rispetto alla giustizia in senso più lato e, nella fattispecie, forse anche astratto.
D'altro canto anche il nutrito filone dei proverbi dissacratori si presta ad essere letto come forma di resistenza ad una manifestazione del potere. Così se, come già detto, can no magna can e al pes grant magna '1 cèn, la comare, al prète e i sbiri i' é da tegnerseli boni e chi che à 'l podestà da la soa l'a in cul i sbiri; e atomo a la crose del canpanil gira i sbiri e coi prèti e coi sbiri no bisogna mai intrigarse e no state intrigar coi preti, no sta maltratar i veci; ma, d'altro canto a la comare (al dotor), al prete e a l'avocato dighe sènpre la verità che tu sarà beato anche se i avocati i vif de carne rabiada, i dotori de carne malada, i prèti de carne morta.... e pur se è nozione comune che certe bestie nella stalla le magna come i avocati e le rènzh come i prèti.
Ma non c'è comunque una totale ammissione di inferiorità perché il potere è talvolta visto anche come paludamento della mediocrità: cose vestis an pal salta fòra an gardenal, co se vestis nafassina salta fòra na regina.
Come premesso, con un'operazione semplificatoria si potrebbe riferire questo atteggiamento di opposizione netta e caustica a quanto si configura come potere ufficiale ad un senso di integrità giocato contro l'ingiustizia. Probabilmente si può in termini generali parlare di risposta alla secolare condizione di asservimento, di notificazione di presenza di fronte alla consuetudine col sopruso, se non anche, talvolta, di assuefazione ad esso. Si direbbe anzi che la dimestichezza con la prevaricazione altrui, vissuta fatalisticamente come insuperabile in termini politici, e con la soggezione propria abbia indotto una specie di filosofia delle soluzioni obbligate, delle vie traverse d'uscita o di sussistenza. Pochissimi sono infatti i proverbi che veicolano un'opposizione radicale al potere e che vagheggiano velatamente un potere alternativo e sembrano questi ad ogni modo travisamenti di colonizzazioni ideologiche e pertanto simili nella loro genesi a quelli che, per contro, portano all'accettazione rassegnata sulla scia di un'assunzione funzionale al potere della catechesi evangelica: sotto questo profilo il proverbio mèjo paron de na sèssola che secondo su na nave sarebbe, malgrado la differenza contenutistica, assai vicino a al Signor ricama e noi vedon i grop.

21

La risposta complessiva della sapienza proverbiale ad un potere prevaricatore sembra porsi, oltre che in chiave di censura, in chiave propedeutica quale soluzione parziale di fronte ad uno scoglio ineludibile, in chiave di aggiramento o imbonimento, che si potrebbero definire anche "clientelari" se non ci fosse il pericolo di creare un parallelismo col clientelismo che ai giorni nostri viene con tutta disinvoltura praticato al di fuori di condizioni di stringente necessità. Certo anche oggi, oltre alle molte già citate, possono avere vigore massime come chi lifa no li magna, chi li trova fati li magna o quela che fila porta na camisa, queia che no fila la ghe nporta doi. Ma se pure anche ai nostri tempi il patteggiamento con un potere bacato può configurarsi talvolta come ineluttabile, molto meno di ieri esso può avere l'attenuante della necessità economica e, ancor meno, quella della deprivazione culturale.
Ma ecco anche abbattersi sul potere il sarcasmo nel già citato co se vestis an pal salta fòra 'n gardenal, co se vestis na fasina salta fòra na regina; e il sarcasmo fa la sua parte anche in una curiosa, e pur sempre irremidiabilmente fatalistica, inversione delle parti. Perché con gli occhi del potere no l' é mai pan suficiente pur stroparghe la boca al maldicènte e miseria, vutupanada?... se tu me da 'i cuciar!.

La povertà

pitòst che èsser poreti l' é mèjo no ver gnent

Se il fatalismo alligna sul senso di un potere subito che alimenta la consapevolezza dell'ingiustizia, il tutto ha per denominatore comune la coscienza della povertà, generalmente sentita come destino. C'è infatti in vari proverbi una intersec azione più o meno sottile dei temi del fatalismo, del potere, dell'ingiustizia e della povertà: così nel già citato proverbio a coda: volere è potere (ma 'lporet che 'l vol èsser an sior, I' é 'n mona), E, di seguito, se al mondo l' é mal crivelà: chi che copaporzhèl e chi che no ghe n' à,panzha piena no pensa a quela voda e quel che pensa a iporeti l'à 'ncora da nàsser; anzi poreti e balegadi. E così se ròbafa ròba e schèifa schèi e co gnent no se à gnent, I' é tre sòrt de viver: viveron, viveret e viverat; giacché al cònt al cor sul piat del magnar e l'ultima tenpèsta la é su la caljera.
E lo spettacolo della propria povertà "digerita" come ingiustizia si cristallizza, attraverso un'autoironia che traligna nel masochismo, in alcune massime di sapore picaresco. Mal 'humus della burla indiscriminata e quindi della burloneria in forma riflessiva è indice, secondo varie tesi psicanalitiche, della più cupa disperazione.

22

E allora per amara comicità ecco che pur chi che se intende e parchi che no se intende se tu à la camesa curta i te vede lefazhende e vàrdelo ben, vàrdelo tutl'onporetquantchel'ébrute Corpus Domini Nostri Jesu Christi, poreti e anca malvisti; e ancora par che 'n poret magne na pita o che I' é malà lu o che l' é malada ela; e analogo al precedente co se met la roba dafèsta ogni di o che se é mati o che no ghe n' épi. E allora pitòst che èsser poreti l'é mèjo no ver gnent. E in associazione colle peculiarità stagionali: I' istà i' é la cusina dei poréti.
Ma ecco dall'amarezza per la povertà ingiusta, un rigurgito d'orgoglio che chiama in causa la "giustizia giusta": poreti ma galantòmi e a èsserporeti no l' é 'n disonor; e in uno stizzito inquadramento nell 'ortodossia religiosa: chi che no sa par chi pregar preghe par chi che no copa porzhèl. E infine, con un evidente tralignamento in un fatalismo paradossale che vuol ancorare "d'ufficio" ad una "propria" condizione: co un al se met afar capèi, i nas tuti sènzha tèsta.

La morte

e sperar de far na bòna mòrt... in salute

Chi vien e chi va: su la tèra se passa e no se rèsta. Al di là di questo esemplare, che si può qualificare raro e in cui, in registro di filosofico distacco, l'essere si staglia "esistenzialisticamente" sullo sfondo del "non essere", - autenticizzandosi, è forse il caso di dire in chiave filosofica, in "essere per la morte" - la maggior parte dei proverbi riguardanti l'argomento è improntata, si direbbe per ritorsione, ad un tenace attaccamento alla vita: alpèdo l'épar chi che la ghe toca, ndove che no se vol ndar toca corer, chi che vive ma gnu pan e chi che more à so dan e chi che more 'i mondo assa e chi che rèsta se la spassa. Attaccamento alla vita che culmina in quest'ultima massima in una considerazione di tipo epicureo ma che ha altrove la "rituale", pur se rarefatta, smentita: passà '1 canton, finida la passion e chi che sta mèjo l' é chi che i' mort... ma attaccamento alla vita che ha come riscontro ideologico lo scetticismo sull'aldilà e sul valore propiziatorio della pratica religiosa: i morti no i camina i morti no parla; da pur de là no se àmai vist tornar gnessun e orazhion sul cavazhal no lafa né ben né mal; ma anche lo scetticismo di queste massime trova una, seppur timida smentita, perché sènzha santi no se va in paradiso, anche se questo proverbio, come già visto, si presta ad essere utilizzato e viene di fatto utilizzato con metaforica ironia per censurare o giustificare, a seconda dell'interesse del soggetto parlante, le pratiche clientelari di questo mondo.
Lugubremente colorito e ancora in sintonia con la prevalente impronta di terrenità è il rapporto col concetto di giustizia: co son morti son tuti conpagni e la justizhia la é de entro de le pòrte del zhimitèrio.

23

La morte, quasi forzata riappacificazione con la vita, è qui vissuta, come precedentemente già sottolineato, in termini di revanchismo misero: non compare un aldilà in cui i giusti ricevano un premio, i defraudati compensazione e gli ingiusti punizione ma semplicemente la morte come cesura appiattente, come orizzonte egualitante per annichilimento. E, in una rastremazione rassegnata verso il basso, non affiorano neppure i motivi di consolazione, altrove fecondi, del buon ricordo o della buona fama. Ma non si può neanche dire che la morte sia sempre la giustizia dei miseri, neanch'essa insomma fa sempre il suo dovere: la mòrt dei lof è certo fortuna de la piégora ma capita anche che co se é contènti se more e, peggio, che more i pi bòni e rèsta i pi briconi.
Non solo: in uno dei pochi proverbi che presentano la morte in termini di formale ortodossia religiosa, l'aldilà non compare come luogo di compensazione per le ingiustizie subite: i siori 'i paradiso de qua e quel par de là i se lo conpra; uno scandalo delle indulgenze in versione perpetua ma in chiave di rassegnata, amara e superstiziosa accettazione.... e sperar al manco de far na bòna mòrt, in salute, par che i'é 'n mestier che 'i ghe olfat anca quel là.

Il tempo

al tènp, al cui e a i muti no se ghe comanda

Anche il tempo è visto in fondo come una forma di potere e, per lo più, di potere ingiusto e anche tirannico. Cade qui opportunamente in situazione, a rinforzo di quello citato in apertura, il proverbio, impregnato di fatalistica impotenza, co se à tère a la piova se é sojèti a la tenpèsta.
La civiltà contadina misurava i suoi passi sull'andamento del tempo meteorologico e, per esperienza di scansione stagionale, sul tempo diurno, a partire dall'apparentemente elementare e invece sottile al soi al magna le ore. E il peso della religione si attesta anche qui, come presenza almeno formale, attraverso la correlazione degli eventi naturali al calendario liturgico. Si può isolare un nutrito lotto di proverbi che commisurano la durata del dì al tempo dell'anno designato attraverso le feste religiose:
Santa Lucia i' é 'l di pi curt che ghe sia
da San Tomìo al soi al pianta 'n pal e 'i torna indrio
da Nadal alpas de 'n gai, a Pasqueta meda oreta,
a San Biasi do ore squasi
da la Zhiriola al sol tramonta la montagnola
(quest'ultimo fa registrare la comparsa di un elemento di paesaggio locale, le colline subalpine della Vallata delle Prealpi Trevigiane, e ha pertanto valore assai circoscritto).

24

Alcuni altri proverbi mettono in relazione il tempo diurno con la meteorologia:
le jornade le se slònga e 'l fret al se sgranda
no ienfret se le nòt no le se slònga e no ien calt se i di no i se scurta
piova a medodì piova tut al di
a le nove de matina o che 'l s-ciaris o che 'lpiof

Alcuni proverbi, per fornire previsioni meteorologiche, si rifanno all'osservazione delle nubi e di altri fenomeni "celesti":
quando che le nèole lefa pan o che la ien ancoi o che la ien doman quando che le nèole le fa lana la piova no la é tant lontana se de dioba al sol al va do col capèl in tèsta vien piova prima che vegne fèsta
se 'l piof la doménega matina tuta la setimana monesina a/primo tòn de primavera, se 'l ien a matina ciol su 'l sachet e va afarina (polènta pochetina); se '1 ien a sera, polenta pien caljera
(in analogia col più famoso detto sulle faville del panevin)
se le nèole le va verso 'i mar ciol su la sapa e va sul canp a sapar la luna setenbrina par sète mesi la ghe indovina
aprile: i primi tré brilanti, quaranta de somiljanti

Di lettura solo locale, per il riferimento geografico (canal = Val Lapisina) e toponomastico (Saraval = Serravalle) il proverbio:
piova dal canal, no la pasa Saraval.

E a quest'ultimo analogo:
piova del Canséi no la bagna 'n zhei

Assai colorite alcune massime che correlano comportamenti animali ad imminenti cambiamenti atmosferici:
quando che l'àsen al stranuda al tènp al se ranuda (al se muda)
quando che la vaca la varda 'l balcon al tènp al sefa bòn

Ma a costituire il grande stuolo di questo filone sono i proverbi che correlano semplicemente le feste religiose a situazioni meteorologiche o ad eventi e scadenze dell'anno vegetativo e lavorativo:
San Paulo ciaro, Zhiriòla scura, de l'inverno no von pi paura San Paulo scur, Zhiriòla solaròla, de l'inverno son ormai fòra da San Tizhian se injazha la coda del can da San Tizhian al ghe pura fòra i dènt al can
da San Tizhian na gran frescura, da San Lorènzh na gran calura, l'uno e l'altro poco 'i dura se 'l piof a la Sènsa pur quaranta di no se sta sènzha

25

o da le palme o da le òvu no l'é ano che no 'lpiova Pasqua alta alta, aqua bassa bassa al di de San Martin se inbriaga 'i grundo e 'l picenin da San Ròco le nosèle le va dal bròco da San Burtolomìo ciol su la ganba e va con Dio (dove la ganba è la canna del granoturco)
da San Simon al manegon, da i Santi le màneghe e anca i guanti

Esiste, ma è assai più rarefatta, una correlazione che si potrebbe definire più laica ai mesi dell'anno o alle stagioni:
februro, curt e amaro
murzh intens, aprii penzh april inpianta 'lfienil
aprii i primi tré brilanti, quaranta de somiljanti fioris in april anca 'l mànego del budil
tenpèsta de majo, seca gnu de agosto
piova de giun no la ghefu mal a gnessun
lapiova de istà, beati chi che la à
(correlato talvolta a la piova de inverno
che la vae a l'inferno)
agosto menarosto

E correlate alle stravaganze del tempo le due massime colorite, la seconda surrealisticamente travisata per iperbole:
co tu à pan e legne, assa pura che la vegne
assa che'l piove fin che le ànere le bècu le stele

Il lavoro

co 'l sol tramonta al poltron se infrontu

I proverbi che riguardano il lavoro sono spesso collegati al calendario liturgico; interferiscono inoltre, per la loro stessa natura, col filone economico e sconfinano talvolta anche in quello morale. E in questi filoni, più che in altri, emerge in chiave implicita o direttamente esplicita la funzione imperativa: è nella loro stessa ragione di nascere il prescrivere un tempo o un modo di lavoro o un comportamento in relazione ad una difficoltà operativa o ad un problema di portata generale. Fermo purtroppo restando che co se à tère a lapiovu se è sojèti a la tenpèsta, co 'l cuc canta, al da far no 'i manca e allora vestìssete talpon, despojete poltron e anche di buonora perché bonora Dio l'àfata e non sia pertanto che co 'I sol tramontu, al poltron se infronta (se inpronta).

26

E la stessa vite chiama alla potatura con un'espressione utilizzabile a mo' di indovinello: àsseme povera, te farò rico.
E d'altro canto si deve sapere che l'é mèjo laorar in culènt e sut che in cressènt e moi e che aprii inpiuntu 'l fienil. E così chi che sémena vanti Sant'Andrea, ghe 'n vien aimanco an suc pur culvéa e da San Bartolomìo ciol su la gunba (la cana) e va con Dio, che rammenta che se il granoturco non è per allora maturato non maturerà più comunque; e nello stesso settore fin che la panòcia no l'é secu, no se leva 'i penazh. Così per le nocciole bisognerà tenere a mente che da San Ròco le nosèle le va dal bròco; e così esortano a tenere i tempi: a San Martin do tèrzh delfien e 'n quarto del vin e da sant'Isèpo, i cavalier sote 'i lèto; e sempre in tema di bachicoltura, chi voi na bona galetu, la mete via garbetu.
A generale prescrizione per la piantagione, in un'altra suggestiva commistione di agricoltura e religione, che le piante le sènte l'Ave Maria, cioè che i piedi delle piantine non siano collocati troppo in profondità.; e, sempre in tema di piantagione, la vic in tel sas, l' ort in tel grus.
E in tema di mucche sarà da tener bene a mente che chi che sfruta massa la vucu sote 'i car al la molzh pur i còrni, che braure e vache vèce ghe rèstu in man a i cojoni e che la bestia va ben osservata prima dell'acquisto: alta de ganbu, suta de panzhu, bòna da lat e cadigu (cadicia)fina, bòna da lat.
Per chi poi abbia soverchie tentazioni venatorie: ai restèl tira dentro, al s-ciòp tirufòra.
E una valutazione/prescrizione per la donna: quando che 'i sorc al mostra 'i muso, la brava dòna la fila 'i fuso.
Ma attenzione: se iaorofatparfòrzhu no 'i vai nu scòrzha e ad ogni modo al luoro ben fut no i' é mai pagà assèi, luorar presto e ben no se convien e un alfa pur un, dai ifa pur tre, ma in pi che se é manco se fa, perché alla fine fare desfur I' é tut un laorar. E la volontà di lavorare dà prova di sè attraverso l'occhio, giacché i mistier i épar tèra.
E per quanto concerne il rapporto pianura/montagna lòda 'i monte ma tiente 'l pian e onora la canpugna ma tiente la montagna ma anche: in montagna, chi che no ghe 'n porta no ghe 'n magna.
Per quanto poi concerne gli attrezzi - non è evidentemente solo questione di soramànego: se ai secio afòrzhu de 'ndur sul pos al assa 'i mànego, non sarà problematico rimpiazzarlo perché Jaorar col ienc i' é 'ipi bel mistier che ghe sie. Ed è da rammentare anche che al vussor i'à laponta de argènto, la vanga la pontu de òro. E frattanto inpura l'arte e métela da parte giacché val pila pràtica che
la gràmaticu;
ma d'altro canto se no se àpràtica ghe ol studiar la gràmatica... e in continuità con un certo rispetto "pragmatico" per l'apprendimento culturale: o pena o schena e senza lavagna no se magna.

27

La caccia e l'uccellagione

l'è mèjo cior su i archet e cunbiar zhiesa

La discreta consistenza e l'uso comune di molte espressioni derivanti dall'attività venatoria sembra riferibile al fatto che il suo esercizio valeva in passato da complemento al lavoro dei campi, rapporto ben evidente nella già citata massima cautelativa al restèi al tira dentro, al s-ciòp al tirafòra.
E se molti proverbi e modi dire nati con la caccia erano usati già in passato in senso traslato, vieppiù hanno consolidato questa funzione d'uso con lo scemare progressivo del valore esistenziale ditale attività. Modi di dire come i'é mèjo cior su i archet e canbiur zhiesa, al salta da 'n archet a quei'altro, ndur a meter do le viscade, non sono quasi più usati in collegamento con la funzione d'origine, anche perché collegati a pratiche oggi severamente proibite. Ad essere normalmente usato anche prima dell'interdizione in modo traslato era in particolare il modo di dire, direttamente concepito in chiave metaforica, l' é 'n archét, per dire di persona instabile, detto analogo nel senso a quello, desunto dalla cultura vinicola e vero similmente di matrice veneziana, ai va e 'l vienfu 'i vin de Zhipro. Sempre nella stessa direzione il modo di dire robur via (nel senso di riuscire a far perder le tracce) è oggi applicato a certa abilità di conduzione del vivere. E in senso traslato vengono ormai per lo più usati i proverbi na òlta cor al can na òita cor al gévero, al gévero al sta 'ndove che no se cret, al luora come 'n brac, no 'l sa né trar né mòrder.

Il vino

a chi che no ol béver vin Dio ghe cioe anca l'aqua

Il vino fruisce nella tradizione proverbiale di una vera e propria litania consacratoria. Al di làdi qualche modo di dire diversamente conte stualizzabile, non c'è voce che contro di esso nettamente si levi o si deve ad ogni modo supporre che essa sia stata immantinente censurata o non abbia comunque fatto a tempo a sedimentarsi in un detto sentenzioso. Ed è questo un caso raro nel campo proverbiale, dove, dato un tema, si può certo assistere alla netta prevalenza di una posizione, ma di solito in un regime di scoperta contraddittorietà. Si può avanzare la supposizione che in una realtà in cui la fatica e le tensioni erano spesso spasmodiche il vino venisse quasi "naturalmente"
- e il termine vale per prerazionalmente - accettato come mezzo di lenimento, oltre che di "sostegno fisico". Ben oltre la subdola e contraddittoria mentalità odierna, per cui, sulla scia della pubblicità, l'uomo che beve è circondato da

28

un alone di virilità mentre l'alcoolizzato è dai più ostracizzato, nella società contadina il bere sembra fatalisticamente accettato quasi come umano bisogno e di concerto colui che ne era divenuto più che altri vittima, non era di solito particolarmente disprezzato e comunque relegato in disparte. Lo stesso modo di dire ver la gropola sul stòmego, uno dei pochi che nel suo uso ambiguo può essere rivolto contro l'alcol, è spesso proposto in chiave dileggio o dispregio ma anche - e quasi altrettanto comunemente - in chiave di assunzione/dimostrazione di virilità.
Certo la sequela di massime laudative si configura come un'arringa in difesa della popolare bevanda.
Se l' aquu la marzhis i pai e pitòst che spànder vin l' é mèjo che more 'i prète, a chi che no ol béver vin Dio ghe cioe anca l'aqua. Giacché na tiruda de bocalla guuris ogni male gòtopien e capèl in tèsta, manda 'lmèdego a farfèsta e àgreme de vic e pìrole de galina manda via la medésinu; e così brodo depit, siròp de vic. Non solo: scarpa còmoda e gòtopien, cioi le ròbe come che le vien. E anche se detti come al beffa na loru o i'àfut la gropolu sul stòmego non sono certo sempre usati in senso lusinghiero, meglio talvolta, tutto sommato, béver fa na lora e far la gropola tel stòmego e a sentir udor de vin, èsser come 'I can drio 'i gévero perché oltre tutto al vin fa ganba e al bòn vin fa bòn sangue. E nelle congiunture stagionali non bisognerà disperare perché al di de San Martin se assa l' aqua e se bef ai vin e sempre da San Martin se inbriaga al grando e 'i picenin e poi da i Santi secur la botpur béver in tanti. Perché chi che dis che 'l vinfa mai, l'é 'non da ospedai. E come ultima medicina quando che la barba la tra al grisin, ussa lafémena e bàtete al vin e così su la sessantina, assa lafémena e va in cantina, perché ai vin l'è 'l lut de i vèci. Ché poi a vin bon no ocore frasca. E se al vin l' é bòn co 'l passu 'i gòto, mèdo no io ol gnuncu le fémene e l'ultimo gota l'é quei che inciòca... e implorare poi bianc e negro méneme a casa.
Di precauzioni, poche e improntate o alla salute del salutifero liquore: al pèdofior l'é quel del vin; o alle sue sociali prerogative: pèrs al vin, pèrsi i umighi.
Si cobra poi spesso di epicità, quasi si trattasse di una grande impresa, l'ubriacatura, come emerge da numerosi e coloriti modi di dire, di uso diffuso e in continuo conio.

29

Il bianco e il nero

chi che more 'l mondo assa e chi che rèsta se la spassa
pussà 'i canton,finida la passion

La cultura popolare: "agglomerato indigesto" la definì acutamente Gramsci, quale assunzione diversificata e funzionale della cultura "alta" in relazione con modi di pensare direttamente scaturiti dall'esperienza quotidiana.
La diversificazione e la contraddittorietà che ne derivano, nascendo i proverbi da lacerti di interpretazione del mondo in parte sorgivi in parte imitativi, sembrerebbero dover essere e rimanere generalmente inconsapevoli.
Dalla congerie dei punti di vista che emergono dalle espressioni proverbiali, quali propri, quali mutuati, sembra tuttavia far talvolta breccia la consapevolezza di una realtà contraddittoria, pur nella fissità della condizione subalterna. Certo, come si è visto, si sono conformati sedimenti più compatti attraverso i filoni del fatalismo, della povertà e di quello, generalmente trasversale, della diffidenza. E nel complesso gli aspetti della contraddittorietà e dell'ambiguità sono le punte d'iceberg della certezza.
Si potrebbe in fondo definire il proverbio il punto forte di un pensiero che si sente complessivamente debole: in tale direzione il retaggio della subalternità si giocherebbe sia in chiave di fierezza sia in chiave di senso di inferiorità. E anche se la maggior parte dei proverbi si impone culminativamente "in situazione" col crisma della lapidaria indiscutibilità, sembra emergere dal loro complesso una certa coscienza di relativismo culturale, un senso di fluidità che, intrisa di fatalismo, si caratterizza comunque come negativa. E valgano in questa ragione le massime se no tu mor de cunu te 'n sucede sènpre una o - peggio - ulpèdo no i' é mai mòrt. Ma per quanto concerne le massime che risultano, pure per arbitraria giustapposizione, scopertamente contraddittorie, eccone una serie eloquente: chi che vive mugna pan e chi che more à so dan e chi che more 'l mondo usa e chi che rèsta se la spassa ma anche pasà 'I canton, fini da lapassion e chi che sta mèjo i' é chi che i' mort; e altresì co son morti son tati conpagni e la justizia la é de entro de le porte dei zhimitèrio contro i siori i à 'l paradiso de qua e quel par de là i se lo conpra.
Ma al di là di certo più o meno consapevole relativismo culturale, nella contraddittorietà di molti proverbi e nell'ambiguità che ne deriva, e che va qui ben oltre la copertura dei temi scabrosi di matrice sessuale, si può leggere anche una certa tendenza alla mimetizzazzione e quasi anche un lasciar aperta una direttrice di fuga.
In questo modo si può leggere certa oppositività di alcune coppie di

30

proverbi: a la comare, al prete e a l'uvocato, dighe sènpre la verità che tu sarà beato e, detto di mucche da latte, le mugna fA i avocAti e le rènzhfa i prèti. Così per de riva indo ogni santo 'l juta e per jùtete che 'I Signor te juta; e per la massima quel che Dio manda no l'é mai massa e per quella più ortodossa quel che Dio manda l'é sènpre tAnt.
E ancora val pi la pràtica che la gramàtica; ma d'altro canto se no se à pràtica ghe al studiur la gramàtica. Così come la ròba te 'n canton no la perde mai stajon ma chi che sparagna la gata magna.
E di seguito in tema di previsioni meteorologiche, terreno anche per gli specialisti odierni assai lubrico: San Paulo ciaro, Zhiriòla scura, de i' inverno no von pi paura ma anche San Paulo scur, Zhiriòia solaròla, de l'inverno san ormai fòra.
E fra le massime del lavoro se un alfa pur un, dai ifapar tre, si può anche sentenziare che in pi che se é manco se fa.
Così per quanto concerne il rapporto pianura/montagna onora la canpa gnu ma tiente la montagna ma anche loda 'i monte ma tiente 'I pian e in montagna e chi che no ghe 'nporta no ghe 'n mugna.
E una certa frizione si può cogliere anche nel colorito metalinguismo dei due seguenti proverbi: vozhe de popolo vozhe de Dio e i nostri vèci supèrbi i ne à magnà la roba e i ne à ussà i provèrbi; da intendersi, quest'ultimo, come dichiarazione difensiva di posteri di fronte alla sapienza, sentita come un po' invadente, dei nostri vecchi.
Ma, come già detto, nel suo assetto composito un sistema paremiologico si configura come una struttura complessivamente unitaria: se certo ha in sé delle contraddizioni - da cui non sono comunque esenti sistemi più alti elaborati dall'uomo - queste non sono tali da alterarne la sostanza profonda.

NOTA
I proverbi analizzati, al di là di quelli direttamenti raccolti nella Vallata delle Prealpi
Trevigiane (denominazione che vuol qui geograficamente riferirsi alla valle che va da
Longhere a Combai), sono stati tratti da: Peruch Paolo, Contributo allo studio dei proverbi del Veneto con particolare riguardo al Comune di Vittorio (tesi di laurea), Padova, A. A. 1963-64
Marson Luigi, Proverbi di Vittorio e in uso a Vittorio, De Bastiani, Vittorio Veneto 1980


BIBLIOGRAFIA

D. Coltro, Paese perduto, Verona, Bertani, 1975-1982
U. Bernardi, Una cultura in estinzione, Padova Marsilio 1975
G. L. Cibotto, Proverbi del Veneto, Milano, Martello-Giunti 1969
M. Del Ninno, Proverbi, in Enciclopedia, Torino Einaudi 1980
C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino, Einaudi 1971
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore 1971
F. Remotti, Lévi-Strauss: storia e struttura, Torino, Einaudi 1970
G. P. Caprettini, Aspetti della semiotica, Torino, Einaudi 1980
Van Gennep A., Manuel de folklore francais contemporain, Picard, Paris 1943
Saintyves, P., 1936, Manuel de folklore, Nourry, Paris 1943
L. Prandi, Popolare, in Enciclopedia, Torino, Einaudi 1980
R. Jakobson, Poetica e poesia, Einaudi, Torino 1985
A. Marchese, Dizionario di retorica e stilistica, Mondadori, Milano 1978
J. Dubois (et al.), Dizionario di linguistica, Bologna Zanichelli 1989
G. B. Pellegrini, Studi di dialettologia e filologia veneta, Pisa, Pacini 1977
A. Zamboni, Profilo dei dialetti italiani, Veneto, Pisa, Pacini 1974
E. Zanette, Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto, De Bastiani 1980
E. Migliorini - G. B. Pellegrini, Dizionario delfeltrino rustico, Padova, Liviana 1971
G. Tomasi, Dizionario del dialetto di Revine, Istituto Bellunese di Ricerche Sociali e
Culturali, Belluno 1983
Giunta Regionale del Veneto (a cura della), Grafia Veneta Unitaria, Editrice La Galiverna, Venezia 1995
A.A.V.V. Dizionario di linguistica, Zanichelli, Bologna 1989


<<< indice generale
http://www.tragol.it