LINO SCALCO, Da/filato al manufatto. La Sigismondo Piva Spa di Valdobbiadene
tra ascesa e decadenza: 172 7-1989, Padova, Esedra editrice,1998, pp.
238.
L'espressione "archeologia industriale" è in uso ormai
da molti decenni. Essa definisce una specifica scienza, che studia le
vecchie strutture industriali, ma, per la verità, è prevalentemente
usata per indicare l'attenzione rivolta ai grandi edifici che una volta
ospitavano le attività industriali e che ora, per ragioni di
inadeguata struttura o, più spesso, di ubicazione, non possono
più essere usati per le finalità originarie. Qualche volta
ci si limita a indicare la necessità di "tenere in piedi"
edifici e strutture sul limite di crollare, per mantenere visibili certi
significativi documenti del "vecchio modo" di lavorare, spesso
perfino affascinanti nella loro cadente inutilità (si pensi a
certe vecchie fornaci, o a certe altissime ciminiere ormai da decenni
prive del loro pennacchio). Ma più spesso ci si scervella per
trovare un modo di "riusare" le strutture, mantenendone la
fisionomia originaria. Nascono così soluzioni anche brillanti,
ma non mancano nemmeno gli adattamenti "furbastri", che finiscono
con lo snaturare la struttura, ridotta malinconicamente solo a involucro
di "altre cose". Un po' come -esempio ormai classico - l'inginocchiatoio
della vecchia chiesa riutilizzato (si fa per dire) come mobile - bar.
La cosa che, poi, normalmente sfugge, è che l'edificio ha contenuto
negli anni un'attività- macchine in moto, uomini e donne al lavoro,
prodotti - e che tutto ciò ha tracciato nel tempo una traiettoria
paragonabile a quella della vita di un individuo. E che, così
come èbello e giusto conoscere, degli uomini -di tutti gli uomini
- la storia, altrettanto, e forse ancora di più, è bello
e giusto conoscere la storia di questi organismi complessi che sono
le fabbriche, le industrie, gli opifici.
Il paragone tra la vita di un individuo e la vita di un'industria è,
mi pare, legittimo, e anche suggestivo, ma merita un approfondimento.
La vita di un uomo èil percorso che egli compie tra due eventi
naturali: la nascita e la morte. L'uomo sa di dover morire. In passato
si diceva che, quando uno muore, "paga il suo debito alla natura".
Una fabbrica, un'industria, invece, quando nasce, non obbedisce a leggi
di natura, ma è il frutto dell'intelligenza e dell'iniziativa
imprenditoriale di uno o più individui. Poi viene il tempo della
vita, in cui si coniugano l'intelligenza, la fantasia, la progettualità,
la fatica e il sudore di un gruppo di persone, organizzate secondo collaudate
gerarchie, che hanno due soli fini: quello di realizzare prodotti capaci
di "conquistare" spazi sempre più larghi nel mercato;
e quello di far sì che la loro fabbrica, la loro impresa, possa
vivere una vita sempre più sicura e vincente. Ma alla fine viene
anche, ineluttabile, per essa, il momento della chiusura, della scomparsa,
della morte. Che, per non essere "debito di natura", è
sentita da tutti come una sconfitta.
Per tutto ciò, scrivere la "biografia" di un'industria
è infinitamente più difficile che scrivere la biografia
di una persona. Per questa, infatti, ci sono i testimoni, le carte,
i documenti, gli scritti, le opere: ed essa è sentita in genere
come atto di omaggio alla persona scomparsa; ma per la storia di un'industria
spesso le carte mancano, i documenti sono tenuti riservati, le testimonianze
sono incerte, o magari anche reticenti; e la ragione è una sola:
che la fine dell'impresa è considerata in genere una sconfitta,
un fallimento (e talora lo è anche giuridicamente): per cui,
sulla esigenza di ricordare, prevale la voglia di dimenticare.
Questa riflessione ci è suggerita da un libro, uscito in questi
mesi, che narra la vita- dalla nascita alla morte: ben 162 anni - della
Sigismondo Piva Spa di Valdobbiadene. Opera di Lino Scalco -un autore
già variamente impegnato in lavori di storia industriale, con
il quale ha collaborato Alessio Berna, estensore del primo capitolo
- il libro è frutto di un lungo lavoro di ricerca e di analisi,
condotto con pazienza e competenza, fra mille difficoltà dovute
anche alla dispersione di molte carte (con ogni probabilità,
per le ragioni esposte più sopra). Ma la fatica di Scalco è
stata anche facilitata dal fatto che la "Piva", profondamente
incamata nella realtà sociale valdobbiadenese, ha vissuto la
sua parabola "dentro" la storia della comunità, le
cui pagine - ora felici, ora tristi e sventurate - narrano anche, sia
pure in controluce, la storia della più importante impresa industriale
che quel territorio abbia mai conosciuto.
Nel primo capitolo del libro Alessio Berna, utilizzando le ricerche
compiute per la sua tesi di laurea in scienze politiche,, traccia un
lucido profilo storico della produzione serica in area veneta dal seicento
ai nostri giorni, con particolare riferimento a Valdobbiadene: utile,
anzi indispensabile introduzione alla materia dell'opera.
Segue, in altri sette capitoli, la storia della Piva, dall'avvio ad
opera del fondatore Pietro Piva, al successivo sviluppo realizzato dal
figlio Sigismondo, che darà il nome alla ditta, e dai suoi successori
in famiglia (non tutti in linea diretta), con un percorso che vedrà
negli anni il passaggio - vedi il titolo del libro -"Dal filato
al manufatto", cioè dal primo filatoio a un vero e proprio
sistema di filande, a industria di produzione di manufatti serici (calze,
corsetteria ...):
nell'assiduo impegno di aggiornare i processi produttivi e di differenziare
la produzione stessa, per seguire e, ove possibile, anche precedere
l'evoluzione delle mode e dei gusti, e le conseguenti oscillazioni dei
mercati. Il successo per lungo tempo arride alla Piva, ma il trascorrere
degli anni, con le catastrofi che investono l'intera nazione - due guerre,
e la prima di esse con l'invasione, che porta Valdobbiadene ai limiti
dell 'estrema rovina - lascia il segno sulla gloriosa industria, alla
quale ad un certo punto non basterà per far fronte alla cangiante
irregolarità dei mercati, alla concorrenza internazionale, allo
stesso irrompere delle fibre artificiali, affidarsi a nuove produzioni,
adottare nuovi marchi, puntare sul potere nascente della pubblicità,
e infine tentare la via dell'integrazione con nuove energie e nuovi
soci, magari di gran nome: l'inesorabilità della parabola porta
alla fine la Piva ad essere incorporata in altra società (27
febbraio 1989); e seguirà poco dopo, il 25 maggio 1992, il fallimento
della società incorporante.
Una morte, com'è normale per tutte le morti, malinconica. Ma
la biografia è la storia di una vita, e la Piva resta, nella
memoria dei luoghi, soprattutto come organismo vivente, che ha accompagnato
- e sorretto, e promosso - la vita della comunità: in questo
senso suonano le voci dei testimoni dei vari momenti di essa, che Scalco
giustamente registra (ed è la parte più bella del libro,
che si vorrebbe anche più ricca). Si può dire, insomma,
che ci troviamo di fronte ad una pagina di storia di Valdobbiadene,
vista da una particolare angolatura, che la rende perfino più
interessante, certo non scontata.
Mi chiedo, da vittoriese che ha assistito alla "morte" di
numerose piccole industrie "storiche" di questa città,
se non sia possibile che qualcuno - magari qualche giovane studioso
del luogo, o anche gli stessi autori del libro di cui stiamo trattando
- ne tracci le "biografie". E lo stesso discorso si potrebbe
fare per altre industrie scomparse, nell'intera zona della Comunità
Montana, negli ultimi decenni. Sarebbe un approccio interessante e utile
alla storia recente di questi luoghi. E potrebbe essere anche una salutare
lezione per i nostri conterranei del Duemila.
Aldo Toffoli
<<<
indice generale