Tratto dalla Rivista quadrimestrale di studi vittoriesi - IL FLAMINIO n°13 - 2001 - Edita dalla Comunità Montana delle Prealpi Trevigiane

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ANCORA SULLA MOSTRA "IL TEMPO DEI LONGOBARDI'


Il prof Claudio Azzara, dell'Università di venezia, chiamato in causa come autore del saggio "Il Trevigiano in età longobarda", comparso sul catalogo della Mostra "Il tempo dei Longobardi", Vittorio Veneto, 10 Settembre - 31 Dicembre 1998, ci invia questo contributo, riguardante alcune affermazioni contenute nella nota di Giorgio Arnosti in margine alla Mostra su "Il tempo dei Longobardi", apparsa sul n. 12 del Flaminio.
Lo pubblichiamo volentieri.


La mostra "Il tempo dei Longobardi. Materiali di epoca longobarda dal Trevigiano", che è stata ospitata dal Museo del Cenedese di Vittorio Veneto dal 10 settembre 1999 al 28 febbraio 2000, ha offerto l'opportunità non solo per presentare a un più vasto pubblico testimonianze archeologiche in genere note ai soli specialisti e a pochi appassionati, ma anche per riepilogare le conoscenze sul tema, allo stato attuale della ricerca. Le vicende del territorio trevigiano durante l'età longobarda (cioè tra il 569 e il 774) sono destinate a restare per noi in larga misura inevitabilmente oscure, data l'estrema laconicità delle poche fonti scritte disponibili. Qualche ulteriore informazione proviene dal dato archeologico e la mostra in oggetto si è per l'appunto proposta quale sede in cui incrociare le notizie e i contributi specifici, per giungere a una sorta di bilancio, pur nella consapevolezza che i risultati sono sovente parziali e attendono ulteriori sviluppi d'indagine.
Gli intenti sottesi all'iniziativa di riordinare quanto conosciuto, divulgarlo e al contempo stimolare nuove analisi risultano dichiarati in modo esplicito nel catalogo della mostra stessa, curato da Marisa Rigoni e da Elisa Possenti; nella medesima sede, anche la presentazione di Vittorino Pianca insiste apertamente sulla natura di "work in progress" della mostra. Sorprende non poco, perciò, che si sia voluto accusare "Il tempo dei Longobardi" e il suo catalogo (Giorgio Arnosti, In margine alla mostra su "Il tempo dei Longobardi", "Il Flaminio", 12 (1999), pp. 149-160) di aver preteso di imporre alcune nozioni quali fossero "atti di fede", cioè verità presentate come definitive e incontrovertibili.
Al contrario, appare come sia proprio la recensione a ripetere alcuni assiomi circa diversi aspetti dell'argomento, sovente senza il conforto di un'adeguata base di prova. Inoltre, essa dimostra di ignorare la più recente bibliografia sul tema, quella che si offre i risultati più aggiornati della ricerca e con la quale si confronta invece (citandola puntulmente) il discorso svolto nel catalogo, si tratta di interpretazioni dalle quali si può beninteso dis sentire, anche in modo radicale, ma dalle quali non si può prescindere a priori, per rivolgersi invece in via esclusiva a studi vecchi e in larga misura decisamente datati.
Così, la lunga argomentazione con cui si pretende di opporre la vecchia datazione dell'ingresso in Italia dei longobardi nel 568 (anziché, come ècorretto, nel 569) si svolge senza il minimo cenno allo studio di Ottorino Bertolini (La data dell'ingresso dei Longobardi in Italia, in Scritti scelti di storia medievale, I, Livorno 1968, pp. 19-61), che ha dimostrato la validità della proposta a favore del 569 in modo tanto convincente da farla accogliere da tutti i maggiori specialisti odierni di cose longobarde (si potrebbero citare, a puro titolo di esempio, Paolo Delogu, Stefano Gasparri, Joirg Jarnut). Del resto, la questione viene puntualmente segnalata nel catalogo, alla pagina 157. Ancora, l'ipotesi di individuazione del confine del ducato trevigiano sul Livenza non è certo "sfuggita" nel testo del catalogo medesimo, come immagina il recensore, quasi si trattasse di una sorta di svista, ma poggia su quanto affermato dallo studio di Stefano Gasparri, Dall' età longobarda al secoloX, in Storia di Treviso, a.c. di E. Brunetta, vol. Il: Il Medioevo, a c. di D. Rando-G.M. Varanini, Venezia 1991, p. 13; mentre non risponde al vero che si voglia escludere del tutto l'eventualità che una presa di Ceneda possa essere avvenuta in anni vicini al momento dell'ingresso dei longobardi in Italia, dal momento che ci si limita ad affermare, piuttosto, (a p. 25) come rimanga impossibile datare la creazione del ducato non essendoci alcuna notizia positiva in merito nelle fonti. Proseguendo rapidamente, l'identificazione di Paulicio con il duca di Treviso (e non di Ceneda) era già stata suggerita da Gian Piero Bognetti e viene di recente confermata, tra gli altri, dallo studio di Gasparri di cui sopra e anche dal successivo Venezia fra i secoli Ville IX. Una riflessione sulle fonti, in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 3-18. Infine, non si vede come dallo stringato passo di Paolo diacono sull'incontro tra il vescovo Felice e il re Alboino sia possibile ricavare la tesi di una mancata "occupazione" di Treviso da parte dei longobardi a questa data, anziché pensare, più semplicemente, a un accordo che salvaguardò, con le proprietà della chiesa trevigiana, la popolazione romana inquadrata dal vescovo all'interno di un centro urbano in cui pure si erano insediati longobardi: a questo riguardo, basterebbe vedere, se non il citato studio di Gasparri del 1991, almeno il commento al testo di Paolo presente nella recente edizione della Storia dei Longobardi curata da Lidia Capo (Milano 1992), alla p. 435.
La povertà della documentazione sull'Italia longobarda consente allo studioso scarse certezze e lo costringe spesso a procedere per ipotesi, che restano difficili da provare in modo risolutivo (e che devono comunque costruirsi sui dati concretamente disponibili, non sulle supposizioni). Tuttavia, è evidente come qualsiasi confronto di interpretazioni diverse acquisti valore solo se sa muovere da una base comune di conoscenze e letture e abbia consapevolezza dello stato presente della ricerca, con la quale potersi misurare; altrimenti, esso rischia di ridursi alla libera enunciazione di formule non confrontabili e perciò destinate a restare sterili e isolate.

Claudio Azzara

Breve replica dell'autore della Nota.

Non me ne vogliano se mi permetto di rispondere brevemente a quanto sopra.
Ha suscitato gran meraviglia che fra i propugnatori della datazione al 569 dell'ingresso dei Longobardi in Italia sia elencato anche lo Jarnut. Questi invero ammette che "... Alboino, il giorno di Pasqua del 568, partì con il suo popolo dalla Pannonia..." (in Storia dei Longobardi, ed. Einaudi 1995, p. 44); e poco più avanti (a pag. 30) che "in rapida successione nell'estate e nell'autunno del 568 caddero in mano dei Longobardi le più importanti città dell 'Italia Nordorientale".
Quanto agli studi vecchi e datati su cui ho basato le mie argomentazioni (che non vengono confutate), viene lamentato che io non abbia accennato allaricerca del grande Ottorino Bertolini, La data dell'ingresso deiLongobardi in Italia, Livorno 1968. Questo studio, come ben si sa, risale al 1920, essendo apparso per la prima volta in "Bollettino della Soc. Pavese di St. Patria", XX, pp. 19-61 (e a lume di naso forse rivisto nel 1970, col titolo "Il problema cronologico dell'ingresso dei Longobardi in Italia", UD-Cividale, Atti conv. St. Longob.?). Proprio questo studio sarebbe tanto convincente nella sua proposta a favore del 569, che, fra gli specialisti portati più sopra a puro titolo di esempio, pure dal Delogu non è tenuta in gran conto. Effettivamente lo stesso precisa: "Nella tarda primavera del 568 i longobardi passarono i valichi delle Alpi orientali e penetrarono in Italia" (Delogu P., Il Regno Longobardo, 1980, in Delogu, Guillou, Ortalli, Longobardi e Bizantini, a p. 3). Addirittura a p. 13, dove ancora insiste sulla datazione dell'ingresso al
568, il grande medievalista cita in nota il succitato saggio del Bertolini, ma espressamente rifugge dall'accreditarne l'impostazione cronologica "che -testuale - ritarda al maggio 569 l'ingresso dei longobardi in Italia in base ad un'interpretazione del racconto di Paolo Diacono..." (Delogu, Op. cit., p. 13, nota 5).
Quanto al resto - e taglio corto - son ben convinto che è buona norma appoggiarsi sulle elucubrazioni dei maggiori, ma dal mio modesto punto di vista di dilettante, con un occhi ai sommi maestri passati e recenti, e non particolare attenzione ai dati e alle fonti, libero da soggezioni, preferisco avventurarmi nei dedali della ricerca, possibilmente originale.
Ben consapevole che l'obbiettività dei fatti si stempera inevitabilmente nella propria personale interpretazione degli avvenimenti.
E mi sia consentito infine di dichiararmi indulgente nei confronti dei responsabili, per l"insulto" storico nel sottotitolo del catalogo della mostra.

Giorgio Arnosti


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