Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°13 - 2001 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane

Rassegna Bibliografica

GIOVANNA MORANDOTTI, Una fontanella a Wuzburg, Grafiche De Bastiani, Vittorio Veneto, 2000, pagg. 143.

Un semplice libro di memorie - uno dei tanti scritti da sopravvissuti alle bufere della guerra - diventa messaggio di altruismo e di umanità.
E questa l'impressione che si ricava dalla lettura dal racconto - molto documentato, in appendice, da schede e notizie biografiche dei protagonisti - in cui ènarrato in prima persona un singolare "calvario" nel pieno della tragedia della seconda guerra mondiale ormai all'epilogo.
Lei è una giovane, che, sul finire del 1943, insofferente della vita in famiglia,
da Pavia si reca in Germania a cercare lavoro ed approda in Sassonia, dove entra come allieva infermiera volontaria nel Sanatorio antitubercolare di "Lindenhof' in Coswig, provincia di Dresda.
Nel reparto militare di quella "Tuberkolose Klinik" è, tutto sommato, bene accetta da colleghe e medici, oggetto anche di qualche scherzo spensierato, vero antidoto all'atmosfera plumbea di quel luogo di dolore (che diviene anche, ad un certo punto, preventorio per figli di tubercolosi), in cui le mansioni sanitarie sono spesso macabre e dove, come in uno stillicidio, tante giovani esistenze si spengono.
Nessuna notizia diretta da casa in Italia, se non l'assicurazione della regolarità dello stipendio spedito dall'amministrazione tedesca. Intanto gli eventi precipitano (l'apocalisse di fuoco per Dresda).
Sconvolgente per la giovane infermiera è l'incontro con un gruppo di italiani di un vicino campo di interna-mento. Le condizioni pietose, in cui li ha visti, la spingono a sortite notturne per recar loro medicinali e generi di conforto e - con la complicità di un tenente medico di origine italiana - a ottenerne il trasferimento di una dozzina all'ospedale, come inservienti.
Arriva la fine della guerra col dilagare dell'Armata Rossa e la decisione dell'infermiera, con alcuni connazionali, di cercare scampo oltre l'Elba. Cominica così, con piccole scorte caricate su carretti a mano, un'odissea incredibile in un paesaggio sconvolto dalle devastazioni, tra lager controllati dagli
americani o dai russi, sempre col miraggio del rimpatrio in Italia, ma con l'impellente necessità di assicurare controlli e cure mediche agli ammalati del gruppo. Per l'infermiera italiana ormai l'imperativo è rimanere accanto a quei ragazzi, aiutarli a tornare a casa. L'ultima tappa germanica è in Turingia, dove gli alleati hanno attivato un buon ospedale. Poi, finalmente, c'è un treno per il Brennero.
Stranamente il racconto di Giovanna Morandotti, pur immerso nelle atrocità della guerra e delle immani sofferenze che essa comporta, non porta a fremere e a inorridire. Ciò perché l'autrice, pur consapevole della tragedia che la circonda, porta sempre in primo piano episodi attestanti che la pietà non è morta, che, anche nei momenti di più basso degrado della civiltà, rispuntano l'altruismo e l'amore. E, nella desolazione, emerge il valore universale della solidarietà, rivolta non solo ai connazionali, ma a chiunque ne abbia bisogno, senza distinzioni, perfino ai tedeschi, ora inermi, fino a ieri aguzzini contro cui covava il naturale impulso alla vendetta.
Spiccano figure di un eroismo silenzioso: la dottoressa ebrea, gli ufficiali medici, il cappellano militare, che, reduce dalla Russia, sceglie di stare con i suoi soldati e si fa intemare con loro; ma insieme tante altre figure minori, compresala sentinella americana che aiuta gli italiani a rubare nel deposito affidato alla sua sorveglianza.
Tutto è narrato all 'insegna della semplicità: sono andata, sono rimasta, cosa ho fatto; sempre minimizzando il coraggio, i rischi, l'abnegazione, le sofferenze fisiche e morali.
Totale: una bella, delicata lezione di umanità.

Mario Ulliana


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