GIovanni ROMAN
IL DUCATO LONGOBARDO DI TREVISO
Secondo il racconto di Paolo Diacono, il vescovo di Treviso
Felice nel marzo del 569 andò incontro ad Alboino e alla sua gente
in riva al Piave che all'epoca, con ogni probabilità, era il confine
politico-amministrativo orientale della diocesi trevigiana. E' questo
il primo episodio di storia longobarda riguardante Treviso. Lo storico
cividalese afferma che, in seguito all'atto di sottomissione del vescovo,
il re longobardo non solo risparmiasse la città dal saccheggio
e dalla probabile devastazione, ma lasciasse intatti tutti i possedimenti
della chiese trevigiana(1). L'ex Decima Regio, nel VI secolo in particolare,
era popolata da consistenti nuclei germanici e Treviso stessa era stata
un centro fortificato gotico(2) nella quasi ventannale guerra di riconquista
intrapresa da Giustiniano. Comprensibile, dunque, la scelta dei Longobardi
di crearsi proprio qui un punto d'appoggio militare, logistico e in seguito
amministrativo(3), in vista di una rapida e progressiva espansione su
tutta l'Italia. L'atto di sottomissione di Felice, poiché altre
piazzaforti dell'Italia settentrionale decisero invece di resistere ai
Longobardi e vennero conquistate con la forza, potrebbe essere interpretato
come un gesto dettato dalla mancanza di un presidio bizantino sufficientemente
munito, oppure, più probabilmente, come il prevalere della volontà
di uno schieramento
1) PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum,
Il, 12. 2) PROCOPIO DI CESAREA, Bellun Gothicum, VI, 29; VII, 1, 2, 3.
3)S. GASPARRI. Dall' età longobarda al secolo X, in Storia di Treviso,
voi. 11,11 Medioevo, Venezia, Marsilio, 1991, p. 12.
GIOVANNI ROMAN. Laureato in Conservazione
dei Beni Culturali. Ha partecipato a campagne di scavi archeoiogici e
a ricerche in tema di paesaggio veneto, producendo su tali materie varie
pubblicazioni.
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filogermanico composto in larga parte da ceti materialmente beneficiati
e socialmente emancipati dalla politica di Totila(4). Dopo soli tredici
anni trascorsi dalla fine della guerra greco-gotica essi erano già
insofferenti del nuovo, gravoso fiscalismo bizantino e del ritorno dei
latifondisti(5). Questi ultimi, infatti, stanziati nelle loro ville-fortezze
sparse nelle campagne e di fatto i veri controllori della vita economica,
civile e giudiziaria erano pronti a riprendere con qualsiasi mezzo, lecito
o illecito, la rapida e inesorabile erosione della media e piccola proprietà
terriera, limitando fortemente i diritti delle popolazioni rurali e rovinandole
materialmente. Felice, la cui esistenza ci è confermata dai versi
del poeta Venanzio Fortunato e dalla sua stessa presenza al Sinodo di
Marano del 590, assunse così, già nella tradizione storiografica
più antica, il ruolo di defensor civitatis ricalcando l'impresa
del leggendario predecessore Elviando di fronte alla furia degli Unni,
abbattutasi sull'Occidente nel secolo precedente(6). Difficile dire se
i fatti siano andati realmente così, dal momento che la supplica
del vescovo trevigiano ricalca stereotipi comportamentali e di regolazione
dei rapporti giuridici, da parte di vescovi e abati di fronte al potere
politico(7), ampiamente diffusi nell'VIII secolo, epoca in cui il Diacono
scrive e dal momento che la concessione di Alboino venne addirittura garantita
da una "prammatica" regia(8). La stessa generosità di
Alboino, davvero inusuale per un capo longobardo del VI secolo, può
essere materia di riflessione. Questo gesto del re longobardo può
essere in ogni caso interpretato come una mossa strategica dettata dall'esigenza
di una rapida marcia lungo la Postumia all'interno di un disegno strategico
generale di invasione(9). Per il Diacono, inoltre, in conformità
al programma ideologico e culturale della corte carolingia - basti vedere,
ad esempio, l'opera di Eginardo, Vita Karoli - la figura del sovrano cristiano
ideale doveva essere la personificazione per eccellenza di un insieme
di virtù cristiane e laiche: tra queste vi erano la clemenza e
la magnanimità.
Dunque, anche il ritratto e la caratterizzazione di Alboino, indipendentemente
dalla verità dei fatti, sembrano rispondere ad una serie di stereotipi
biografici della storiografia carolingia, erede di quella romana nell'Occiden
4) C. AZZARA, Venetiae. Determinazione di
un'area regionale fra antichità e alto medioevo, Fondazione Benetton
Studi e Ricerche, Treviso, Canova Editore, 1994, p. 64.
5) G. LUZZATTO, Breve storia economica dell'Italia medievale. Dalla caduta
dell'Impero romano al principio del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1993,
XVI ed., p. 33.
6) L'episodio di Eiviando è, con ogni probabilità, un'invenzione.
Si tratta piuttosto di una trasposizione indietro nel tempo dei fatti
ricordati dai Diacono. Cfr. F. UGHELLI, Italia Sacra sive de espiscopis
Italiae, a cura di N. Coleti, voi. V, Venezia, 1720, p. 489.
7) GASPARRI, Dall' età longobarda, cit., p. 6.
8) PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, cit. Il, 12.
9) W. DORIGO, Venezia Origini, voi. I, Miiano, Eiecta, 1983, p. 223.
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te altomedievale cristiano. Da parte del Diacono evidente
anche qui, come in altri passi dell'Historia , l'intento di nobilitare
la figura del primo grande re longobardo e con esso tutto il suo popolo.
I duchi, dopo il decennio di anarchia, cedettero al regno la metà
dei loro territori(10), aumentati in misura notevole in seguito alle violente
confische operate sotto Clefi, successore di Alboino e durante il decennio
d'interregno ducale. In tal modo, da allora i re ebbero una grandissima
base territoriale capace di assicurare il reclutamento di un numeroso
esercito dipendente direttamente dal sovrano e forte deterrente nei confronti
delle tendenze autonomistiche dei duchi. Sui territori regi i sovrani
longobardi insediarono le arimannie, gruppi di guerrieri vincolati da
un giuramente di fedeltà fatto direttamente al re. Agilulfo, salito
al trono dopo Autari, grazie ai suddetti provvedimenti riuscì a
reprimere una rivolta attuata da alcuni duchi, tra cui Ulfari diTreviso,
il quale, assediato dalle truppe regie in città, fu infine catturato(11)
.
Più drammatica e anche unica testimonianza su Treviso nel VII secolo
fu la ribellione di Alahis, duca di Trento e Brescia, contro il legittimo
re Cuniperto, avvenuta intorno al 680. Questo riottoso duca, approfittando
della momentanea assenza di Cuniperto, usurpò il palatium pavese.
Scacciato da Cuniperto, quando il re ritornò a Pavia, si diresse
nell'Austria costringendo con le armi i ducati di Treviso, Ceneda e Vicenza
a passare dalla sua parte: "(Alahis) Tarvisium pervasit, pari modo
etiam reliquas civitates"(12). Dopo l'inutile tentativo di un'alleanza
con i Friulani, che rifiutarono e passarono dalla parte di Cuniperto,
fu sconfitto e ucciso nella battaglia di Coronate d'Adda.
Fino ad oggi, i dati di cultura materiale in nostro possesso sono stati
ricavati dai reperti tombali, dal momento che gli insediamenti longobardi
o di età longobarda finora individuati - se si eccettuano Invillino
nel Friuli e Castelseprio in provincia di Varese - sono ancora poco conosciuti.
Molti dati archeologici consistenti prevalentemente in elenchi descrittivi
dei reperti e in relazioni e rapporti di scavo, spesso risalenti agli
inizi del secolo o addirittura alla fine dell'Ottocento (epoca in cui
le metodologie di scavo e i criteri di valutazione scientifici e cronologici
erano assai diversi da quelli odierni, ma per lungo tempo seguiti dagli
studiosi) sono stati recentemente rielaborati e reinterpretati per quanto
era possibile e divisi per ambiti territoriali regionali.
Solitamente, nelle necropoli longobarde della seconda metà del
VI secolo, la composiizone dei singoli corredi viene considerata prova
affida
10) PAOLO DIACONO, Historia, cit., III, 16.
11) PAOLO DIACONO, Historia, cit., IV, 3.
12) Ibid., V, 39.
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bile della condizione etnica e sociale del defunto. Secondo
questo criterio, gli oggetti d'oro e d'argento ritrovati nelle sepolture
a inumazione d'età longobarda, sarebbero tipici delle tombe di
ricchi personaggi, appartenenti cioè all'EOvoy dominante, mentre
le deposizioni contenenti poche o nessuna suppellettile di corredo, apparterrebbero
ad autoctoni. Nelle tombe più ricche, l'adozione di oggetti di
manifattura bizantina oltre che indicare una disponibilità di manufatit
sul mercato e quindi l'esistenza di traffici commerciali, costituisce
anche una testimonianza dei rapporti con la cultura locale. Proprio in
quest'ambito potrebbe rientrare la crocetta d'oro di pregevole fattura
risalente al V-VI secolo, contenuta nel sarcofago scoperto a Treviso in
via Tomaso da Modena nel 1950 e simile ad altri esemplari rinvenuti nell'Italia
settentrionale(13). Nelle sepolture maschili longobarde, lapresenza delle
armi tra gli oggetti del corredo, se letta come un segno di chiara ed
inequivocabile volontà di distinzione dalle popolazioni autoctone,
atraverso la quale affermare la propria appartenenza al gruppo etnico
dominante, deve essere considerata una variabile da valutare in relazione
ad ogni singola situazione locale e quindi all'esigenza o meno, di mantenere
tale distinzione(14). Altra variabile è la presenza di materiali
preziosi nelle sepolture ubicate entro zone caratterizzate da una consistente
presenza longobarda, come ad esempio Cividale del Friuli. Qui il cospicuo
numero di ricchi corredi, tipici del rituale funebre degli altri lignaggi
germanici, sembra svolgere la funzione di elemento coesivo al fine si
salvaguardare l'identità del gruppo e solitamente si riscontra
nelle aree a forte competizione etnica e sociale.
L'unico ritrovamento finora noto di tombe contenenti un corredo d'armi
all'interno del ducato trevigiano è quello avvenuto nel 1898 in
località Lazzaretto di Bassano del Grappa (VI), vicino alla chiesa.
Da due sepolture vennero infatti recuperati due umboni di ferro, di cui
uno con borchie dorate, due punte di lancia di ferro, una spatha ridotta
in frammenti e un coltello, databili alla prima metà del VII secolo(15).
Nel ducato di Treviso, analogamente a tante altre zone del regno, i corredi
funebri finora rinvenuti, eccetto il suddetto ritrovamento, non risultano
13) M. BUORA, Oltre la frontiera. Tracce
di acculturazione tra varie popolazioni nell'area altoadriatica e nell'arco
alpino (V-VIII secolo), in Città, castelli, campagne nei territori
di frontiera (secoli VII-VII), V seminario sui tardoantico e l'altomedioevo
in Itaiia centrosettentrionaie, Monte Barro-Galbiate (Lc), 9-10 giugno
1994, a cura di G.P. Brogiolo, Mantova, Soc. Coop. Archeologica, 1995,
pp. 135-136.
14) C. LA ROCCA,Le necropoli altomedievali, continuità e discontinuità.
Alcune riflessioni, in Il territorio tra tardoantico e medioevo. Metodi
d'indagine e risultati, Firenze, Edizioni all'Insegna del Gigiio, 1992,
p. 28.
15) I materiali sono attuaimente conservati presso il Museo Civico di
Bassano dei Grappa (VI), (nn. inventario 142, 142b, 143, 144, 145, 146,
147).
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composti da materiali preziosi né possono essere
definiti tipicamente longobardi. Nel 1874 a Farra di Sopra, nel comune
di Castelcucco d'Asolo, presso l'attuale municipio, secondo circostanze
e modalità ignote furono scoperte due tombe e inumazione. Una di
esse restituì il corredo funebre di un bambino, costituito da una
crocetta aurea e da alcune fibule di ferro. L'analisi stilistica della
croce, reperto di fattura semplice, permise di datare la sepoltura al
VII secolo. Dall'altra sepoltura fu recuperato anche un orecchino a globulo
poliedrico. I materiali, oggi dispersi, ci sono noti solamente grazie
alla documentazione fotografica. A Castello di Godego, piccolo comune
ubicato sul confine occidentale della provincia di Treviso, a ridosso
della via Postumia, in data imprecisata sullo spiazzo erboso antistante
la chiesa campestre di S. Pietro venne rinvenuta una sepoltura. Essa conteneva
orecchini e fibule bronzee con smalti, risalenti al secolo VII(16) Una
necropoli altomedievale, ubicata sulle pendici collinari prealpine nel
comune di Borso del Grappa (TV), è stata esplorata sistematicamente
tra il 1994 e il 1995 durante due campagne di scavi condotte dalla Soprintendenza.
Le inumazioni, direttamente sovraposte a una necropoli paleoveneta databile
tra il VII e il V secolo a.C., erano prive di corredo, eccetto tre sepolture
maschili che presentavano ciascuna un pettine in osso. Questi tre pettini
hanno permesso di datare la necropoli ad un periodo compreso tra il VIe
il VII secolo d.C. Nell'estate del 1994, presso Maserada sul Piave, è
stato compiuto un casuale e disorganico ritrovamento di una sepoltura
femminile risalente al VI secolo e di numerosi frammenti ceramici e materiali
ferrosi combusti, probabili scorie di lavorazione di attività manifatturiere,
ma purtroppo avulsi da un preciso contesto archeologico e stratigrafico.
Nei pressi del capoluogo trevigiano non sono finora state rinvenute sepolture
e relativi corredi qualificanti con certezza un'appartenenza etnica e
sociale longobarda, probabile sintomo, almeno per quanto concerne il rituale
funerario, di una precoce integrazione culturale(17). Anche nel resto
del ducato la scelta di non adottare corredi funebri specifici fu - credo
-conseguente alla volontà di non operare distinzioni tese a connotare
peculiari status etnici e sociali rispetto a quelli esistenti presso le
popolazioni autoctone per via della forte presenza di genti germaniche
stanziate fin dal V secolo nella pianura padana, nelle zone prealpine
e in quelle alpine. Grazie a questa "favorevole" distribuzione
demografica, probabilmente i Longobardi non si preoccuparono di dover
mantenere le proprie pratiche funerarie quale parte
16) L. COMACCHIO, Storia diAsolo, vol. VI, Castelfranco
Veneto (TV), Tipografia Moro
Editrice, 1971, p. 27. Tuttavia, recenti indagini, ancora in corso, stanno
spostando ad epoca
successiva (secoli IX-X) la cronologia di questi materiali.
17) LA ROCCA, Le necropoli altomedievali, cit., p. 29.
21
integrante della loro identità etcnico-culturale,
come invece accadde nel Friuli. Per il VII secolo e in particolare nel
territorio ducale trevigiano la relaiva, reciproca integrazione tra il
popolo dei discendenti di Alboino e gli abitanti dell'Italia, ricavabile
dalle fonti scritte, è confermata dalla difficoltà di operare
una distinzione tra i contesti funerari longobardi e quelli autoctoni,
in sede archeologica. La diminuzione e l'assenza di materiali preziosi
nelle sepolture potrebbero essere messe in relazione, oltre che auna differenziazione
sociale o all' adozione del rituale cristiano di sepoltura, anche a una
maggiore necessità di materie prime, determinata dalla dinamica
demografica e produttiva, in graduale ripresa tra la fine del VII e l'inizio
dell'VIII secolo. Considerando la diminuita disponibilità di tutti
i metalli come il rame, lo stagno e soprattutto i ferro, ancora maggiore
dovette essere la penuria di argento e oro che, nel caso di Treviso, vennero
forse utilizzati per alimentare l'officina monetale cittadina, documentata
dall'età di Desiderio. Il recente e finora unico ritrovamento sufficientemente
noto dei resti di un 'ampia villa rustica romana frequentata fino al VI-VII
secolo nel territorio di Breda di Piave in una località nei pressi
del fiume Meolo dal significativo nome di Campagne(18), al 1997 in corso
di studio, testimonia, anche se per ora isolatamente, una presenza insediativa
stabile all'interno del ducato di Treviso. Questo toponimo, infatti, indica
i fondi agricoli di antica colonizzazione(19) contrapposti ai territori
denominati "Ronchi" (e derivati) e "Vegre", riconducibili
invece a zone di recente antropizzazione e convenzionalmente assegnati
al medioevo e all'età moderna. In alcuni casi, il toponimo indicherebbe
una zona limitata da pietre confinarie dette "termini". Nel
caso di Breda di Piave è plausibile che la villa rustica sopra
menzionata, date le notevole dimensioni - diverse centinaia di metri quadrati,
in parte ancora da scavare - e soprattutto il materiale di costruzione,
laterizi e ciottoli fluviali legati da malta, potesse essere un concreto
punto di riferimento insediativo e produttivo. La rarefazione dei ritrovamenti
di materiali archeologici databili dal IV secolo in poi, sebbene non costituisca
una discriminante valida in assoluto, data la relativa quantità
di materiale recuperata, può essere, in assenza di una precisa
documentazione storica, un segnale di processo di progressiva contrazione
demografica verificatasi in molte zone dell'Italia tra tardoantico e altomedioevo.
18) D. OLIVIERI, Toponomastica veneta, Fondazione
Giorgio Cmi, Centro di Cultura e Civiltà, Scuola di S. Giorgio
per lo studio deila Civiltà Veneziana, Istituto di Lettere, Musica
e Teatro. 5. Giorgio Maggiore, Venezia, 1961, p. 94. 19) Sull'antichità
dell'area, significativo ii fatto che, nel XV e XVI secolo, fosse denominata
'Campagna' una ripartizione amministrativa corrispondente in gran parte
ail'area centuriata di epoca romana, quindi antica.
22
La lunga linea, in senso est-ovest, della via Postumia poté
rappresentare l'elemento discriminante nella scelta dei siti d'insediamento
di Goti e Longobardi poiché coincidente in parte con il limite
della cosiddetta "fascia delle risorgive", zona ben più
ricca e fertile rispetto alla pianura posta a settentrione. Anche se fino
a questo momento i toponimi sono sepre stati valutati con cautela al fine
di riconoscervi contesti insediativi peculiari, tuttavia, sulla base di
situazioni analoghe riscontrabili in Emilia e in Lombardia, ancora sulla
Postumia(20), nomi ei luogo come Porcellengo, Merlengo e Sala d'Istrana
richiamano fortemente una presenza germanica. Conseguenza immediata del
calo demografico potrebbe essere stato l'abbandono di larghi tratti delle
numerose vie di comunciazioni terrestri minori, coincidenti in massima
parte con i cardini e i decumani delle maglie centuriative, per impostare
preferibilmente i traffici di uomini e merci e la stessa colonizzazione
agraria, lungo le direttive fluviali di piccola e media portata, continuando
un processo iniziato nella preistoria e protrattosi parzialmente in età
romana. Questo quadro sembra confermato dai pochi ritrovamenti di ambito
rurale, dal III secolo in poi. In particolare, i dati archeologici indicano
un abbandono dell'alta pianura trevigiana, delimitata a sud dal rettifilo
della via Postumia, a favore di una frequentazione del bacino dell'antico
Giavera assecondando un criterio insediativo preferenziale che probabilmente
era già in atto in età romana. L'analisi toponomastica e
geografica del corso del Giavera, dalla sua sorgente, ubicata nei pressi
del paese omonimo ai piedi del Montello, fino a Treviso, dove si congiunge
al Pegorile, mette in rilievo il carattere acquitrinoso delle località
che attraversa. Come risulta dalle carte più antiche e dalla lettura
delle fotografie aeree, questo fiumiciattolo dell'alta pianura, fino al
1436, quando il suo alveo venne consolidato e reso in gran parte rettilineo,
scorreva su un letto irregolare, pieno di curve e meandri. Inequivocabili,
lungo il suo percorso, nomi di luogo come "5. Pelaio", chiara
derivazione da Palù(21) e "Le paludi".
Un buon numero di materiali archeologici romani - risalenti ad un periodo
compreso tra il I ed il IV secolo d.C. - rinvenuti nei pressi di Povegliano(22)
nell'alta pianura trevigiana nonché la menzione su documenti cartacei
dell' VIII secolo - come vedremo - di alcune vicine località dislocate
sulle due direttrici parallele, il Giavera e la cosiddetta "via del
porto", portano a ritenere possibile anche tra il VI e l'VIlI secolo
l'esistenza di insediamenti
20) Gossolengo, Offanengo e altri. Cfr. 5.
LUSIARDI SIENA, Insediamenti goti e longobardi
in Italia settentrionale, in XXXVI corso di cultura sull'arte ravennate
e bizantina, seminario
internazionale di studi sui tema Ravenna e l'Italia fra Goti e Longobardi,
Ravenna, 14-22
aprile 1989, pp. 192-193.
21) In dialetto trevigiano il toponimo è detto San Paiè.
22) Carta Archeologica del Veneto, cit., voi. I, pp. 165-190.
23
lungo questo corso d'acqua di origine plavense, caratterizzato
da acquitrini, ma anche da acque sufficientemente limpide e correnti;
le uniche, insomma, presenti in quantità e flusso sufficienti ai
bisogni agricoli e zootecnici degli stanziamenti antropici di una larga
zona dell'alta pianura, notoriamente ghiaiosa e permeabile.
I pochi edifici civili o religiosi di ambiente rurale o extraurbano di
cui abbiamo, o di cui possiamo ricavare notizie tra il VI e l'Vili secolo,
sono, oltre alla villa di Breda di Piave (VI secolo), SS. Pietro e Teonisto
di Casier (710), 5. Paolo di Lanzago (726), S. Martino (790) e 5. Fosca
(780). I suddetti complessi edilizi, anche se nel caso trevigiano costituiscono
un campione tutto sommato ancora ridotto per affermare una posizione di
primo piano dei fiumi e delle principali strade, rispetto alla viabilità
minore terrestre, furono centri di produzione di beni e servizi, collocati
di preferenza nei pressi dei fiumi e sicuramente capaci di catalizzare
i principali traffici di uomini e merci (tav. 1).
Secondo la documentazione storica, archeologica e toponomastica, durante
i secoli VIII e IX nella pianura padana gli assi rappresentati dai corsi
d'acqua furono i baricentri dell'economia e delle vie di comunicazione
di ristretti ambiti territoriali(23). Nel Trevigiano il modello insediativo
impostato lungo le direttrici fluviali, già ampiamente diffuso
durante la preistoria e il periodo romano, a giudicare almeno dalla discreta
presenza dicontesti funerari(24) e di altri materiali sporadici, ebbe
un notevole successo anche nel secolare processo di popolamento e antropizzazione
territoriale dell'età di mezzo e soprattutto di quella moderna.
La quasi totale assenza dicontesti archeologici insediativi, riconducibili
con certezza all'epoca romana o all' altomedioevo, può essere parzialmente
spiegata con l'estrema deperibilità dei materiali costruttivi degli
edifici rurali - argille, legname, paglia, canne palustri - che dovevano
costituire il tipo di abitazione di gran lunga più diffuso nelle
campagne trevigiane, assai ricche d'acqua.
Ho affidato quasi interamente la possibilità di ricostruire storicamente
l'economia e gli insediamenti del ducato longobardo di Treviso, alla documentazione
databile all'VIII secolo e agli inizi del IX lasciando inevitabilmente
"scoperti" la seconda metà del VI e tutto il VII secolo.
Nel 1901 Carlo Cipolla, nel difficile compito di identificazione dei toponimi
menzionati
23) V. FUMAGALLI, Terra e società
nell'Italia padana, Tonno, Einaudi, 1974,II ed., pp.
61-62.
24) Cfr. Carta archeologica del Veneto, a cura di L. Capuis, G. Leonardi,
5. Pesavento
Mattioli, G. Rosada, voi. I, Regione del Veneto, Giunta Regionale, Segreteria
Regionale per
il Territorio, Modena, Edizioni Panini, 1988, pp. 165-192.
25) C. CIPOLLA, Antichi documenti del monastero trevigiano dei SS. Pietro
e Teonisto, in
Boilettino dell'Istituto Storico Italiano,VII, n. 22, Roma 1901, pp. 35-75.
24
sulle carte del monastero dei SS. Pietro e Teonisto di Casier,
conservate presso la Biblioteca Capitolare di Verona, affidò ad
Andrea Leone, studioso di Oderzo, il compito di riconoscere i nomi di
molte località "oscure"(25). Senza nulla togliere al
lavoro di questi studiosi, essi stessi consapevoli delle elevate possibilità
di errore legate a un simile lavoro di riconoscimento, ècomunque
opportuno riconsiderare alcune loro valutazioni, comunemente accettate
fino ai giorni nostri(26). Poiché l'analisi di molte località
attestate nell'VilI e IX secolo indica una loro dislocazione presso le
vie di comunicazione terrestri (Postumia, Annia e Aurelia) e fluviali
(Sile, Dosson e Musestre) è probabile che anche altre località,
apparentemente sparse a caso nel territorio trevigiano, avessero un coerente
e comune denominatore. Al riguardo, un recente studio(27) condotto da
chi scrive, ha evidenziato come alcune località del Trevigiano
e dell'entroterra altinate menzionate nei documenti del monastero dei
SS. Pietro e Teonisto giacessero lungo una medesima linea geografica -
estesa dalla Laguna al Montello, attraverso Treviso - corrispondente al
tracciato di una strada orientata 12° NO e con ogni probabilità
frequentata dal V al X secolo. Questa strada, oggi scomparsa come percorso
unitario, è stata provvisoriamente chiamata "Via del Porto".
Essa era parallela al bacino del torrente Giavera nel tratto settentrionale
e in parte cincidente con la direttrice dell'antica via Zermanese, in
quello meridionale. La via passava attraverso la zona delle sorgenti del
Botteniga, chiamato anche "Fontanelle"(28) e soprattutto attraverso
l'odierna Fontane di Villorba(29) (poco più a nord delle sorgenti
del Botteniga). Fontane èmenzionata alla fine dell'Vili secolo
in un altro documento del monastero dei SS. Pietro e Teonisto di Casier,
come zona di pascolo denominata "Fontanianes". E' praticamente
sicura l'identificazione del toponimo relativo alle sorgenti del Botteniga
con il Fontanecta del 768, riconosciuto dal Leone in Fontanelle di Oderzo,
appartenente al contiguo ducato di Ceneda. E' infatti comprensibile che
lo studioso opitergino, avendo una certa familiarità con i toponimi
del suo comprensorio, tendesse a identificarli con quelli menzionati nelle
fonti antiche senza compiere le dovute e approfondite indagini.
Nell'agro trevigiano, come in gran parte d'Italia, durante i secoli VIII
e IX la pastorizia costituiva un' importantissima risorsa che permetteva
un razionale e pratico sfruttamento delle vastissime zone prative o comunque
incolte, molto spesso "umide" e capaci di alimentare cicli produttivi
presso
26) GASPARRI, Dall' età longobarda,
cit., p. 20. Qui il Gasparri cita una "Fontana Tecta"
(sic). E' auspicabile che si tratti di un errore di stampa.
27) G. ROMAN, La Via del Porto: ipotesi per un'antica strada del Trevigiano,
Silea (TV),
Piazza Editore, 1998.
28) La tavoletta IGM-Treviso Nord, edizione del 1968, riporta ancora questo
idronimo.
29) CIPOLLA, Antichi documenti, cit., p. 59, nota.
25
ché continui. Quindi, il toponimo Pegro menzionato
in un documento dell' 811 può essere verosimilmente riconoscibile
nel Pegorile attuale, evidente toponimo pastorale e rappresentare una
testimonianza di continuità delle attività connesse alla
pastorizia tra l'età romana e il bassomedioevo. Grazie a una precisa
testimonianza dell"Anoninmo Foscarmniano" nel 1230(30) anche
il corso urbano del Botteniga era chiamato Pegoril, presumibilmente per
il suo ruolo di via di comunicazione dalla campagna alla città,
nell'ambito dell'attività zootecnica. Al giorno d'oggi sono denominati
"Pegorile"(31) un fondo campestre e l'adiacente fiumiciattolo
di risorgiva che, raccolte le acque del canale artificiale Giavera in
località Fontane, si getta a sua volta nel Botteniga, nella frazione
del comune di Treviso denominata 5. Pelaio. Il documento dell' 811 sopra
ricordato, oltre al "Pegro", testimonia anche l'esistenza di
un ".... loco Cabuti, ubi vocatur Turtun(es)...", che, per via
dell'unico referente topografico espresso dal testo, è riconoscibile
nel fondo "Caotorta", località situata subito a nord
del fondo Pegorile.
I documenti dell'VIlI e del IX secolo riguardanti il Trevigiano a noi
giunti, testimoniano l'esistenza di domuscultae a Dosson di Casier (790)
e a Caotorta (811), presso Ponzano Veneto (TV), e di casae massariciae
a Cusignana (790), a Mestre (780) e Busiago, attualmente in provincia
di Padova (790). Al riguardo, un testamento del 790 testimonia la presenza
di una curtis nei pressi di Dosson con case, un fienile e una fornace,
indicando un tipico complesso curtense. Anche la pergamena del 1005 relativa
a Villorba testimonia l'esistenza di una curtis da ubicare con ogni probabilità
a Casal Vecchio(32) E' quindi possibile che anche i complessi relativi
alla pars dominica delle curtes fossero dislocati lungo le vie di comunicazione
terrestri e fluviali del ducato, quali zone preferenziali d'insediamento
e in relazione alla disponibilità di risorse.
Nessun documento testimonia invece l'esistenza di associazioni di mestiere
a carattere corporativo a Treviso in età longobarda, contrariamente
a città come Pavia e Piacenza per le quali esistono testimonianze
inerenti l'VIII secolo(33), a riprova del fatto che nel ducato trevigiano,
in analogia con
30) ANONIMO FOSCARINIANO, Cronaca trivigiana,
Biblioteca Comunale di Treviso,
mss. 1392, 1397b, c. 81.
31) Cfr. tavoletta IGMI, Treviso Nord, edizione del 1968. Non sono molte
altre, nel Veneto,
le località così denominate. Questa è l'unica all'interno
del ducato trevigiano, Cfr. OLI VIERI,
Toponomastica veneta, cit., p. 72.
32) A. FAVARO, Terra di Villorba, Treviso-Villorba, Comune di Viilorba
(TV), 1988, pp.
29 e 162.
33) Si tratta delle famose Honorantie civitatis Papie e del diploma del
re IIdeprando, risalente
al 744. Per l'Italia settentrionale ricordiamo anche il Memoriatorum de
mercedibus
comacinorum.
26
altre città dell'Italia longobarda, non ci fu continuità
delle associazioni di mestiere dal punto di vista giuridico e istituzionale,
ma solamente dal punto di vista produttivo(34).
Infatti, una carta del 773 testimonia la presenza a Treviso di "Aebone
magister calegarius" e se la qualifica espressa dal documento deve
essere interpretata alla lettera è possibile pensare non tanto
alla presenza di un'organizzazione di mestiere ripartita gerarchicamente(35),
quanto all'esistenza di un laboratorio o persino di un'organizzazione
di lavoro, anche itinerante, erede diretta di quelle di età romana.
A capo delle officine di produzione medievali c'era per l'appunto un magister,
responsabile d'opera già presente nel laboratorio del periodo romano,
ma a differenza di quest'ultimo, non inquadrabile in un'organizzazione
corporativa(36). La mancanza di riferimento ad una corporazione vera e
propria nel suddetto documento, dimostra che, analogamente a quanto si
può ricavare dalle iscrizioni romane, in cui la qualifica di magister
poteva riferirsi anche al responsabile(37) di una fase dle processo tecnologico
di produzione - molto spesso individui di condizione servile - anche Ebone
era inserito solamente in un processo produttivo e non in un'organizzazione
corporativa. Altrimenti, sarebbe stato strano, per lui, rinunciare ad
una qualifica così importante come quella di magister collegiale
in un atto giuridico scritto, se effettivamente avesse avuto un simile
ruolo prestigioso. Molto più tardi, in età comunale, i capi
delle scole , cioè le associazioni di mestiere, portano i nomi
di chiara derivazione longobarda "supragalstaldio" e "gastaldio"
(eredità linguistica altomedievale) per i quali sarebbe forte la
tentazione di riconoscervi un esempio di continuità istituzionale,
peraltro difficile da provare. Come ènoto, il suddetto termine
in età longobarda designava un funzionario di nomina regia incaricato
di amministrare i beni della corona sparsi nei vari ducati, testimoniato
in tre documenti trevigiani del 768, 772 e 774 relativi all'archivio del
complesso dei SS. Pietro e Teonisto(38).
La sopravvivenza delle misure standard di mattoni, embrici e tegole romani
fino al medioevo inoltrato(39) permette di ipotizzare la continuazione
della produzione anche tra i secoli VI e VIII. Non è da escludere
che la via del porto costituisse il polo d'attrazione di questa e altre
strutture produttive.
34) U. MONNERET DE VILLARD, L'organizzazione
industriale nell'Italia longobarda
durante l'altomedioevo, in Archivio Storico Lombardo, Giornale della Società
Storica
Lombarada, XLVI, fasc. I-Il, Milano, 1919, p. 4.
35) GASPARRI, Dall'età longobarda, cit., p. 20.
36) MONNERET DE VILLARD, L'organizzazione, cit., pp. 36-37.
37) Ibid., L'organizzazione, cit., pp. 6-7;
38) CIPOLLA, Antichi documenti, cit., pp. 45, 47 e 48.
39) MONNERET DE VILLARD, L'organizzazione, cit., p. 28.
27
La testimonianza di una "Civitatecla" - cioè
una piccola città - e la segnalazione di una imbarcazione tardoromana
carica di laterizi, giacente sui fondali del Sile, presso Casiert(40),
sono i segni più tangibili di una produzione locale di mattoni,
tegole ed embrici. Inoltre, nel già citato testamento proveniente
dall'archivio di SS. Pietro e Teonisto, datato giugno 790, un certo Adone,
proprietrio di numerosi beni immobili, lasciò in eredità
al nipote Adeberto case, terreni coltivati e incolti, vigneti e una fornace
ubicata "...in loco ad supra Dolsone ...".
Abbastanza sicura l'identificazione della suddetta località con
Dosson di S. Lazzaro(41), pochi chilometri a sud di Treviso in una zona
ricca di argille capaci ci alimentare un buon numero di fornaci laterizie
fino ai giorni nostri. Un documento del 1268, citando una fornace ubicata
in località "Mareto", a mezzogiorno di Treviso, potrebbe
testimoniare la continuità d'uso sopra ipotizzata. Il testo, infatti,
ricorda una fornace dostritta e che si concedeva di ricostruire "...ubi
o/im fuit antiquitus una fornax iacentem in mareto, infra hos confines,
ab uno latere cui versus meridie suntfornaces detente nunc per Federicum
Mathei de Ecelino". Certo la notizia, sebbene non fornisca alcuna
indicazione cronologica è comunque un indizio per sostenere l'origine
antica della fornace, alimentata molto probabilmente, come quelle appartenenti
a Federico di Matteo d'Ezzelino, con argille estratte dai terreni paludosi
circostanti il Sile(42).
Dalle disposizioni relative al passaggio di beni mobili e immobili ai
monasteri è noto che i mulini ad acqua erano proprietà di
elementi ari stocratici e di complessi monastici, gli unici a detenere
le tecnologie necessarie alla loro costruzione e manutenzione e i soli
in grado di sostenere le spese relative. Oltre alle necessarie capacità
tecniche e disponibilità finanziarie, la costruzione di un mulino
richiedeva anche la possibilità giuridica di erigerlo e l'esistenza
di un sufficiente numero di fruitori. I monasteri, responsabili della
bonifica, colonizzazione e quindi delle necessità alimentari delle
popolazioni sotto la loro giurisdizione, erano molto spesso dotati di
mulini all'atto della fondazione(43). I mulini ad acqua, benché
conosciuti fin dall sec.
40) L. BERTI, C. BOCCAZZI, Scoperte paletnologiche
e archeologiche nella provincia di
Treviso, Firenze, La Nuova Italia, 1956, p. 12.
41) CIPOLLA, Antichi documenti, cit., p. 53.
42)1 SARTOR, Treviso lungo ilSile. Vicende civili ed ecclesiastiche in
S. Martino, Treviso,
Vianello Libri, 1989, p. 193.
43) S. DE RACHEWILTZ, / mulini del Medioevo nel Tirolo, in il grano e
le macine. La
macinazione di cereali in Alto Adige dall'Antichità al Medioevo,
catalogo della mostra,
Museo Provinciale di Castel Tirolo (BZ), 27 aprile-24 luglio 1994, Castel
Tirolo (BZ) 1994,
p. 119.
28
d. si diffusero in Europa principalmente nel medioevo(45), quando cioè
entrò in crisi l'economia fondata sulle tradizionali forme di sfruttamento
della manodopera servile e sulla forza lavoro animale. Ritengo che il
costante regime delle acque di risorgiva di molti fiumiciattoli e canali
all'interno del ducato e nello stesso luogo trevigiano, potesse essere
un fattore assai favorevole alla costruzione di mulini ad acqua fin dal
VI secolo quando Treviso, secondo la testimonianza di Cassiodoro(46),
fu sede di granai pubblici (horrea) predisposti assieme a quelli di Trento
per soddisfare le necessità annonarie dell'antica regione veneta.
Il testamento di Adone ricorda anche un mulino ad acqua ubicato a Quinto
di Treviso - prima testimonianza di impianti molitori nella zona - e diviso
tra più proprietari. Interessante, l'uso del termine "aquimolo",
sicuro ed inequivocabile significante. Ancora, il medesimo documento,
citando "...in vico Cugunianus casas massaricias duas... ",
rende plausibile la localizzazione delle suddette abitazioni in corrispondenza
dell'attuale abitato di Cusignana Bassa. Questa frazione del comune di
Giavera del Montello interessata dal passaggio del torrente Giavera e
della via del porto risulta così l'unico abitato di pianura a nord
della Postumia menzionato nell'VIII secolo, tuttavia coerente con la consueta
logica insediativa. Altri insediamenti sul Sile sono testimoniati da un
documento dell'802 relativo ad uno scambio di proprietà tra i coniugi
Ratigiso e Vualderata in loco Casale" verosibilmente identificabile
con Casale sul Sile e "...in vico Mugrano ..." riconoscibile
nell'odierna Morgano, nei pressi delle sorgenti del Sue. La menzione di
prati, boschi, pascoli, paludi, vigneti e terreni arativi in ambedue le
località risulta espressione di un'opera di colonizzazione assai
diversificata e favorita dal regime costante delle acque del maggiore
fiume trevigiano, capaci di far funzionare ruote molitorie e dalla presenza
di legname e argille, materie prime necessarie al funzionamento di qualsiasi
attività produttiva e presenti in abbondanza lungo tutto il bacino
fluviale.
I numerosi nomi di origine latina e alcuni nomi greci attestati sulle
carte di Casier ci consentono di affermare che, almeno nell'VIII secolo,
la popolazione del ducato trevigiano appartenesse a varie etnie anche
all'interno del ceto dei proprietari terrieri, socialmente dominante.
In alcuni casi, accanto al nome è interessante rilevare la precoce
apparizione di alcuni cognomi, analogamente a quanto stava accadendo nella
Venetia lagunare.
44) A. TRE VOR HODGE, Un complesso industriale
romano, in Le Scienze n. 269, gennaio
1991, Milano, pp. 70-76.
45) M. BLOCH, Annales d'histoire économique et sociale, voi. VII
(1935), pp. 538-63, ora
in Mélanges historiques, volli, Paris, SEVPEN, 1963, pp. 800-822,
in Lavoro e tecnica nel
medioevo, Roma-Bari, Universale Laterza, 1987, IX ed., pp. 73-110.
46) CASSIODORO, Variae, X, 27.
29
Durante l'VITI secolo, dunque, l'entità ducale trevigiana appare
tutto sommato etnicamente e culturalmente vicina alle terre lagunari,
gravitanti attorno all'orbita politica bizantina(47).
Ancora più clamorosa, rispetto a Treviso, è la carenza documentaria
su Asolo e la zona pedemontana. Le uniche notizie relativamente sicure
su alcune località della pedemontana trevigiana, risalenti all'VIII
secolo, rivelano l'esistenza di insediamenti rurali ubicati nella zona
di Asolo, mentre Cornuda, località collinare non molto distante,
risulta sede di redazione di un documento dell'archivio di SS. Pietro
eTeonisto assegnato alla fine dell'VIII secolo(48). La donazione del chierico
Felix alla fi glia Felicitas del maggio 780 riporta "...in loco Capati,
vico Viriacus ..." da identificare senz'altro con l'odierna Cavaso
del Tomba e la vicina frazione di Virago, entrambi centri rurali di un
distretto pedemontano. L'esistenza di un distretto amministrativo di epoca
longobarda comprendente Asolo e la Valcavasia che ricalcasse in parte
un più antico assetto territoriale, può essere ipotizzata
sulla base dell'etnico "Mis quilensis" , attestato dall 'iscrizione
del sarcofago romano di Caio Vettonio Massimo, rinvenuto in seguito alla
demolizione dell'antica chiesa di S. Cassiano(49). In epoca romana, tra
due o più territori di pertinenza di un municipio, esistevano solitamente
terreni destinati a pascolo o, se occupati da boschi e paludi, adibiti
a legnatico, oppure sfruttati come zone di caccia e pesca. Su questi terreni
gli abitanti dei distretti municipali contermini detenevano i medesimi
diritti di sfruttamento(50). I territori adibiti ad uso comune potevano
esistere anche nell'ambito di un medesimo distretto pagense ed essere
sfruttati in comune dagli abitanti dei vici e delle villae . Per l'asolano
un documento del 1425 testimonia ancora l'esistenza di una "Brayda
Misquilensis"(51) identificabile all'incirca con la zona tra 5. Martino
di Fonte e Crespano dove permane tuttora il toponimo "Cao de Breda"(52).
Benché il termine "breda" sia d'origine longobarda, in
questo caso il toponimo è retaggio di un assetto territoriale più
antico(53). Questa "braida" si trova sul lato occidentale del
torrente Astego che in età romana rappresentò
47) GASPARRI, Dall'età longobarda,
cit., p. 19.
48) CIPOLLA, Antichi documenti, cit., pp. 5 8-60.
49) CIL, V, 2090.
50) L. MELCHIORI, La chiesa di Santa Giustina di Possagno e il Cristianesimo
in
Valcavasia, in La Valcavasia, Ricerca storico-ambientale, coordinatore
M. Pavan, Comunità
Montana del Grappa, Arti Grafiche Zoppelli, 1983, p. 363.
51)Ibid.,p.364.
52) Si trattava con ogni probabilità di una zona adibita a pascolo.
Per la regolamentazione
giuridica dell'ager compascuus, cfr. M. WEBER, Romische Agrargeschichte,
Stuttgard,
Ferdinand Enke Verlag, 1891, trad. it., Storia agraria romana, Milano,
Il Saggiatore, 1967,
pp. 85-91.
53) MELCHIORI, La chiesa di S. Giustian, cit., p. 364.
30
con ogni probabilità il confine tra i territori municipali patavino
e asolano(54). Sul lato orientale si trova invece la Brayda de Asilo(55).
Non si può affermare con sicurezza, visto l'enorme vuoto documentario
tra l'età romana e il secolo XV, l'esistenza di questa divisione
amministrativa in età longobarda; tutta- -via la continuità
toponomastica e la secolare sopravvivenza della destinazione a pascolo
delle due aree sull'Astego, come norma consuetudinaria rurale, e le attestazioni
di alcune piccole aree colonizzate ed abitate dell'Asolano e della Valcavàsia
risalenti all'Vili secolo, portano a ritenere possibile la presenza di
comunità organizzate da un punto di vista territoriale ed economico.
Uno di questi documenti, datato 804, menzionando alcune case massarizie
"... in logo ... vico Metunianus ..." che il Cipolla e il Leone
identificarono in Meduna d'Asolo56(), fa anch'esso riferimento ad un locus
come ulteriore denominazione specifica compresa nell'ambito di un vicus.
Il già citato testamento di Adone del giugno 790 si conferma il
documento dell'VIII secolo più ricco in assoluto di indicazioni
toponomastiche. In esso, infatti, viene nominata una "... casa massaricia
in logo Somoncio..." collocabile nell'odierna Semonzo, frazione di
Borso del Grappa. Su Asolo, quasi assoluto è il silenzio delle
fonti. E' noto solamente che nel 589, al sinodo di Marano, partecipò
anche Agnello, vescovo di Asolo. Proprio in base all'esistenza dell'antico
distretto è probabile che il centro asolano fosse sede di una gastaldia(57).
Due campagne di scavo condotte sul sito della rocca di Asolo nel 1986
e 1987 hanno portato alla luce le tracce di una piccola aula di culto
frequentto tra il VI e 1 'VIII secolo e oggetto di due interventi edilizi.
I resti di un pavimento mosaicato, realizzato sopra una precedente pavimentazione
in cocciopesto, vengono fatti risalire a un periodo compreso tra il VII
e l'VIlI secolo. Il mosaico, per stile e caratteristiche tecniche, ha
consentito agli studiosi di avanzare una datazione della seconda fase
architettonica dell'edificio. Benché il pavimento musivo sia di
fattura piuttosto grossolana, costituisce una prova della frequentazione
dle sito tra il VI e l'VIlI secolo. Gli strati archeologici immediatamente
posteriori al mosaico hanno restituito alcuni scheletri umani, segno del
riutilizzo dell'area come necropoli in un periodo compreso tra il Vile
il XII secolo(58. Più
54) Ibid., p. 363.
55) L. COMACCHIO, Storia diAsolo, voi. VII, Castelfranco Veneto (TV),
Tipografia Moro
Editrice, 1973, p. 107.
56) CIPOLLA, Antichi documenti, cit., p. 63.
57) S. GASPARRI, I duchi longobardi, Roma, Istituto Storico Italiano per
il Medio Evo,
1978, p. 31.
58) G. ROSADA, Primi dati per un inquadramento storico del sito della
rocca asolana, in
Quaderni di archeologia del Veneto, vol. IV, Giunta Regionale del Veneto-Dipartimento
per
l'Informazione, Soprintendenza Archeologica per il Veneto, Università
di Padova-Dipartimento di Scienze dell'Antichità-Archeologia delle
Venezie, Università di Venezia-Dipartimento di Scienze storico-archeologiche
e orientalistiche, Padova, CEDAM, 1988, pp. 48-54.
31
complesso e di non facile lettura si presenta il palinsensto topografico
e toponomastico della zona prealpina, di fronte ad ogni tentativo di ricostruzione
della dinamica insediativa e demografica della zona pedemontana tra Piave
e Brenta. Mi riferisco a toponimi quali "Fara" o "Farra"
, "Castello" e i suoi derivati, nonché alle ripetute
dediche ai santi Martino, Giorgio e Zenone, convenzionalmente ritenuti
segni della presenza di comunità civili e militari durante l'epoca
longobarda(59). Questa zona prealpina, secondo l'ipotesi di Gina Fasoli
- formulata sulla base delle suddette evidenze toponomastiche - sarebbe
stata presidiata da nuclei armati longobardi fin dai primi tempi della
loro occupazione e avrebbe svolto la funzione di "cintura" difensiva
predisposta allo scopo di bloccare a sud un attacco bizantino proveniente
dalla linea Oderzo-Padova e soprattutto un'invasione franca dalle vallate
alpine del Piave e del Brenta, che avrebbero determinato una soluzione
di continuità territoriale isolando il Friuli dal resto dei territori
padani del regno. Sventata una possibile minaccia da sud con le conquiste
di Padova (602) e Oderzo (638 e 667), il pericolo di un'invasione da nord
rimaneva molto concreto e tale da giustificare il mantenimento di un sistema
difensivo su scala alpina e prealpina strutturato in base al concetto
della difesa in profondità. Il sistema difensivo del regno era
imperniato su numerosi castra, di cui parla ad esempio Paolo Diacono per
il Friuli(60), retaggio del Tractus Italiae circa Alpes esistente dal
IV secolo, ancora attivo in età gotica e parzialmente in quella
longobarda(61). Tuttavia, appare discutibile ogni tentativo volto a identificare
gli insediamenti militari longobardi sulla base delle sole presenze toponomastiche
e in particolare agionomastiche, ma purtroppo metodo correntemente usato
fino ai nostri giorni. Infatti, un toponimo come "fara", sostantivo
di innegabile origine longobarda, in alcune dialetti settentrionali è
sinonimo di podere e "sala":
entrato molto presto nella lingua italiana, designa gli ambienti annessi
alle abitazioni padronali predisposti per la conservazione dei prodotti
agricoli, oppure, per sineddoche, l'abitazione stessa. Estremamente delicata,
dunque, in mancanza di attestazioni storiche convergenti con eventuali
dati archeologici oltre che con le evidenze toponomastiche, l'attribuzione
di una
59) G. FASOLI, Tracce d'insediamenti longobardi nella zona
pedemontana tra il Piave e l'Astico e nella pianura tra Vicenza, Treviso
e Padova, in Atti dell congresso internazionale di studi longobardi, Spoleto
(PG) 1952, pp. 303-315; A. NIERO, Culto dei Santi militari nel Veneto,
in Armi e cultura nel Bresciano: 1420-1870, Brescia 1981, pp. 225-272.
60) PAOLO DIACONO, Historia, cit., IV, 37.
61) S. GASPARRI,Lafrontiera in italia (sec. Vi-Vili). Osservazioni su
un tema controverso, in Città, castelli, campagne nei territori
difrontiera (secoli VII-VII), Atti del V seminario sul tardoantico e l'altomedioevo
in Italia centrosettentrionale, Monte Barro-Galbiate (Lc), 9-10 giugno
1994, a cura di G.P. Brogiolo, Mantova, Padus, Soc. Coop. Archeologica,
1995, p. 9.
32
sicura origine militare longobarda per gli abitati e per i siti sacri
fortificati. In ogni caso, le indagini archeologiche hanno finora fornito
l'immagine complessiva di un apparato difensivo prealpino di portata assai
inferiore alle aspettative determinatesi in seguito alla già ricordata
ipotesi della Fasoli.
Nemmeno il toponimo "arimannia", altro termine di origine longobarda,
in mancanza di documentazione precisa, può essere un segnale sicuro
della presenza di arimanni, cioè guerrieri longobardi dislocati
per iniziativa regia su terra fiscale, in particolare nelle vicinanze
dei confini, per svolgere una funzione prevalentemente difensiva. Nel
territorio del ducato trevigiano sono stati presi in esame e discutibilmente
interpretati come arimannie i due toponimi "Romano", a sud del
Grappa(62) e "Rimania"(63), questa volta vicino a Mogliano Veneto,
nella bassa pianura trevigiana. Il termine arimanni, può infatti
semplicemente riferirsi a gruppi di uomini liberi che, durante il medioevo,
rimasero in rapporto diretto con i pubblici poteri e privi di vincoli
di tipo signorile. D'altro canto, bisogna riconoscere che molti di questi
gruppi di uomini liberi affondano le proprie radici tra il VI e l'VIlI
secolo. Lo testimoniano documenti d'archivio dell'età longobarda
e carolingia comprendenti molte attestazioni di terreni incoltri, quali
"mons oppure silva arimannorum, o ancora gualdus exercitalis ",
concesse ad uso collettivo di comunità locali di liberi, nell'Italia
centrosettentrionale. Tali concessioni avevano quasi sicuramente un originario
valore militare, perché collegate alla possibilità di pascolo
per i cavalli e quindi alla cavalleria - arma di primaria importanza -
come attesta il capitolo 2 delle "Leggi militari" di Astolfo,
risalenti al 750(64). Al riguardo, un diploma di Berengario I del 915,
testimonia l'esistenza di arimanni a Solagna - nei pressi di Bassano del
Grappa - località di confine all'interno del ducato trevigiano.
Per il Trevigiano, dunque, le fonti forniscono un quadro economico complessivo
pertinente all' VIII secolo discretamente vario ed articolato, anche se
l'immagine di un dominio incontrastato di selve, pascoli e paludi attorno
alle poche abitazioni rurali, che tradizionalmente caratterizza tutta
l'epoca longobarda, viene sostanzialmente confermato.
E' noto che, durante il regno di Carlo Magno, la chiesa cattolica e i
centri abbaziali, tra i molti privilegi e benefici, ricevettero cospicue
proprietà fondiarie. Una testimonianza dell'azione di acquisizione
di un patrimonio fondiamo da parte dell'ordine benedettino nel Trevigiano,
tramite il monastero di SS. Pietro e Teonisto di Casier, può verosimilmente
essere quella
62) FASOLI, Tracce, cit., p. 305.
63) L'insediamento longobardo, in Mogliano nel tempo, a cura del Gruppo
Ricerca Storica
"Astori", Mogliano Veneto (TV), 1989, p. 30.
64) GASPARRI, La frontiera in Italia, cit., p. 13.
65) CIPOLLA, Antichi documenti, cit., pp. 48-50.
33
offerta da uno dei famosi documenti conservati nella Capitolare di Verona
datato aprile 778(65). Il testo è pertinente alla vendita di un
vigneto all'abate del Monastero Nuovo (di Casier), chiamato Domenico,
da parte di un certo Mauro, figlio del fu Oboldo. Il vigneto in questione
risultava ubicato "... in vigo Calvonicus, ad Ronco Vedre ...".
L'interpretazione del Cipolla e del Leone che individuarono il "Sancto
Maurom", luogo di redazione del suddetto atto di vendita, nell'attuale
"Mure", frazione del comune di Meduna di Livenza è quanto
meno opinabile. Questa località è oggi priva dell'appellativo
"santo" (analogamente a Mansuè, comune situato nei pressi
di Oderzo, anticamente menzionata come "ad Sanctum Mansuetum").
Poiché l'abbazia di S. Eustachio di Nervesa non era ancora stata
fondata, anche in questo caso gli elementi catalizzatori dell'opera di
colonizzazione risultano la via del porto e il Giavera. Il vigo Calvonicus,
oggi non più esistente, doveva quindi riferirsi a una zona compresa
tra Bavaria di Nervesa della Battaglia e Giavera del Montello, a ridosso
dell'omonimo rilievo collinare. Infatti, la donazione di Ottone III a
Rambaldo di Collalto risalente aI 994 riporta(66)... in vico Nervisia
iuxtafluvium Plavam, in vico Monscaluus (Monscalvus) dictur massaricios
duos iuxtafluvium Glauram quod si eadem vitta tantum non invenitur regii
iuris ut adimplere ipsos duos massaricios non possimus...". Il microtoponimo
"Ronco Vedre" richiama un "luogo disboscato di recente
e incolto"(67). Anche il toponimo Calvonicus, derivabile dall'aggettivo
"calvus", è riferito ad un terreno privo di vegetazione.
Semanticamente, dunque, le due indicazioni toponomastiche coincidono.
A qualche centinaio di metri, in località B avarìa, sorge
una chiesa dedicata a S. Mauro, sito sacro che la tradizione vuole molto
antico e - credo - possibile luogo di redazione dell'atto di vendita.
Nei pressi di S. Mauro, sulle carte IGMI è segnao un fondo denominato
"La Maure", probabile segno di una radicata presenza di questo
culto in zona, oppure di proprietà terriere della suddetta chiesa.
Infine, il carisma e il prestigio di questo culto sono ulteriormente confermati
dal nome stesso del venditore del vigneto, chiamato anch'egli Mauro.
Il più antico documento di Casier, datato 710, menziona la località
ove sorgeva il complesso monastico, chiamata "Civitatecla",
da collocare con ogni probabilità sul sito della chiesa attuale
di Casier, sulla sponda destra del Sue. Qui, infatti, secondo la tradizione
popolare, sorgeva un' antica cappella dedicata a S. Teonisto(68). Il toponimo
è interpretabile come una Civitatecula, cioè una piccola
città o meglio una "piccola borgata", ovviamente in
66) Rokycany, Okresni archiv., materiale Collalto; membr.,14
novembre 1994, Duello.
67) OLI VIERI, Toponomastica veneta, cit., pp. 90 e 113.
68) A. DOTTO, G.B. TOZZATO, Casier eDosson nella storia, Casier (T), Grafiche
Zoppelli,
1988, p. 8.
34
relazione a Treviso, con tecla inteso come diminutivo(69). Il tema semantico
del toponimo, altre volte usato per indicare vere e proprie città
o perlomeno realtà insediative con edifici di una certa consistenza
muraria, soprattutto in Italia, fa pensare ad un abitato che, per quanto
piccolo, potesse avere peculiarità urbane(70). Non si conoscono
né l'epoca d'origine dell'insediamento, né i suoi costruttori.
Al riguardo, si può solo rilevare che la zona da un punto di vista
pedologico si presenta ricca di argille, al giorno d'oggi estratte per
alimentare una consistente produzione di mattoni e tegole. Poiché
almeno una fornace è attestata nella zona, nell 'ormai noto documento
del 790, appare plausibile l'ipotesi di una Civitatecla(71) costruita
con un significativo impiego di materiale laterizio e litico. Il toponimo
Casier èattestato per la prima volta nel 1021 - mediante la forma
"Caserio" - nel placito imperiale di Enrico I che confermò
la dipendenza del monastero trevigiano da quello veronese di S. Zeno.
Casier, secondo l'Olivieri(72), può essere interpretato come un
derivato da casearius, pertinente dunque ad attività di malga di
cui però nella località, per l'epoca in questione, non esiste
alcuna notizia. Inoltre, nel dialetto trevigiano la voce casera è
sinonimo di "cascina", dal latino (taberna) casearia "caciaia"
con immissione semantica di casa(73). L'edificio destinato alla produzione
e alla conservazione di prodotti caseari potrebbe essere identificato
con il monastero stesso. Se questa interpretazione fosse esatta, considerando
oltretutto la posizione del monastero sul Sile, a valle di Treviso, si
potrebbe supporre che, nell'XI secolo, il commercio dei prodotti caseari
si svolgesse anche verso la laguna per soddisfare la domanda della nascente
potenza veneziana. I monasteri, infatti, erano centri di raccolta di prodotti
silvo-agricolo-pastorali e funzionavano come le salae delle corti dominicali.
Tuttavia, da un punto di vista logico, è più probabile si
sia verificato il caso opposto, cioè l'eventuale innesto dell'aggettivo
casearius sul significato originario di "casa", visto che "Civitatecla",
la precedente denominazione della località, semanticamente evidenzia
un sito abitativo. Le prime notizie sul monastero di 5. Zeno di Verona
risalgono al IX secolo, ma la presenza stessa di beni fondiari e
69) Cfr. M. BROZZI, Appunti per una storia
dei ducati longobardi di Ceneda e Treviso,
Cittadella (PD), Bertoncello Artigrafiche, 1978, p. 31.
70) G. PELLEGRINI, Ricerche di toponomastica veneta, Padova, Cooperativa
Libraria
Editrice degli Studenti dell'Università di Padova, 1987, pp. 298-299.
Osserva il Prati, che
gran parte delle Civite e Civitelle sono poste su monti e colli e spesso
conservano avanzi delle
mura che le circondavano.
71) Molto spesso i monasteri erano vere e proprie cittadelle autosufficienti.
Il termine potrebbe dunque riferirsi al complesso monastico e alle sue
pertinenze.
72) OLIVIERI, Toponomastica veneta, cit., p. 125.
73) ASPRATI, Etimologie venete, a cura di G. Folena e G. Pellegrini, Venezia-Roma,
Istituto
per la Collaborazione Culturale, 1968, p. 38.
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immobili nei noti documenti portano a ritenere plausibile, nell'VIII secolo,
l'esistenza di aggregazioni monastiche non organizzate(74) sul modello
di quella fondata dai coniugi Lorenzo e Petronia nel 726, nei pressi di
Lanzago. Poiché è ignota la data di fondazione del monastero
di Casier, dedicato a Teonisto, uno dei martiri del Sile(75), si può
solo congetturare che anche questo sia uno dei segni tangibili dell'azione
capillare intrapresa in favore delle istituzioni monastiche verso la fine
del VII secolo dai sovrani e dalla maggior parte dei duchi longobardi
quando essi, abbandonati l'arianesimo e le posizioni dottrinali connesse
allo scisma dei Tre Capitoli, abbracciarono la fede cattolica. Riflettendo
sulla "conversione" dei Longobardi, l'eventuale adozione o mantenimento
del titolo a S. Teonisto, secondo la tradizione martirizzato dagli ariani
nel IV secolo, verrebbe ad assumere un alto valore simbolico e morale.
All'altro componente del binomio, S. Pietro, fu intitolata la primitiva
chiesa trevigiana risalente, secondo la tradizione, al IV secolo. Anche
questa dedica, creata ex novo o antecedente che sia, potrebbe essere un
segno dell'autorità e del carisma della sede episcopale trevigiana
- ormai legittima erede della giurisdizione ecclesiastica altinate sulle
pievi del Sue
- presso i duchi trevigiani o i gastaldi regi. Il documento del 710 già
menzionato è un atto di donazione da parte di tre uomini, Aifre,
Avvarde e Ciaro al monastero trevigiano, di servitori e mulini - e diritti
di usufrutto su altri mulini - situati in località del Friuli(76),
del Vicentino(77), e a Mestre. I tre aggiunsero le clausole di riservare
per se stessi altri possedimenti a Treviso, Cordignano(78) e Belluno,
di vedersi riconosciuto il diritto di liberare i servi e di donarli a
discrezione loro. Inoltre, dopo la loro morte, giuratolo solennemente
davanti a Dio, essi garantirono ai frati la facoltà di eleggere
il proprio abate. Le proprietà fondiarie di questi individui, vissuti
tra il VII e l'Vili secolo, erano dunque disseminate tra il territorio
trevigiano e altri ducati confinanti. Sicuramente si trattava di persone
abbienti che, secondo consuetudini ampiamente diffuse fin dai tempi delle
prime comunità cristiane, prima di entrare a vario titolo in una
istituzione monastica dichiaravano di rinunciare a tutti i loro beni -
o a gran parte di essi - in favore del monastero
74) P.A. PASSOLUNGHI, Il monachesimo benedettino
della Marca Trevigiana, Treviso,
Istituto di studi sulla cultura e sulle tradizioni popoiari della Marca
trevisiana, 1980, p. 4.
75) S. TRAMONTIN, Le origini del cristianesimo a Treviso, in Storia di
Treviso, vol. I, Le
Origini, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 333-335.
76) La località citata è Piniano, collocata dal Cipolla
presso S. Daniele del Friuli 4UD).
77) Il toponimo menzionato è Montania, secondo Cipolla da collocarsi
nel Vicentino. Cfr.
CIPOLLA, Antichi documenti, cit., p. 39.
78)11 luogo in cui si trovano i beni sopra citati viene menzionato come
Corticianus. Tuttavia,
l'identificazione della località non è sicura, D. SCOMPARIN,
La pieve di Casale sul Sue. Il
territorio, le cappelle e i comuni minori, Silea (TV), Piazza Editore,
1994, p. 88, con grande
cautela, propone l'identificazione di questa località con Corzano
di Casale sul Sile.
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e dell'ordine. I nomi, che agli inizi dell'Vili secolo non risultano più
decisivi per l'individuazione delle etnie e dei gruppi sociali detentori
del potere politico ed economico, sono di chiara origine germanica, ma
le modalità della donazione, invece, poiché conformi alle
norme del diritto romano, dimostrano che questo durante il regno longobardo
non si estinse, ma almeno in parte fu usato dalla popolazione romana(79).
Molto spesso i donatori, anche se ufficialmente inseriti nella vita monastica
e teoricamente soggetti alle sue regole e alla sua ferrea disciplina,
non rinunciavano affatto ai propri beni in favore della comunità,
ma questo tipo di atteggiamento, che ovviamente stravolgeva e snaturava
le prescrizioni della primitiva regola benedettina, era usuale preso l'aristocrazia,
i cui membri erano molto spesso abati-guerrieri che prendevano in "feudo"
le proprietà monastiche considerandole alla stregua di un qualsiasi
altro complesso di beni immobili e comportandosi nelle parole e nei fatti
come gestori di un vero e proprio dominio personale o familiare. In particolare
Avvarde e Ciaro , detentori di beni in comune, sono forse proprietari
fondiari divenuti soci in occasione della costruzione di costosi mezzi
di produzione, quali erano i mulini ad acqua. Anche una simile disposizione
sull'elezione dell'abate deve essere letta come un perentorio ordine impartito
da queste personalità, probabilmente insediatesi nel monastero
secondo le modalità sopra citate. Il già citato documento
del 726 testimonia l'esistenza di una chiesa "supefluvio Mellema"
precedentemente fondata dai coniugi Lorenzo clericus e Petronia i quali,
volendo ritirarsi a vita monastica, donarono i loro beni, tra cui una
casa a Treviso, alla suddetta chiesa intitolata a S. Paolo.Essi, inoltre,
stabilirono che alla loro morte i beni sarebbero passati al monastero
di 5. Silvestro di Nonantola. Poiché questa carta nomina il monastero
nonantolano, fondato in realtà dal duca di Ceneda Anselmo nel è
stata ritenuta una copia posteriore al XII secolo, interpolata con l'aggiunta
della suddetta donazione al monastero di S. Silvestro(80). E' comunque
probabile che la carta in questione sia stata compilata sulla base di
un documento autentico databile tra!' i settembre 726 e l'i giugno 727(81).
Fonti di epoca successiva indicano che il monastero benedettino di Lanzago
fu effettivamente dipendenza dell'abbazia di S. Silvestro di Nonanto!a
tramite il monastero di SS. Maria e Fosca di Treviso. Il monastero paolino,
purtroppo scomparso da tempo, sulla base del significativo toponimo campestre
"Le Sampao!e" riscontrato dal canonico Rambaldo degli Azzoni
Avogadro nel 1773(82), è stato ubicato a Lanzago nei pressi de!
79) P.S. LEICHT, Storia del Diritto Italiano, le fonti, Milano, Giuffrè
Editore, 1966,1V ed.,
p. 56.
80) SCHIAPARELLI, Codice Diplomatico Longobardo, cit., voi. I, c. 39,
pp. 134 sgg.
81) Ibid.
82) M. BROZZI,A ppunti per una storia dei ducati longobardi di Ceneda
e Treviso, Cittadeila
(PD), Bertoncello Artigrafiche, 1978, p. 32.
37
fiume Melma, anche se non c'è stato finora alcun riscontro catastale
o archeologico.
Verso la fine dell'VIII e gli inizi del IX secolo le chiese di 5. Martino
e di 5. Fosca furono gli elementi catalizzatori attorno ai quali si svilupparono
gli insediamenti suburbani di Treviso, sintomo di una dinamica demografica
in movimento. Mentre è ignota l'epoca di fondazione di 5. Martino,
un documento dell'abbazia di Nonantola, datato 912, riporta l'anno 780
come data di costruzione de! monastero trevigiano di S. Fosca, da parte
del conte Gerardo, sulle sue terre.
Non abbiamo l'esatta cognizione della forma urbana e delle dimensioni
di Treviso durante l'età romana e altomedievale, ma la città,
probabilmente delimitata dalle diramazioni urbane del Botteniga, in epoca
altomedievale fortemente legata al ducato veneziano da interessi economici,
sembra non abbia subito le conseguenze della frattura economica riscontrata
nell'Europa continentale tra l'VIlI e il IX secolo. Tale frattura fu causata
dall'espansionismo islamico, responsabile, inoltre, della forte diminuzione
degli scambi commerciali con l'Oriente bizantino(83). Le mura, se effettivamente
esistessero anche tra i secoli VI e VIII, vengono convenzionalmente identificate
con quelle romane(84), menzionate sulla famosa lapide del duomo(85) ed
erette ad occidente lungo la riva sinistra della Roggia(86). La presenza
delle mura nell'VIII secolo è indirettamente testimoniata, oltre
che dall'atto sopra citato, anche da una charta venditionis del novembre
772 - proveniente da Casier - che riporta un "... Senature paraveredanus
...". Il paraveredanus in età tardoantica designava gli stallieri
pubblici stazionanti nei pressi delle porte cittadine(87). Inoltre, il
già menzionato documento del gennaio 773, menziona uno staffilo
(starfora), corrispondente longobardo del terminus latino e probabile
limite dello spazio urbano, nelle vicinanze della porta - e quindi della
barriera difensiva - situata vicino al ponte di 5. Chiliano. I documenti
a disposizione lasciano intravvedere una città ruralizzata e caratterizzata
dalla presena di spazi coltivabili entro la cerchia muraria.
Nessuna fonte databile tra il VI e l'VIII secolo indica esplicitamente
i limiti completi del ducato longobardo di Treviso dal momento della sua
istituzione (569) fino alla conquista franca del 774 . Nemmeno le fonti
di està
83) C. LAMANNA-F. PITTALUGA, Treviso, la
struttura urbana, Roma, Officina Edizioni,
1982, p. 28.
84) L'esistenza della cinta in età romana è attestata solamente
dalla lapide in questione e dalla
testimonianza oculare del Bailo. L. BAlLO, appunti inediti scritti a mano.
85) CIL, V, 2116.
86) Un contratto conservato all'Archivio Capitolare, b. 1, p. 10, dell'8
gennaio 1102, riporta
un murum come limite di una proprietà in località "Comarubta".
87) G.P. BOGNETTI, L'età longobarda, Milano, Giuffrè Editore,
1967, p. 215.
38
posteriore forniscono alcuna indicazione utile a una ricostruzione dei
confini ducali completi. Di parziale utilità risultano le indicano
fornite da un diploma ottoniano del 996, sulla base dell'ipotesi di una
situazione confinaria identica a quella di età longobarda, convenzionalmente
accettata. I confini del ducato longobardo possono essere dunque parzialmente
ricavati in via deduttiva dall'opera di Paolo Diacono, da un diploma carolingio
degli inizi del IX secolo, dalla documentazione veneziana relativa all'estensione
territoriale della Civitas Nova Eracliana e dalla lettura storica e archeologica
degli elementi antropici del paesaggio, come strade e luoghi fortificati.
Le ultime vicende politiche del ducato trevigiano sono cartterizzate da
eventi bellici. Chiamati da papa Leone III nel 773 per porre definitivamente
fine alle mire espansionistiche del regno longobardo, i Franchi, superate
le difese in Va! di Susa, entrarono nella pianura padana assediando la
capitale Pavia, capace di resistere per oltre un anno e Verona, città
dove si era rifugiato Adelchi, figlio del re Desiderio e da questi associato
al trono dal 759. Rispetto alle fonti papali, secondo la più attendibile
testimonianza di Andrea da Bergamo, autore circa un secolo dopo di una
historia , l'esercito franco si comportò da conquistatore, compiendo
stragi, rapine e seminando carestie(88). La resistenza più forte
fu attuata da Gaido, duca di Vicenza, dal duca di Treviso Stabilinio e
da quello del Friuli, Rotgaudo(89), intervenuti a quanto pare - solamente
quando i Franchi entrarono nel Veneto. Secondo il racconto di Andrea da
Bergamo e degli Annali franchi, i duchi venetofriulani opposero una tenace
resistenza agli invasori d'Oltralpe. I Trevigiani, i Vicentini e i Friulani,
dopo aver riportato la vittoria in una battaglia presso il Livenza, trattarono
la pace con i Franchi. La scarsa coesione, se non addirittura l'ostilità
esistente tra il lignaggio padano cui apparteneva l'ultimo re, Desiderio
e il forte centro di potere veneto-friulano - la cosiddetta Austria longobarda
- i cui membri aristocratici erano legati da saldi rapporti, può
spiegare l'astensione dal combattimento e dalla resistenza armata dei
duchi dell'Italia settentrionale e dei loro seguiti, nei momenti di reciproco
bisogno, che finì per favorire solamente gli invasori. Inoltre,
soprattutto nell'Italia settentrionale, anche se non sempre rintracciabili,
sopravvivevano ulteriori divisioni etnico territoriali. Tali divisioni
erano un pesante retaggio dello stanziamento di popolazioni eterogenee
tra loro sul territorio italico, terminale delle loro migrazioni, particolarmente
frequenti, rovinose e drammatiche nel corso del V secolo. Una di queste
enclave era la città di Ceneda(90), descritta nel VI secolo come
centro fortificato di gruppi di Franchi stanziati
88) S. GASPARRI, Dall'età longobarda,
cit., p. 22.
89) Ibid., p. 23.
90) PROCOPIO DI CESAREA, Bel/un Gothicum, cit. IV, 26. AGATHIAS, De bello
Gotthorum ed aliis peregrinis historiis temporum suorum, lI, 3.
39
in Italia la quale, pur sede di un ducato strettamente legato al Friuli,
non risulta schierata a fianco di Cividalesi, Trevigiani e Vicentini,
nella persona del proprio duca, per motivi particolaristici e per comprensibile
"solidarietà etnica" con gli invasori transalpini. Nel
776 Rotgaudo e il suocero Stabilinio, in un primo momento lasciati da
Carlo nelle loro rispettive cariche, si ribellarono al nuovo sovrano.
La presenza di un nome romano per un titolo di una certa importanza come
quello ducale è un chiaro segno di come nell 'VIII secolo esistesse
ormai una certa coesione tra alcuni gruppi gentilizi dell'aristocrazia
di origine germanica e di quella italica, capace sicuramente di attrarre
a sè, sotto il profilo culturale e istituzionale, gli elementi
più aperti degli alti lignaggi longobardi, ormai da qualche decennio
entrati anche nella sfera culturale del cattolicesimo. In seguito a questo
secondo intervento franco, Treviso venne assediata ed espugnata. Carlo,
celebrata la Pasqua del 776 a Treviso, conquistò le città
friulane "ribelli" e secondo quanto riportano gli annali franchi(91),
"Treviso con gli altri ducati che si erano ribellati, li affidò
tutti al controllo dei Franchi", facendo poi ritorno in patria. Effettivamente,
fino alla rivolta di Rotgaudo i duchi e l'apparato amministrativo del
regno rimasero in piedi, a dimostrazione del fatto che, nonostante la
sconfitta, probabilmente molti duchi si trovavano ancora in posizione
politica e militare tali da incutere rispetto e consigliare quindi prudenza
ai Franchi. La conquista franca determinò profondi cambiamenti
politici e amministrativi. I Franchi istituirono le 'marche', particolari
circo scrizioni territoriali appositamente costituite nelle zone di confine.
Nell'Italia nordorientale fu creata la Marca del Friuli comprendente i
comitati di Treviso, Ceneda e Cividale, quest'ultima capoluogo comitale.
Il conte franco, funzionario regio, era in origine una figura istituzionale
risalente all'età merovingia la cui presenza venne estesa ai paesi
conquistati. In ogni comitatus, il conte era un rappresentante diretto
del re ed aveva poteri amministrativi, presiedeva il tribunale, convocata
e comandava l'esercito in caso di guerra.
Il Chronicon Tarvisinum di Andrea Redusio da Quero, scritto nella seconda
metà del XIV secolo, ricorda un diploma carolino di grande importanza
per la storia trevigiana(92). Secondo quanto è stato tramandato,
il diploma, di cui non ci è giunta alcuna trascrizione, nemmeno
parziale, faceva risalire all'anno 801 la concessione - da parte di Carlo
Magno - delle prerogative comitali ai coniugi longobardi Gerardo e Albergonda
di Treviso
91 )Annales regniFrancorum etAnnales Einhardi,
in M.G.H., Scriptores rerum germanicarum
in usum scholarum separatin aediti, a c. di F. Kurze, Hannover, 1895,
p. 44. Cfr. Gasparini
Dall'età longobarda, cit, p. 23.
92) P.A. PASSOLUNGHI, I Collalto. Linee, documenti, genealogie per una
storia del casato,
Istituto Storico Trevisano, Italia Veneta 5, Treviso-Villorba (TV), B&M
Edizioni, 1987, p. 34.
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e il diritto di trasmetterle per via ereditaria(93). Gerardo, esponente
di quella parte dell'aristocrazia longobarda filofranca(94), fu l'immediato
successore di Stabilinio oltre che il primo conte franco di Treviso e
l'unico di età carolingia conosciuto. I Franchi, dunque, ressero
Treviso e il suo territorio raccogliendo l'eredità politica e amministrativa
del ducato longobardo. Quest'eredità fu tale da lasciare il segno
per secoli nella lingua, cultura, società, istituzioni e paesaggio.
93) Ibid., pp.34-35.
94) Id., p.35.
Il territorio del Ducato Longobardo di Treviso
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