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ALDO TOFFOLI
DUE EPISTOLE INEDITE DI GIOVANNI ANTONIO FLAMINIO
Due "epistole" di Giovanni Antonio Flaminio conservate
nella Biblioteca Classense di Ravenna gettano nuova luce sulla vicenda
esistenziale e sulla stessa opera del padre di Marcantonio.
Giacendo manoscritte all'interno di un "Codex vergilianus" ,
esse erano sfuggite a pressoché tutti gli studiosi che hanno interesse
per il letterato imolese (non molti, per il vero). Una traccia l'aveva
offerta Luigi Loreti nel suo misurato e sostanzialmente informato (anche
se non privo di errori) lavoro su Giannantonio, "Un umanista imolese
del 500. Gian Antonio Flaminio"[1[, dove cita alcuni versi della
"epistola" a Bernardo de' Rossi[2[ per trarne corrette deduzioni
sulla famiglia di Giannantonio. Ma il lavoro dello studioso imolese, apparso
nel 1909, resta del tutto ignorato; e con esso si perde anche la traccia
del manoscritto classense.
Riteniamo giusto pubblicare in questa sede i due inediti ,per la particolare,
e doverosa, attenzione che questa rivista ha sempre dimostrato per la
materia flaminiana.
I testi delle due "epistole" sono scritti in sequenza sui fogli
del "codex" di cui si è detto[3[: non si tratta quindi
degli originali, che è logico pensare che siano stati recapitati
ai loro destinatari. La grafia - cinquecentesca - presenta qualche rassomiglianza
con quella della lettera volgare di Giannantonio del
1) Luigi Loreti, Un umanista imolese del
500. Gian Antonio Flaminio, Imola, 1909.
2) Id, pag. 16. Stranamente, il Liruti attribuisce quei versi all'Epistola
a Giovan Francesco
Pico.
3) "Codex vergilianus" , segn. Mss. 200.
ALDO TOFFOLI. Laureato in lettere. Già ordinario
di italiano e latino presso il Liceo Classico M.A. Flaminio di Vittorio
Veneto. Scrittore di poesia, di letteratura e di storia, autore di numerose
pubblicazioni.
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28 agosto 1525 - certamente autografa - pubblicata in questa
stessa sede[4[. Ciò non basta per definire i due testi autografi, ma è
ampiamente sufficiente per ritenerli apografi. La definizione di "epistole"
è nostra, ed è ampiamente motivata: il modello evidente è infatti l'Orazio
della Epistulae, da cui i due testi flaminiani prendono l'impostazione,
appunto, epistolare, il verso (1' esametro) e lo stile. La prima epistola[5[
è indirizzata a Giovan Francesco Pico della Mirandola (Mirandola, 1469
- ivi, 1533), nipote del grande Giovanni, signore della cittadina emiliana
(non "principe", perché i Pico ebbero tale titolo solo nel 1596: l'appellativo
usato dal Flaminio ha quindi valore solo ... auspicale): uomo ricco di
interessi culturali e autore di numerosi scritti sui più disparati argomenti:
uno dei tanti esempi, nel suo tempo, di politici umanisti[6[. Il Flaminio
gli si rivolge con espressioni di lode che sfiorano l'adulazione: il suo
fine è di presentarsi a Giovan Francesco (che ancora non lo conosce) e
di offrigli i suoi servigi. La conclusione è schietta: aspira a diventare
suo "cliente". Il termine usato dal Flaminio deve essere spogliato dei
significati che esso aveva presso i romani - cioè, sostanzialmente, una
specie di parassita, obbligato alla salutatio (visita di omaggio) mattutina
al patronus (protettore, ma anche , un poco, padrone), in vista della
sportula (il dono, l'elargizione quotidiana che poteva anche significare,
per il cliens, il necessario per vivere) - e valere come "fedele", "seguace":
persona legata al patronus da vincoli di rispetto, di deferenza, non certo
di schiavitù mascherata. Ma non c'è dubbio che l'epistola di Giannantonio
va inquadrata in quel momento particolare della sua vita - all'indomani
della conclusione del suo ultimo soggiorno serravallese (1517 - 1520)
- in cui deve letteralmente ricostruire la sua situazione professionale
ed economica. Aiutato e protetto da Leandro Alberti e Gaspare Fantuzzi,
da quest'ultimo anche per qualche tempo ospitato, Giannantonio ha ripreso
a Bologna la sua attività di insegnamento privato (impartito ad una decina
di allievi che vivono nella sua stessa casa)
4) "Il Flaminio" n. 11, p. 35. 5) Codex Vergilianus, cc.
395r - 395v. 6)1 suoi scritti sono compresi nell'Opera omnia dello zio
Giovanni (Basilea, 1601).
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e non ha sul momento particolari difficoltà economiche[7[.
Ma non sa che cosa il futuro potrà riservargli, e quindi pensa
a qualche altra possibile fonte di reddito: l'epistola a Giovan Francesco
dimostra che quella di usare l'unico strumento di cui dispone, cioè
la sua poesia, per ottenere dagli illustri destinatari ricambio di doni
- pratica diffusamente usata, si può dire in forma quasi professionale,
nel Cinquecento, da scrittori e poeti - è chiaramente la strada
che egli si accinge a seguire.
Un'osservazione curiosa: nel 1496, scrivendo a Giovanni Pico della Mirandola
- che aveva letto una sua lettera a Angelo Poliziano, condividendo con
lui un giudizio altamente elogiativo nel confronti dell'estensore della
stessa - per ringraziarlo, coglieva l'occasione per chiedergli anche di
essere annoverato tra i suoi seguaci : "Peto ... a te ... ut ...
me ... in tuis adnumerandum putes" [8[ Il Pico accoglie di buon grado
la richiesta[9[ e il Flaminio, in una successiva lettera, lo nngrazia
con slancio " quoniam me in numerum tuorum admisisti"(10) Circa
quarant'anni dopo egli rivolge domanda analoga al nipote del celebre Giovanni,
anche se con fini un po' diversi. E, non sfiorando nemmeno quel suo precedente,
evita la facile captatio benevolentiae, dimostrando di avere buon gusto
e senso della misura.
Non abbiamo notizia dell'esito di questo suo tentativo, e se ad esso ne
siano seguiti altri, magari con altri destinatari.
La seconda epistola è indirizzata a Bernardo de'
Rossi, Vice Legato di Bologna[11[. Rampollo di una delle principali famiglie
della nobiltà parmense, il de' Rossi[12[, vescovo di Belluno dal
1488 al 1499 e poi di Treviso dal
7) Questo afferma egli stesso nella lettera
al figlio Marcantonio da Bologna, databile 1522.
In: JoanniaAntonii Flaminii . . . Epistolae Familiares . . ., a c. di
Domenico Giuseppe Capponi,
Bologna, 1744, IV, I, pag. 191.
8) Id, III, XIII, pag. 131.
9) Id, III, XIV, pag. 133.
10) Id, III, XV, pag. 134.
11)11 de' Rossi, essendo "solo" vescovo, non poteva essere "Legato",
carica che normalmente spettava a un cardinale. Al titolo di "Vice
Legato" corrispondeva comunque, nel suo caso,
la pienezza dei poteri del Legato.
12) Bernardo, figlio di Guittone de' Rossi, conte di Berceto (Parma),
1468 - 1527.
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1499, è costretto a tenersi lontano dai territori
della Repubblica di Venezia dall 510[13[, ma non rinuncia però
al vescovado, che continua ad amministrare tramite i suoi vicari. Investito
di vari incarichi, prima da papa Giulio II[14[ e poi da Leone X[15[, è
fatto Vice Legato di Bologna qualche anno prima del 1520 e manterrà
tale ufficio fino alla morte. Il de' Rossi, tra l'altro, ha fama di essere
amico di letterati e artisti[16[, e ciò non può non suonare
gradito al nostro Giannantonio, che già pochi mesi dopo il suo
arrivo a Bologna gli indirizza una lettera di ossequio[17[. L'altra lettera
di Gianantonio al de' Rossi che ci è rimasta è quella -
celebre almeno a Vittorio Veneto - del 13 novembre dello stesso anno,
in cui gli descrive l'alluvione che aveva investito Serravalle nel mese
precedente[18[. Queste due lettere ci danno sufficienti elementi per dire
che l'epistola di cui stiamo trattando è dello stesso tempo, e
si può situare con buoni margini di probabilità tra le date
di esse, cioè tra il febbraio e il novembre 1521.
E' evidente che anche l'epistola al de' Rossi ha il fine, se non di proporre
il suo autore come "cliente" del destinatario, almeno di presentare
le sue idee e la sua concezione della vita, di dimostrare la loro vicinanza
a quelle del Vice Legato, e di ottenere così da lui benevolenza
e protezione. Ma il disegno di essa è molto più largo e
complesso, perfino più ambizioso di quella al Pico. Giannantonio
propone una sintesi della sua filosofia di vita, delle norme morali cui
egli da sempre la ispira, e applica tale griglia di giudizio alla società
del suo tempo, non specificamente a quella bolognese: ne vien fuori il
quadro di una società, oggi si direbbe, a rischio: a rischio di
materialismo e di edonismo, quindi di corruzione; di essere regolata dalle
gerarchie della ricchezza, per cui importa su tutto, non l'essere, ma
l'avere, non l'onesto, ma l'utile: la stessa società che farà
da sfondo ad un'opera di qualche anno successiva all'epistola: il "Dialogus
de educatione liberorum ac institutione"
13) Ciò avviene all'indomani della
guerra di Venezia con la Lega di Cambrai, nel corso della
quale suo fratello, dopo essere stato al soldo di Venezia, era passato
con Massimiliano.
14) Giuliano della Rovere, papa dal 1503 al 1513.
15) Giovanni de' Medici, papa dal 1513 al 1521.
16) Tra i quali, ad esempio, Girolamo Bologni (1454 - 1517), che era stato
amico del
Flaminio.
17) La lettera è del 5 febbraio 1521. V. J.A.F., Epistolae, cit.,
Il, XXI, pag. 93.
18) Id, Il, XXII, pag. 95.
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(Bologna, 1524). Ma mentre nel Dialogus interessa a Giannantonio
mettere in luce un particolare aspetto negativo dei bolognesi: cioè
quello di non curare molto l'istruzione, e meno ancora l'educazione dei
loro figli, al punto da preferire il maestro mediocre che costa poco a
quello provetto, ma dagli stipendi alti; nell'epistola il discorso è
più largo e le considerazioni hanno un respiro più completo:
si direbbe, per consentire al Flaminio di mettere meglio in luce le qualità
del Vice Legato di Bologna - cioè Bernardo de' Rossi -capace di
mettere i bolognesi sulla retta via. La conclusione dell'epistola ci propone
l'altra faccia della società, quella positiva, quella che a Bologna
si può ammirare per merito del suo reggitore. Qui Giannantonio
non riesce ad evitare del tutto il rischio di scivolare nell' adulazione
(sembra, a suo dire, che quello di Bologna sia il migliore dei mondi possibili,
una città beata che vive una nuova età dell'oro; e questo,
per giunta, dopo solo pochissimi anni di governo del de Rossi !), ma gli
elementi su cui si basa la descrizione di questa società perfetta
ci sono di straordinario interesse, perché ci rivelano, in controluce,
le condizioni ideali del vivere civile cui poteva aspirare nel 1500 un
cittadino quale egli era: di buona cultura e conscio della dignità
e dei diritti dell'uomo. Esse sono: la giustizia, la concordia, la pace;
la difesa della proprietà; la tutela dei deboli nei confronti dell'arroganza
dei potenti; dei poveri contro le rapine dei ricchi; e la giustizia per
tutti.
Un discorso, quello del Flaminio, in cui si esprime - e si conferma -
una personalità equilibrata, ispirata ad una nobile concezione
dell'esistenza; un discorso schietto e pacato, che si piega all'enfasi
quando tratta delle virtù del destinatario dell'epistola, ma comunque
non va nemmeno in questo oltre i limiti, si può dire canonici,
della letteratura encomiastica del tempo.
Il modello - si diceva più sopra - è con ogni evidenza l'Orazio
dei Sermones e delle Epistulae: lo richiamano il tono discorsivo, l'andamento
stilistico, tendente al "prosastico", coniugato con l'uso del
verso "eroico", cioè l'esametro, perfino certi spunti
di contenuto, soprattutto nella prima parte. Mancano, per il vero, alle
due epistole (sembra perfino superfluo rilevarlo), la bonarietà
di fondo, l'urbana giocosità, l'arguzia dell'Orazio dell'opera
satirica: il discorso flaminiano, serio e appassionato, è intriso
di una "indignatio" che Orazio non fa sentire e non prova: ma
sono, questi, aspetti dell'opera che fanno capo alla umana personalità
e al mondo morale del singolo autore. E non mettono in discussione l'evidenza
dell'ispirazione oraziana delle due operette di Giannantonio Flaminio.
133
L'accostamento dei tre passi oraziani che parlano del padre
(Serm., I, V e Ep., I, XIX; ma soprattutto I, VI, 65 - 99: uno dei momenti
più alti della poesia di Orazio e forse l'inno più bello
che mai poeta abbia levato alla figura paterna) con i versi 29-33 dell'
epistola di Giannantonio, ci dice chiaramente che il letterato imolese
riconosce in suo padre caratteristiche simili a quelle del padre di Orazio;
e le mette in luce in forma misurata e commossa, rivelando un affetto
nei suoi confronti, ed un orgoglio di averlo per genitore, che egli sente
di condividere con i sentimenti che il grande poeta di Venosa nutriva
per suo padre. Conferma, questo passo, un aspetto del mondo dei sentimenti
del Flaminio che già si rivela in più luoghi delle sue opere:
quello dell'amore per la sua famiglia di origine: peri! padre e la madre,
per i fratelli, per i nipoti. Un sentimento spontaneo e caldo di cui non
troviamo traccia, invece, nel figlio Marcantonio, che per la sua famiglia
ha, nella sua opera, rari cenni, sostanzialmente freddi.
Questo stesso brano dell'epistola, integrato con i tre versi che lo precedono
(26-28), ci dà elementi definitivi per correggere una versione
relativa alla nascita di Giannantonio, alla sua famiglia e al suo stesso
padre, che, proposta dal Mancurzi[19[, viene acriticamente accettata da
tutti i biografi del Flaminio, fino ai nostri giorni.
Il Mancurzi parte da quanto afferma Carlo Sigonio nella sua Vita di Onofrio
Zarrabbini, tradotta da Borgaruzzo Borgarucci e da lui pubblicata nel
1585[20[.
Dice il Sigonio (Borgarucci), parlando della "nobil famiglia"
degli Zarrabbini, che ". . .di Ugo secondo nacque Ludovico, prudente
e valoroso guerriero, e di quello, Giannantonio Dottor di Legge, il quale
lesse pubblicamente nello Studio di Bologna "[21[ Tanto basta al
letterato imolese per affermare, nella sua biografia di Giannantonio,
che egli nacque" . . . ex nobili Zarrabbinorum familia", e fu
". .. Ludovici strenui militis fihius" [22[ Seguono, si può
dire "a cascata", acriticamente, gli altri biografi: Il Capponi:
19) Cfr.: Marci Antonii, Joannis Antonii
et Gabrielis Flaminiorum ... Carmina ..., a c. di
Francesco Maria Mancurzi, Padova, Comino, 1743.
20) Cfr.: id, paqg. 373.
21) ld, pag. 374. Su Giannantonio il Sigonio (Borgarucci) erra due volte:
non era infatti
"dottor di legge" e non professò mai pubblicamente a
Bologna.
22) Id, pag. 424.
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(J.A.F.) " . . .parente Ludovico ... magnae virtutis
milite, ex illustri, ac
pervetusta Zarabbinorum familia . . "(23); il Liruti: "... fu
il di lui (di
Giannantonio) padre il valoroso soldato Ludovico della nobile famiglia
de'
Zarrabini (24); ilCuccoli: "G.A. discendeva dalla nobile e antica
famiglia
Zarrabinì. .. e ilpadre suo Ludovico fu prode e illustre guerriero"
(25); e il De
Matteis, recentemente : (G.A. F.) " . . . nacque ... dal cavaliere
Lodovico
Zarrabini "[26[
Il brano dell'epistola del Flaminio ci consente di chiarire in via definitiva
che la famiglia da cui egli proviene è modesta (circa la sua nobiltà,
il testo ci lascia qualche dubbio, ma, posto che ci sia stata, doveva
essere di grado abbastanza basso); che suo padre era un personaggio minore,
pressoché sconosciuto nel suo tempo: l'unica ragione che lo rende
memorabile, a giudizio del figlio, è del tutto interna alla sua
famiglia: era infatti un gran brav'uomo e un padre esemplare, impegnato
a procurare ai suoi figli una istruzione nelle arti liberali. Nessun cenno,
nell'epistola, alla sua pretesa professione di "miles", e men
che meno allo status di "cavaliere" di cui parlano i suoi biografi.
E il fatto che su ciò il Flaminio non dica, in tutta la sua opera,
assolutamente niente, neanche nella importante lettera scritta al suo
amico e protettore Cardinale Riario subito dopo il suo ritorno a Imola
nel 1509, in cui fa un po' il racconto della sua vita, riferendosi più
volte ai suoi genitori[27[, dimostra in modo chiaro che Ludovico Zarabini[28[
non fu uomo d'arme, e di lui e della sua vita, trascorsa in una piccola
casa ("lareparvo"), non c'è niente di notevole da registrare,
salvo, beninteso, l'essere stato padre di Giannantonio Flaminio.
Quanto al valore letterario delle due epistole flaminiane,
c'è poco da dire. Rispetto alla poesia delle Silvae e degli Epigrammata[29[
esse rappresen
23) J.A.F., Epistolae, cit., pag. I.
24) Giuseppe Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da letterari
del Friuli, vol. III, pag. 161.
25) M.Antonio Flaminio. Studio di Ettore Cuccoli, Bologna, 1897, pag.
23.
26) V.De Matteis, Dizionario Biografico degliltaliani, voce GiovanniAntonio
Flaminio, vol.
48, pag. 278.
27) Si veda, in particolare, l'importante lettera al Riario, databile
1509 - 1510 da Imola
(J.A.F., Epistolae, cit., I, VII, pag. 12).
28) I vari testi riportano le varianti: Zarrabbini, Zarrabini, Zarabbini,
Zarabini.
29) Joannis Antonii Flaminii Forocorneliensis Silvarum libri Il. Eiusdem
Epigrammatum
libri III, Bologna, De Benedictis, 1515.
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tano un momento più maturo e un indubbio passo avanti
in termini di qualità. Il latino di quelle due raccolte presenta
uno stile rigido, spesso faticoso e pedantesco, prodotto di scuola. Mentre
qui il taglio discorsivo rende lo stile, specie nell'epistola al de' Rossi,
più fluente e vario: efficacemente rispondente, nella sua pacata
semplicità, alle mutate condizioni di spirito del Flaminio che,
dopo tante traversie e rimasto ormai solo, ha deciso, anche come scrittore,
di "tirare i remi in barca".
Si tratta pur sempre di cose modeste, ma non indegne di interesse, per
la ragioni dette, per quanti sono attenti alle cose flaminiane.
JO: ANT: ILLUSTRI PRINCIPI IO: FRANCISCO MIRANDULANO S.D.[30[
Suspendi calamum dubius, Musamque repressi
Ter nimis audentem tibi scribere, meque uolentem
Inuito chartis intexere digna cachino.
Digna legi pueris, ferulae quos uerbera terrent
5
Ad cathedras, crepitumque cientis dura magistri
Iurgia. Consului, ne tantum audere, nec ultra
Pergeret imprudens causas tentare pudoris,
Dum sibi, dum famae mali consulit, at nihil actum.
Dumque reclamantem surda me praeterit aure
10
Perfricuit frontem atque in nugas ora resoluit,
Quas legeres, male tentatas ego linquere habenas
Sic demum, quid enim facerem? sum magne coactus
Princeps Ausoniae nunc maxima gloria gentis,
Et patriae splendor, tot avorum clara propago
30) Il testo delle due epistole è
riprodotto fedelmente. Si corregge solo in alcuni luoghi
l'interpunzione e si integrano i dittonghi del v. 15 dell'epistola al
Pico e dei versi 42, 113, 158
dell'epistola al de' Rossi. Le note di chiarimento del significato sono
allegate solo alla
traduzione.
31) Cioè con la poesia di Virgilio.
32)11 campo degli interessi filosofici e letterari di Giovan Francesco
è effettivamente lo stesso
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15 Grande tui decus et S(a)ecli. quo sospite lumen
Romani Eloquii, quo sospite gloria linguae
Prisca redit vatum libris aequanda priorum,
Aemulaque assurgens Mantòo musa Cothurno.
Ne me igitur forte audacem Francisce putaris
20
Neu mirere precor, quod non tibi notus, et ultro
Scribere non dubitem. lubet hoc pia Musa, monetque
Laude etiam dignum, qui tentat magna, licebit
Optatam cursu nequeat contingere metam
Et paia hoc studia hortantur, queis valdius usquam
25
Esse nihil cernis, quod vincula nectat Amoris
Vincula, quae vulgi distent ratione, modoque
Duxeris, in trutina pensanda humaniter, aequa
Esse tibi statues, nec vatis spernet Amici
Ista preces virtus, quanuis sublimis et alto
30
Aurea iampridem quae vertice sidera pulset.
Una sit haec voti, pariterque praecumque mearum
Summa tibi. Incipias posthac ut suauis amicum
Scribere Flaminium. nimis est. at scribe clientem.
GIOVANNIANTONIO FLAMINIO ALL'ILLUSTRE PRINCIPE GIOVANNI FRANCESCO MIRANDOLA,
SALUTE.
Ho sollevato la penna nel dubbio, e tre volte ho trattenuto
la Musa che osava troppo volendoti scrivere, e me stesso, mentre volevo
stendere sulle carte cose degne di involontario sorriso: degne di essere
lette dai fanciulli, che stanno atterriti davanti alle cattedre, temendo
i colpi di bacchetta, e lo strepito del maestro che muove i suoi duri
rimproveri. Ho riflettuto se per caso un atto temerario come questo non
mi spingesse troppo oltre, a superare le soglie del pudore: ma mentre
riflettevo su di me e sulla cattiva fama che ne avrei tratto, non mi decidevo.
Finché la Musa è passata davanti a me senza prestare orecchio
alle mie proteste, mi ha strofinato la fronte per farmi deporre ogni pudore
e ha sciolto le mie parole in queste inezie, che ora tu potrai leggere;
così alla fine io ho abbandonato ifreni malamente toccati:
che cosa infatti avrei potuto fare? Sono stato costretto, o gran principe
137
d'Ausonia, gloria suprema della tua famiglia, e splendore
della tua patria, illustre discendente di sì antica pro genie,
grande onore tuo e della tua età; per merito del quale ritorna
la gloria della lingua antica, paragonabile alle opere dei poeti di un
tempo, Musa che si leva a competere col coturno Mantovanc[31[.
Non considerarmi dunque sfrontato, o Francesco, non stupirti, ti prego,
per il fatto che, a te sconosciuto, non esito a scriverti, di mia iniziativa.
Me lo ordina la Musa devota, e mi ammonisce che è degno di lode
colui che si cimenta in grandi imprese, anche se con la sua corsa non
è in grado di raggiungere la meta desiderata. E a ciò mi
esortano anche gli studi eguali[32[, dei quali tu sai che non c'è
niente di più forte che stringa i vincoli dell' amore:
e questi vincoli, che secondo la misura comune possono essere lievi, tu
considerali con un metro epesali con una bilancia benevoli, giudicando
che sono degni dite, e la tua virtù non disdegni le preghiere dell'amico
poeta, per quanto essa sia sublime, tanto da toccare in cielo le auree
stelle.
Eccoti insomma il senso pieno del mio voto e delle preghiere che ti rivolgo:
che tu benevolmente voglia cominciare d'ora in avanti a scrivere Flaminio
tra i tuoi amici. Ma no, (amico) è troppo: scrivilo tra i tuoi
clienti[33[.
JO: ANT: FLAMINIUS BERNARDO RUBEO BONONIAE LEGATI VICEM GERENTI. S.D.
Quaerebam tacitus, si quid tibi scribere possem
Indignum cartis levioribus, aure bibendum
Attenta, in longum quod se se extenderet aeuum.
Plurima quaerenti mox sunt oblata, sed unum
31) Cioè con la poesia di Virgilio.
32) 11 campo degli interessi filosofici e letterari di Giovan Francesco
è effettivamente lo stesso
al quale dedica i suoi studi Giannantonio.
33) Il Flaminio, abilmente, presenta la sua richiesta di diventare cliente
di Giovan Francesco
come un atto di umiltà: perché chiedere di essere considerato
suo amico sarebbe presunzione.
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5 Praetulimus cunctis, quae praesens carminis esset
Materia, atque tuas retineret grauiter aures
Quas cunctis praebes facile, et patienter in horas,
Vel cum lus dicis, uel munera sedulus exples
Publica, uel solers populorum commoda curas.
10
Nec me adeo credas blandiri, et quaerere causas
Cur faueas magis haec scribenti: vera loquemur
ludice te, populis tot testibus, in quibus affert
Hunc mihi si quaeris, quae ut scribam causa calorem
Excitet. haud uana est, quamque amplectare, praebesque.
15
Fama tui pridem me nominis incitat, et quae
Rara tibi in raris, quos nostra haec extulit aetas
Inventa est virtus, animos quae molliat, et quae
Attrahat, inque sui vel barbara cogat Amorem
Pectora, quae Scythico Boreas vel tundit ab axe
20
Arentis lybies medio uel torret in orbe.
Haec mihi uota diu, ne forte recentia credas,
Haeserunt animis, et fixa tenaciter haerent,
Atque adeo creuere quidem, ne ferre sit ultra
Urgenteis stimulos, et agentem in foedera musam.
25
Quae ne sperne rogo, quod sim tibi uiribus impar
Ingenii, quod sim simili non stemmate cretus
Atque animi inferior tot dotibus, adiice famae
Splendorem, qui me non contigit e lare paruo
Eductum, et modicis natalibus, atque parente
30
Obscuro, cuius nil sit memorabile, praeter
Egregias animi Dotes, et stirpis alendae
Artibus ingenuis curam, atque hic magnus haberi
Dignus, et in summis non ultimus. haec ego mecum
Transegi tacitus tanquam non uana, nec ullis
35
Postponenda mihi rationibus. Aut ego fallor,
Aut tibi nil possit iucundius esse, nihilque
Aut quod par ducas, aut quod praeponere possis.
Quanti ego sim fateor nescire, ac ducere parui
Omnia, quae tribuit mihi vel natura, vel ardens
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40 Cura nimis, studium solers, industria magnis
Aemula. sed tamen haec quaecunque, et qualiacunque
Aut nulla, aut paucis cura est qu(a)esisse latebras
Ignotas etiam primoribus. hinc mala genti
Omnia, quae plerique putant, et sola uidentur
45
Esse bona, usqueadeo fallit dementia mentes
Et capit humanas. adeo spectantur inunctis
Ista oculis, densisque animos caligo tenebris
Occupat, et prohibet propius dignoscere verum
Ergo ut phaenicem mirer, si se offerat usquam
50
Talia qui uideat, qui talia curet, et ultro
Rectum amplectatur, surda qui transeat aure
Sirenum cantus, qui plumas Sardanapali
Et Venerem, et coenas homine inferiora putarit.
Hoc adeo inuentu est, adeo mirabile dictu
55
Ut uix inuenias multis in millibus unum.
Commoda quis patriae propriis praeponere iam nunc
Sustinet? et magnis agere, atque ostendere ciuem
In rebus uerum? Cui, si tollantur honorum
Praemia non vilis fiat respublica? quem non
60
Ambitio torquet ? cui nunc reverentia legum
Debita sanctarum ? quis veri cultor, et aequi?
Ille fidem violat. Praeponit hic utile honesto.
Rarus Amicitiae locus est. discordia fratrum
Plurima, nam pietas procul exulat. Impia flagrant
65
Vota. Deum cultus, et relligionis amator
Vix usquam est. scelerum merces, penuria, fraudes.
Quod si quem videas populum melioribus uti
Iudiciis, qui non prorsus contempta relinquat
Scita patrum, et leges uiuendi rectius aequas
70
Se tua tam multos Illustris fama per annos,
Claraque non ullis intenmoritura diebus
Gloria, quae sacrum Stygiis caput istud ab umbris
Eximit, atque tuum nomen super aethera tollit.
Summa est, atque uiget ratio mortalibus una
140
75 Viuendi necte. Sola est, quae pronoget aeuum,
Et dignum efficiat vita feliciten acta
Quemlibet. haec meta est, quam tangere debeat unus
Quisque hominum, si sit prudentia, si rationis
Non egeat, quae sola hominem secernit abunde
80
Immundis suibus, tandis secernit asellis.
Quod si sit ratio nobis disiuncta nec actus
Dirigat humanos, inconsulteque fenamur
Quantum distet homo brutis animantibus ? Atqui
Vincimur in multis, et cogimur ire minores,
85
At si sit nobis prudentia, Iustitiaeque
Si simus memones, nec fortia pectora cadant
Tnistibus advensis, adsint modenamina rebus
Rex sit homo, et sapiens, et uenus cultor honesti.
Quod si quem napiat, subdatque, infraena libido
90
Si sit auanitiae pollutum faenone pectus,
Si cnescant, et opes, et Amor non cesset habendi
Invidiae tnistis macies Corpora carpat,
Haud dicam esse hominem, cui sensus aufenat atrox
Pestis, et efficiat pnorsus nationis egentem.
95
Cognita sed naris, perpaucis ista teneilda est
Semita, quos oriens sol aspicit occiduusque,
Atque, idcirco hominum studia in diuersa trahuntur.
Lumen abest recti. procul est sapientia, cuius
Nemo est, virginibus cui sit violare pudorem
100
Turpiter, aut nuptis petulans audacia castis.
Ista tua est pietas. ista est tua forma regendi
Ordinibus cunctis. diuini pectonis istud
Est specimen summum Virtutis, et ingenii Dos
Maxima, quam raris praesens haec contulit aetas.
105
O, felix, nimiumque o, culta Bononia felix,
Praeside cui tanto Saturni ducere seclum
Contigit, o me etiam felicem, cui lane certo
Decretum optatas iam pridem hic figere sedes.
Sed multis pariten populis haec commoda, paxque
141
40
Cura nimis, studium solens, industria magnis
Aemula. sed tamen haec quaecunque, et qualiacunque
Aut nulla, aut paucis cura est qu(a)esisse latebras
Ignotas etiam primoribus. hinc mala genti
Omnia, quae plenique putant, et sola uidentur
45
Esse bona, usqueadeo fallit dementia mentes
Et capit humanas. adeo spectantur inunctis
Ista oculis, densisque animos caligo tenebnis
Occupat, et prohibet pnopius dignoscere verum
Ergo ut phaenicem minen, si se offenat usquam
50
Talia qui uideat, qui talia curet, et ultro
Rectum amplectatun, sunda qui transeat aune
Sirenum cantus, qui plumas Sandanapali
Et Venenem, et coenas homine inferiona putant.
Hoc adeo inuentu est, adeo mirabile dictu
55
Ut uix inuenias multis in millibus unum.
Commoda quis patriae propniis pnaeponere iam nunc
Sustinet ? et magnis agene, atque ostendene ciuem
In rebus uerum ? Cui, si tollantur hononum
Praemia non vilis fiat nespublica ? quem non
60
Ambitio torquet ? cui nunc reverentia legum
Debita sanctarum ? quis veri culton, et aequi?
Ille fidem violat. Pnaeponit hic utile honesto.
Rarus Amicitiae locus est. discordia fnatrum
Plurima, nam pietas procul exulat. Impia flagrant
65
Vota. Deum cultus, et nelligionis amaton
Vix usquam est. scelerum mences, penuria, fnaudes.
Quod si quem videas populum melioribus uti
Iudiciis, qui non pronsus contempta nelinquat
Scita patrum, et leges uiuendi nectius aequas
70
Se tua tam multos Illustris fama per annos,
Claraque non ullis intermonitura diebus
Gloria, quae sacnum Stygiis caput istud ab umbris
Eximit, atque tuum nomen super aethena tollit.
Summa est, atque uiget ratio mortalibus una
140
75 Viuendi necte. Sola est, quae proroget aeuum,
Et dignum efficiat vita feliciter acta
Quemlibet. haec meta est, quam tangene debeat unus
Quisque hominum, si sit prudentia, si nationis
Non egeat, quae sola hominem secernit abunde
80
Immundis suibus, tardis secernit asellis.
Quod si sit ratio nobis disiuncta nec actus
Diigat humanos, inconsulteque feramur
Quantum distet homo bnutis animantibus ? Atqui
Vincimun in multis, et cogimun ire minones,
85
At si sit nobis prudentia, Iustitiaeque
Si simus memores, nec fortia pectona cadant
Tnistibus adversis, adsint moderamina rebus
Rex sit homo, et sapiens, et uerus culton honesti.
Quod si quem rapiat, subdatque, infraena libido
90
Si sit auaritiae pollutum faenore pectus,
Si crescant, et opes, et Amor non cesset habendi
Invidiae tristis macies Conpora canpat,
Haud dicam esse hominem, cui sensus aufenat atrox
Pestis, et efficiat pnorsus rationis egentem.
95
Cognita sed naris, perpaucis ista terenda est
Semita, quos oriens sol aspicit occiduusque,
Atque, idcirco hominum studia in diuensa trahuntur.
Lumen abest recti. procul est sapientia, cuius
Nemo est, virginibus cui sit violare pudorem
100
Turpiter, aut nuptis petulans audacia castis.
Ista tua est pietas. ista est tua forma regendi
Ordinibus cunctis. diuini pectoris istud
Est specimen summum Virtutis, et ingenii Dos
Maxima, quam raris pnaesens haec contulit aetas.
105
0, felix, nimiumque o, culta Bononia felix,
Pnaeside cui tanto Saturni ducene seclum
Contigit, o me etiam felicem, cui lare certo
Decnetum optatas iam pridem hic figene sedes.
Sed multis pariten populis haec commoda, paxque
141
110
Et tranquilla quies, tum par concondia, nebus
Certa fides cunctis, et gaudia fusa per unbes,
Quae multae impenio parentque, tuisque neguntun
Auspiciis, quibus illustras hoc maximus (a)euum,
Et facis, exemplum ne desit, quod queat aetas
115
Obijcere antiquis Curionibus, atque Metellis
Siue Numae malis, Minoibus, atque Lycungis.
Sic te perpetuum sequitur Decus, atque penennis
Fama viget, senos uel post uictuna nepotes
Quae clanos Rubeaeque domus, patriaeque priones
120
Sic auxit titulos, ut cnescene vix queat ultra
Splendor, et antiquae se tollene gloria gentis.
Viue diu felix, et te tua fama remotis
Ostendat populis, vel quos gangetica tellus
Diues alit, tellus surgenti proxima soli,
125
Vel quos Hesperio languenti lumine Titan
Orbe uidet, seras ubi se iam condit in undas.
Et, cum te nepetent Supremi Tempona Fati,
Et quem nelligio moueat, ne pnorsus habenas
In uitium laxet, laus est, et cura regentis
130
Quem sequitun, cuius reuerentia diigit actus,
Cuius ad exemplum mones formantur, et omnis
Temperiem motus, damnosa licentia fraenos
Accipit, inque animis natio uestigias senuat.
O, quam diuine, quamque o feliciten actum
135
Cum Populo, Talem cui pnosperiona dedenunt
Ac tantum patniae nectonem fata, ducemque.
Num licet optandae uetenis tam semita uitae,
Oblita tot vitiis occulto tnamite failat
At reperire tamen rectum est iten, adsit ubi illud
140
Qui monstret, tenebris et lumen pnaefenat atris.
Et, ne forte abeam procul, et semota petantur
Exempla, ex ranis diuina negentibus, offert
Se tua, quam mirer, quam priscis iustius aequem
Clara diu, et populis iampridem cognita virtus.
142
145
Nec me adeo fugit ratio, vel lubricus error
Decepit, Dotes animi ut non metiar istas
Sint quanti ut valeam non fosse, ac cernere uenum.
Nam te quis melior ? quis sit modenantior alten?
Iustitiaeque tenax magis, et seruantior aequi?
150
Quis maior pacis custos ? cui uel fuit unquam
Sic Patrum, ut plebis tantae concordia cunae?
Tuta suis bona sunt hic possessonibus, audet
Pauper, et imbellis te defendente, sibique
Atque suis rebus certam spondere salutem.
155
Non est in populis Diues quem terneat ullus.
Conditio sua cuique manet, quam nulla Potentis
ungeat ambitio, aut elata Superbia quasset.
Incipias vitae multo felicius (a)euum
Viuere, non ullo infenion uel laude prionum
160
Vel minor his, tecum quos pnaesens educat aetas.
GIOVANNI ANTONIO FLAMINIO A BERNARDO DE' ROSSI, VICE LEGATO DIBOLOGNA,
SALUTE.
Cercavo tra me e me se ti potessi scrivere qualcosa che
fosse materia non propriamente degna di carte di poco conto, ma da seguire
con orecchio attento, e tale da durare a lungo nel tempo. Mentre cercavo,
misi sono offerti molteplici argomenti, ma su tutti ne ho preferito uno,
che fosse materia attuale per la mia poesia, e attirasse seriamente la
attenzione dei tuoi orecchi, attenzione che presti a tutti sempre con
affabile pazienza, sia quando amministri la giustizia, sia quando adempi
con zelo ai tuoi pubblici uffici, sia quando curi solerte gli interessi
della gente. E non credere che io ti biandisca a tal punto, e che cerchi
il modo perché tu favorisca di più chi scrive queste cose:
dirò cose vere - e tu sarai giudice e tanta gente testimone
- in cui si dimostrerà, se me lo chiedi, che la causa che determina
questo mio desiderio di scrivere ha buoni elementi perché tu la
approvi e la sostenga. Da tempo la fama del tuo nome mi incita, e così
la rara virtù che si è còlta in te, tra ipochi che
questa età ha posto in alto, che intenerisce e attrae gli animi,
e costringe ad amarla anche i cuori barbari, sia che Borea lipercuota
143
da/polo degli Sciti, sia che li bruci in mezzo alle terre
dell'arida Libia.
Questo voti da lungo tempo si sono fissati nel mio animo - non crederli
recenti - e tenacemente persistono, e a tal punto sono cresciuti, che
non posso sostenere oltre gli urgenti stimoli, e la Musa che mi induce
ad obbedire alle sue leggi.
Non disdegnare tutto ciò, te neprego,per ilfatto che non ti sono
pari per forza di ingegno, e discendo da antenati non paragonabili ai
tuoi;perché in tutte le doti dell'animo ti sono inferiore; e aggiungi
lo splendore della fama, che non è toccato a me, uscito da una
piccola casa, e da una famiglia modesta, e da un padre oscuro, di cui
non c'è niente da ricordare, aldilà delle non comuni doti
dell'animo, e della sollecitudine di crescere i suoifigli nello studio
delle arti liberali, e per questo degno di essere considerato grande,
e non ultimo tra i sommi. A queste conclusioni io sono giunto dentro di
me, considerandble non vane, e da non posporre per me a nessun'altra ragione.
O mi sbaglio, o niente potrebbe essere a te più gradito, e che
tu consideri altrettanto, o possa preferire: ti confesso che non so quanto
io valga, e considero poco tutte quelle cose che mi ha dato la natura,
e la cura appassionata (dei miei), e l'applicazione assidua allo studio,
e l'aspirazione ad emulare i grandi. Ma tuttavia, quali che siano queste
doti e quale che sia il loro valore, il fatto di aver frugato nei depositi
più nascosti, ignoti anche ai più importanti (studiosi),
questo non importa niente a nessuno, o, al più, a pochi. Così
sembrano buone o cattive solo le cose ritenute tali dai più: a
tal punto la follia inganna, e si impadronisce delle menti umane. Queste
cose si osservano con occhi a tal punto ottenebrati, e in tale misura
la caligine copre gli animi di dense tenebre e impedisce di discernere
più da vicino il vero, che io mi stupisco come se fossi di fronte
alla fenice[34[, se in qualche luogo si presenta qualcuno che veda tali
cose e se ne curi, e scelga spontaneamente il bene, che vada avanti senza
prestare orecchio al canto delle sirene, che consideri le piume di >Sardanapalo[35[,
l'amore solo come sesso, e i bagordi, cose indegne dell'uomo. Trovare
un caso come questo e parlarne è talmente stupefacente, che sì
e no accade una volta su molte
34) La fenice era un mitico uccello sacro
degli Egizi, che ogni 500 anni moriva bruciato e poi
risorgeva dalle proprie ceneri. Qui usata in senso figurato, per dire
soggetto più unico che raro.
35) Monarca assiro famoso per le sue dissolutezze.
144
migliaia. Chi ormai è capace di anteporre gli interessi
della patria aipropri? E nelle grandi circostanze agire e mostrarsi come
vero cittadino? Per il quale, ove gli si riconoscano pubblici incarichi,
la pubblica cosa non ne risulti svilita? Il quale non sia tormentato dall'ambizione?
Che abbia il dovuto rispetto per le sante leggi ? Chi ormai pratica più
il culto del vero e del giusto? Quello tradisce la parola data. Questo
antepone l'utile all'onesto. Raramente si fa posto all'amicizia. Si moltiplicano
le discordie tra i fratelli: infatti l' amor fraterno è lontano.
Divampano i propositi scellerati. Il culto di Dio e gli innamorati della
religione non esistono quasi più. Il prezzo dei delitti sono gli
spergiuri e le frodi. Che se tu vedi qualche popolo fruire di giudici
migliori, che non lasci cadere disprezzati i decreti dei padri e le giuste
leggi del vivere rettamente, la tua fama già illustre da molti
anni, e la tua gloria splendente che non verrà mai meno, e sottrae
questo tuo sacro capo alle onde dello Stige, solleva sé e il tuo
nome alle volte del cielo.
La più alta e la sola norma vigente per i mortali è quella
di vivere rettamente. E la sola che si prolunghi nel tempo e renda degno
(di essere ricordato) chicchessia è la vita vissuta nel bene. Questa
è la meta che dovrebbe toccare ogni uomo se fosse saggio, se non
mancasse di quella regola che sola distingue a sufficienza l'uomo dai
porci immondi, o dagli ottusi asinelli. Che se non avessimo questa regola,
e essa non guidasse i nostri atti umani, e ci comportassimo inconsultamente,
quanto sarebbe diverso l'uomo dagli animali bruti? E' vero che siamo legati
insieme con molti altri, e siamo costretti ad essere subalterni, ma se
possediamo la saggezza, e se ci ricordiamo della giustizia, i nostri forti
animi non si pie gherebbero nella circostanze avverse, le cose avrebbero
il loro governo, e l'uomo sarebbe un re, e sapiente, e sincero cultore
della virtù.
Che se uno è trascinato e sottomesso dalla sfrenata libidine, se
il suo animo è sedotto dal demone della cupidigia; se crescono
le sue ricchezze e non cessa in lui la voglia di possederne (ancora),
e la triste ma grezza dell'invidia divora il suo corpo, non potrei dire
che sia un uomo quello a cui un'atroce peste toglie ogni sensibilità
e lo rende del tutto privo di ragione. Questo sentiero è conosciuto,
ma da pochi, epochissimi ritengono di doverlo seguire, a oriente come
a occidente, eper questo le passioni degli uomini si spingono nelle più
diverse direzioni. Manca la luce dell'onestà, la saggezza è
lontana, per cui non c'è nessuno per il quale sia turpe violare
il pudore delle vergini o insidiare sfacciatamente le caste spose.
145
Codesta tua religiosa bontà - (o Bernardo) - codesto
tuo modello di reggimento di tutti gli ordini di cittadini, sono un esempio
altissimo della virtù di un animo sublime, qualità suprema
che l'età presente a pochissimi ha dato.
O fortunata, o straordinariamente fortunata te, dotta Bologna, cui ètoccato
di vivere l'età di Saturno[36[ sotto tanta guida, e anche me fortunato,
cui è stato dato dal destino difissare qui la mia sede, a lungo
desiderata, in una casa sicura.
Ma questi vantaggi sono parimenti condivisi da molti popoli, nella pace,
nella tranquillità e nella concordia, nella fiducia nell'andamento
di tutte le cose, e i diletti diffusi per le città, che in gran
numero sono rette da te e obbediscono al tuo governo, con il quale tu
rendi illustre questo tempo, e ne fai un esempio perché esso non
manchi di ciò che lo possa mettere a confronto con quello degli
antichi Curioni, e dei Mete/li, o, se preferisci, di Numa, dei Minossi,
dei Licurghi[37[.
Così ti accompagna un perpetuo onore, e perennemente fiorisce la
tua fama, che durerà fino ai più tardi nipoti ,fama che
ha aumentato a tal punto i meravigliosi titoli di onore della casa dei
de' Rossi, già dai tempi antichi benemerita della patria, che lo
splendore di essi non può ulteriormente crescere, e la gloria dell'antica
famiglia non può salire più alta.
Vivi a lungo felice, e la fama diffonda il tuo nome fino ai popoli più
lontani, a quelli che nutre la ricca regione del Gange, prossima al sole
che sorge, come a quelli che, nella regione Esperia[38[ osserva il Titano[39[
con l'occhio che si spegne, laddove si nasconde nelle onde della sera.
E quando ti chiameranno le ore del Fato supremo (gli ultimi momenti della
vita), sarà per te titolo di onore (essere ricordato come colui)
che èspinto dalla religione a non togliere in nessuna misura i
freni al vizio, che
36) Cioè l'età dell'oro.
37) Enumera i grandi legislatori dell'antichità. Tra i re di Roma
cita Numa, il quale usò la
religione per guidare i romani all'obbedienza civile, con chiaro riferimento
allo status
ecclesiastico di Bernardo de' Rossi.
38) La Spagna, chiamata anche dai romani Hesperia ultima.
39) Qui per dire il sole (Apollo, il dio del sole, era figlio di Zeus,
a sua volta figlio di un Titano:
Crono).
146
è preso dalla sollecitudine del governo, il rispetto
del quale è guida dei comportamenti (della gente), al cui esempio
si formano i costumi, e ogni movimento raggiunge il suo equilibrio, e
ogni rovinosa licenza conosce i suoi freni, e negli animi la ragione conserva
le sue tracce.
O quale meravigliosa efortunata sorte è toccata a quel popolo,
al quale un destino straordinariamente favorevole ha donato un rettore
e duce della patria tanto grande e illuminato.
Forse può accadere che il sentiero di una vita desiderabile, ma
ormai passata, una volta dimenticato per i tanti vizi, ciportifuori strada
attraverso una nascosta scorciatoia, ma tuttavia si può ritrovare
il retto cammino, ove ci sia chi lo mostri, e porti innanzi il lume nelle
tenebre oscure.
E, perché non mi allontani troppo, e cerchi esempi remoti, tra
i pochi che reggono i sacri poteri, mi si offre perché l'ammiri,
e più correttamente la paragoni con quella degli antichi, la tua
virtù, da gran tempo famosa, e nota ai popoli tutti. E non ho smarrito
la ragione, né inganno insidioso mi ha tradito, al punto che non
misuri codeste tue doti dell'animo, che non sia capace di conoscere quanto
esse valgono, e giudicare secondo verità.
Infatti, chi è migliore dite? chi governerebbe con maggior equilibrio?
chi sarebbe più rispettoso della giustizia e dell'equo? chi più
forte custode della pace? chi ebbe mai tanta cura per la concordia dei
Padri[40[ come della plebe? Qui i beni restano sicuri nelle mani dei loro
proprietari; qui ilpovero e il debole sono in grado di garantire a sé
e ai propri beni una salvezza certa, avendo te che li difendi. Non c'è
nessun ricco che faccia ilprepotente con la gente. Ciascuno conserva la
sua condizione, alla quale nessuna ambizione di potente può recare
violenza, o arroganza danno.
Comincia (o Bernardo) a vivere un' età della vita molto più
felice, (tu che sei) a nessuno degli antichi inferiore nella lode, né
a questi che con te ora nutre la presente età.
40) Cioè i membri del Consiglio di
Bologna.
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