LUCIANO CECCHINEL
I PROVERBI DELLA VALLATA DELLE PREALPI TRE VIGIANE E DEL
VITTORIESE
Alcuni aspetti peculiari del sentenziare popolare
In tema di sentenze popolari si pone innanzi tutto la questione
della distinzione fra proverbi ed altre espressioni tipiche: i confini
tra gli uni e le altre non sono sempre facilmente definibili. Un criterio
di demarcazione ècerto costituito dal fatto che il proverbio, caratterizzato
da maggiore pregnanza concettuale, può vivere in piena autonomia
dal punto di vista semantico ed è quindi svincolabile dalla situazione
che lo sollecita (soldi e amicizhia i inorbis la justizhia) mentre il
modo di dire, caratterizzato per lo più dall'immediatezza coloristica,
ha pieno pieno vigore sernantico solo se affiancato a una situazione che
ha già un'autonomia concettuale (ver al cul fa na brinzhia, se
a injazhà anca 'imus inpiazha, la vien do a strazhe, ecc.).
La differenza fra i due tipi di luogo comune può poi apparire a
volte meno marcata per l'assetto metaforico di certi modi di dire che
traspongono sul piano dei valori quella che sembra essere solo una colorita
osservazione (ver na schena da mandolin per "non aver voglia di lavorare"
oppure portar aqua co le reje per indicare un comportamento in cui la
premurosità apertamente traligna nel servilismo.
E' ad ogni modo evidente che sia attraverso i proverbi sia attraverso
le espressioni di uso comune ci si propone il medesimo fine, quello di
dare forza e risalto particolari al proprio argomentare.
Si tratta forse di forme atte a corroborare un pensiero debole con uno
ritenuto più forte: proverbi e modi di dire vengono infatti generalmente
CECCHINEL. Insegnante di materie letterarie alla scuola
media, ha pubblicato articoli e studi su materiale folkloristico e sulle
culture subalterne. È autore di alcune raccolte di poesie in dialetto
alto-trevigiano.
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proferiti nel bel mezzo o alla fine di un avvenimento o di un discorso
quali lapidarie verità "culminative", oltre le quali
appaia inutile ragionare e discutere.
Queste forme di pensiero hanno ad ogni modo avuto fortuna, oltre che per
la funzione di rinforzo discorsivo, per la concretezza dei riferimenti
da cui traevano origine. Ed è inevitabile che proprio questo aspetto,
dopo aver determinato la fortuna di proverbi e modi di dire, sia divenuto
la causa prevalente dell'abbandono o della decadenza di molti di essi,
conseguentemente allo sparire di molte delle funzioni pratiche o delle
tradizioni cui erano legati.
Questo vale per massime come aiformai tra drio 'i scatol da quando non
si fa più il formaggio in casa o in casera oppure per barca fondada
no la àbisogno de sèssola da quando in una determinata località
non si fabbricano più artigianalmente le barche; e altrettanto
si può dire per se no i 'é sopa l 'épan bagnà
da quando i costumi culinari domestici hanno preso, con 1' immersione
nella nuova abbondanza, soluzioni meno frugali di quella del pane inzuppato
nella minestra, ricetta recuperata peraltro in tempi recenti come revival
folkloristico anche da qualche locale "chic".
E lo stesso vale per modi di dire come l ' é injazhà anca
'i mus in piazha da quanto asini non se ne vedono passare o stazionare
nelle piazze. E così per modi di dire come spale da mussa, cui
fa na brinzhia o ndar dentro te 'l bartoèl (te 'i tamài)
o no vai basto né brena, da quando questi attrezzi non vengono
più usati o lo vengono in cerchie affatto marginali. E altrettanto
si deve dire per riferimenti a tradizioni desuete, ad esempio nel riferimento
al porzhèl de Sant'Antoni.
Così lo scollamento fra l'assetto semantico e la sua referenzialità,
che èpoi lo scollamento fra la ritualità sentenziante e
una primigenia concreta funzione, ha reso inutili perché totalmente
incomprensibili molti proverbi e modi di dire. E' altresì da notare
che la consapevolezza ditale scollamento fa sì che altri proverbi
vengano pronunciati "in translato" a testimonianza di certa
sottile capacità mimetica di quello che resta della cultura contadina.
Perdono essi comunque in questo caso un'altra delle caratteristiche che
ne avevano determinato la fortuna: l'adescamento al ripetere attivato
dal referente concreto, che rimane presente, ma in forma sfumata, solo
nella mente dell'emittente che lo richiama col ricordo.
Scema di concerto progressivamente anche il valore gnomico di molti proverbi
e modi di dire e assumono così essi, quando si è interrotto
il senso direttamente vitale di una continuità culturale "generazionale",
una marcata connotazione gergale di disincantato cinismo, di resistenza
agra e mordace alle nuove dilaganti mode culturali.
Sulla bocca di un vecchio se a usà 'nca 'i muss a magnar zheoie
oppure al formai tra drio 'l scàtol non possono oggi suonare che
con ironica amarezza, pur se questo sentimento è commisto a volte
con una malcelata
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punta di rivendicazione, quasi di invocazione allo spirito vindice di
una cultura attraverso altre sue tipiche espressioni; qualcosa come che
podè catar al mazharol o la redòsega.
Al di là della caratteristica del riferimento diretto al concreto,
che vediamo ora però, nel dissolversi della cultura tradizionale,
influire negativamente sulla loro tenuta, a determinare la fortuna dei
proverbi nei secoli èstata la loro stessa struttura formale: enunciati
icastici e lapidari, equazioni semplici o di ironico contrappunto, spesso
rimate o modulate comunque su ritmi epigrammatici, essi si prestano ad
essere memorizzati più di ogni altra forma letteraria.
Fra le caratteristiche che hanno inciso sulla personalità dei proverbi
locali va sottolineato inoltre un equilibrio in cui si leggono di volta
in volta buon senso, bonaria accettazione delle vicende e delle difficoltà
della vita insieme alla tolleranza che dà luogo a un atteggiamento
di indulgente comprensione verso gli altrui e i propri difetti. Equilibrio
filtrato, come afferma G. L. Cibotto, da "uno scetticismo sornione
e tollerante, che lo spinge a partecipare alle cose, ma nello stesso tempo
a ritrarsi per guardarle con superiore e scanzonato riscatto" (G.
L. Cibotto, Proverbi del Veneto, Milano 1969).
Sia comunque lo stato d'animo da cui scaturisce il giudizio sereno od
amaro, distaccato o fatalistico, ironico o cupo, bonario o aspro, delicato
o sapido, dalla somma di tutti gli atteggiamenti che proverbi ed espressioni
fissano scaturisce, pur quando essi siano per molteplici aspetti in contraddizione
fra di loro, il profilo culturale, e all'interno di questo, quello morale,
di quella comunità di uomini che li ha prodotti e che li mantiene
in vita.
Il luogo comune nel rapporto popolare-dotto
"Dio ti maledica, Sancho, che 60000 diavoli ti portino
via te e i tuoi proverbi! E' un' ora che li vai snocciolando e m'infliggi
la tortura dei sorsi d'acqua. Dimmi dove li trovi, ignorante, o come li
applichi, mentecatto, che io per dirne uno e applicarlo bene, sudo e fatico
come se zappassi?".
"Dio buono, caro signor padrone, davvero la signoria vostra si lamenta
di cose insignificanti! Chi ci rimette se io mi servo della mia ricchezza,
che non ne ho altre, né altro capitale se non proverbi su proverbi?
Ora per esempio, me ne vengono in mente quattro che qui starebbero a pennello
o come pere nel cestino; ma non li dirò perchè un bel tacer
si chiama Sancho". (Miguel de Cervantes y Saavedra, Don Chisciotte
della Mancia, Capitolo quarantatreesimo).
Fatalmente Sancho mentre protesta i diritti della sua unica ricchezza,
che è poi la stessa sua cultura, manifesta il suo proposito di
non proferire più proverbi proprio attraverso l'adattamento "contingenziale"
di un altro proverbio e col preludio di due modi di dire, dimostrando
in fondo come, senza
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il loro ausilio, non possa convenientemente argomentare. Ma nel prosieguo
della narrazione Cervantes darà all'umile scudiero, fra le tante
altre, una rivincita anche su questo piano, concedendogli di sorprendere
il povero Don Chisciotte a conferire forza alle sue argomentazioni attraverso
un proverbio.
La ragione di questa citazione letteraria, ben oltre l'arguta comicità
del suo contenuto, sta nel fatto che lo scrittore coglie simultaneamente
più aspetti della problematica del proverbio o, se vogliamo, più
in generale, del luogo comune.
Da un lato la difficoltà per il dotto, che attinge ad una cultura
complessa e ponderata, di dare di primo acchito una motivazione o una
collocazione assoluta, quale è per molti versi quella di molti
proverbi, ad una situazione contingente.
Da un altro quello della polisemia di molti proverbi, che conferisce loro
una facile o difficile applicabilità a seconda che li si voglia
calare in contingenza con approssimazione o precisione, pur se il fattore
analogico che li caratterizza comporta spesso, per azione connotativa,
un allargamento del loro campo di significazione.
E' da notare a questo punto che per il popolano l'applicazione è
più immediata - e c'è la tentazione di dire "strutturale"
- che per il dotto: essa scaturisce, per così dire, dal basso,
riducendo, con la minimizzazione dell'operazione logica, il passaggio
fra selezione e combinazione. E' come se per lui la situazione risucchiasse
il proverbio da un sostrato culturale magmatico, collocandolo. quasi per
pullulazione, in "praesentiam". Sarebbe in fondo questa anche
una forma di servizio alla "langue", peculiare in una certa
misura di ogni espressione genuinamente popolare.
Per il dotto questo è assai più difficile: egli, avvezzo
a trovare motivazioni generali e fondate, e cosciente della contraddittorietà
intrinseca al campo proverbiale, si rende conto del salto, in termini
di tempo razionale, che lo conduce dal piano della selezione a quello
della combinazione, dell'operazione che porta il proverbio "ab absentia"
"in praesentiam". Manca in lui l'automatismo peculiare del fatto
folklorico che ha luogo in regime di assoggettamento ai diritti impersonali
della "langue"; la sua produzione culturale è inevitabilmente
motivata da intenzioni creative.
E forse un altro aspetto connota, nel gustoso dialogo riportato, la stizza
di Don Chisciotte: il disdegno del dotto per il luogo comune che diventa
criterio di cultura per lui che tende a evitarlo e, sempre ai suoi occhi,
indice di mancanza di cultura in Sancho che lo usa quasi senza rendersene
conto e, naturalmente, senza vergognarsene.
Il confronto porta qui in evidenza la questione della divisione dei parlanti
e di conseguenza una condizione tipica della società.
E in fondo che cos'è la schermaglia verbale fra Don Chisciotte
e Sancho se non un episodio di un più grande confronto, quello
fra cultura popolare e cultura dotta?
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E' ad ogni modo da dire che non sempre le due culture si fronteggiano
nettamente separate.
L'opposizione popolare-dotto si gioca anche nel senso dell'interferenza
e, in particolar modo, secondo la direzione culturalmente egemonica, nel
senso dotto-> popolare: "ciò che è diffuso tra il
popolo piace al popolo ma può avere un'origine di corte, nobile,
borghese: oppure proviene dalla letteratura, dalla musica, dalle arti
plastiche superiori o considerate tali" (Van Gennep, Manuale di Folklore
Contemporaneo Francese, Parigi 1943) I, pag. 48 dalla Voce Popolare in
Enciclopedia, Einaudi, Torino 1980).
Da questa posizione deriva che non tutto del popolare è spontaneo
e creativo - pur se ciò che lo è, poi è destinato
a diventare per effetto di ripetizione "luogo comune" - ma è
spesso frutto di un'azione discendente, di un programma di acculturazione
dall'alto.
Ha qui campo un 'altra distinzione, quella fra "popolare" e
"popolarizzato", inteso quest'ultimo come realtà culturale
"di cui si conosce con certezza la provenienza individuale superiore"
(ibid.).
Questo aspetto appare manifestarsi con particolare evidenza in alcuni
proverbi anche secondo un registro di ironica rassegnazione, indice alfine
di consapevolezza di subalternità.
Possono valere da esempio: la lèje la e conpagna par tuti ma se
no tu a la onbrèla tu ciapa la piova; dioba intrada, setimana pasada,
ma chi che no a da magnar I' a altri tre di da pensar; volere è
potere ma 'i porét che 'l voi eser an sior, l'é 'n mona.
Proverbi questi in cui il "ma", congiunzione avversativa, è
esemplarmente nevralgico di una situazione di ricezione! frizione: punto
di "assunzione resistente" di massime già codificate
nell'uso sociale più elevato, esso prelude alla coda mestamente
polemica."In cauda venenum" potrebbe qui scappar detto a Don
Chisciotte, mordendosi subitamente la lingua al pensiero, nonché
di aver proferito un proverbio, che esiste anche la massima dotta "dulcis
in fundo". Ma non è giusto fargli fare oltremodo il pesce
fuor d'acqua.
Tornando all'alveo popolare possiamo verificare che il "ma"
avversativo è in qualche caso surrogato da un "se" comdizionale:
beati i ultimi se i primi i à creanzha. In altre massime l'assunzione
resistente si manifesta per coordinazione giustappositiva: tuti i salmi
ifinis in gloria e tute le magnade in merda e qui la "e" sembra
valere da consolidamento della coda in chiave di certezza assoluta. Oppure
per interposizione di un "magari" eloquente-mente dubitativo:
chi zherca cata.... magari na zhavata.
Altrove il fenomeno si sedimenta per semplice asindeto: Ave Maria gratia
piena, chi li àfati se li tegna; e Corpus Domini Nostri fesa Christi,
poreti e anca malvisti; e ancòra verde speranza, chi che no ghe
n 'à se grate la panzha.
In questi casi, peraltro non molto ricorrenti, si intuisce che l'atto
individuale, la "parole", ha preso per un momento il sopravvento,
potremmo dire
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per un lampo creativo, su quello collettivo della ripetizione, prima di
rientrare, sedimentandosusi in verità collettivamente condivisa,
al servizio della "langue".
Talvolta la funzione creativa si estrinseca peraltro anche in funzione
di allineamento ortodosso, nel caso seguente sulla scia della catechesi
religiosa, alla cultura di provenienza superiore: al Signor ricama e noi
vedon i grop.
Ma eccoci, a questo punto, dopo una partenza di sano spirito popolare
al fianco di Sancho, ad imprecare in piena "tortura dei sorsi d'acqua"
con Don Chisciotte, senza forse avere, peraltro, l'umiltà di identificarci
con lui.
L'arbitrarietà di un'operazione interpretativa
Un lavoro d'indagine sui proverbi comporta quasi inevitabilmente
uno snaturamento del loro uso, uno snaturamento che deriva soprattutto
dallo scollamento di rito e funzione.
Il proverbio ha infatti vigore e massima pregnanza di significato "in
situazione", in regime connotativo "pragmatico", e già
il fatto che lo si decodifichi "asetticamente isolato" ha su
di esso effetti mortificanti.
Decodificare è poi in qualche modo mettere in discussione e il
proverbio, come già detto, viene di solito proferito a chiosa di
un avvenimento o di un discorso quale lapidaria verità "culminativa",
oltre la quale appaia gratuito il discutere.
I proverbi inoltre nel naturale contesto popolare, proprio per queste
loro carismatiche peculiarità, non subiscono l'affronto vieppiù
mortificante di essere messi criticamente a confronto o, peggio, in contraddizione;
sparsi lacerti di archetipiche certezze, essi rischiano così di
essere portati a costituire dei campi connotativi per loro mortalmente
dicotomici.
Operazione per altri versi discutibile è quella di individuare
costanti della mentalità popolare attraverso i proverbi, quando
almeno non li si affianchino ad espressioni culturali contigue.
Il campo, il "popolare", si presenta assai denso di ambiguità
e contraddizioni e quindi passibile di interpretazioni diverse, anche
quando venga considerato nel suo composito assetto complessivo.
E se un lavoro statistico può essere plausibile per ogni tipo di
indagine generale, si pone, in ordine al tema in analisi, il problema
che mai forse può dichiararsi risolto, della globalità della
raccolta; e come secondo si pone quello, di ardua soluzione per certi
argomenti che sono interessati da serie nutrite di proverbi, dell'utilizzazione
organica di tutto il materiale: la riduttività della raccolta può
viziare le conclusioni, la soggettività della scelta predeterminarle
in funzione di un assunto più o meno consapevole.
E sia a fini di globalità, sia a fini di utilizzazione organica,
va tenuto presente che gli argomenti all'interno dei proverbi, che sono
spesso struttu46
rati per confronti, compaiono spesso, e talvolta in modo implicito, non
come soggetti, ma come termini di paragone per altri temi ed è
quindi ulteriormente difficoltoso effettuare analisi onnicomprensive e
pervenire a conclusioni oggettive. Valgano come esempi per quest'ultimo
caso i ciodi in tel rore i écome i schei te le man de i preti,
in cui l'artigianato del legno e una presunta posizione dei preti di fronte
al denaro entrano in commistione; e la justizhia la éde entro de
le porte del zhimitèrio, in cui il tema della giustizia confluisce
in quello della morte.
Ritagliare nella vasta materia costituita dal patrimonio paremiologico
un settore, al di là delle suddivisioni canoniche di raccolta,
risulta sempre rischioso, quand'anche l'operazione venga convenientemente
motivata. Sembra tuttavia, se non inevitabile, possibile e talvolta opportuno
accostarsi al proverbio come ad un'emergenza linguistica che, ben al di
là della semplice curiosità, possa rappresentare con relativa
dignità una chiave di comprensione di un grande universo. Accostarsi
così al singolo elemento, consente di vederlo non già avulso
dalla realtà in cui è nato, cresciuto e vissuto, ma connesso,
oltre che a quella, a tutti gli altri elementi simili che formano assieme
un sistema, pur nella cautela che muove dalla consapevolezza di tutti
i limiti e i pericoli sopra denunciati. I principi della ricerca strutturale
hanno consentito di individuare una certa struttura anche in presenza
di una materia di per sé varia e polimorfa, a volte apparentemente
o apertamente contraddittoria, e ad ogni modo a prima vista disarticolata
o affatto priva di omogeneità.
ASPETTI STILISTICI, RETORICI E LOGICI
Si può dire che il proverbio è in generale
un messaggio assai formalizzato. Raramente la sua forma appare casuale:
in molti casi è anzi costruita, limata, condensata in modo da dare
il massimo di espressività nel massimo di essenzialità.
In questa direzione si può cogliere il ricorso a vari espedienti
di natura stilistica, retorica e logica.
La rima
Numerosissimi sono i proverbi in rima od assonanza, sia
in forma di elementari equazioni sia di vere e proprie strofette che richiamano
un pur semplice atto poetico. Se da un lato la rima o l'assonanza, attraverso
la loro tempestiva eco, aiutano a sorreggere la trasmissione orale, da
un altro la loro presenza sembra corroborare, come precedentemente detto,
certa necessità "metafisica" del senso dell'enunciato:
larima, apparendo adesso connaturata, sembra inscrivere il proverbio entro
i confini della necessità, conferirgli,
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come si vedrà anche nel comparto dedicato al tema del fatalismo,
una specie di "marca fatale".
basabanchi, ciavasanti
vestìssete talpon
despojete poltron
co l'àsen al stranuda
al tenp al se ranuda (al se muda)
la roba te 'n canton
no la pèrzh mai stajon
da Nadal al pas de 'n gal
da Pasqueta meda oreta
da San Biasi do ore squasi
quando che 'l pel al tira al bianchin,
assa lafémena e bùtete al vin
L'allitterazione
L'allitterazione pura - e per essa si intende qui il fenomeno
non come accidentalmente indotto dalle combinazioni foniche del dialetto
ma chiaramente ricercato in chiave di conio - non è molto frequente,
almeno in forme marcate e quindi sicuramente volute. In questo senso,
i pochi casi che si rintracciano sono peraltro fonicamente assai suggestivi:
al piof al nef alfa calif (piove, la neve fa caliginosa foschia).
O con affiato di macchiettismo linguistico: cosa fone, andone, restone,
tajone cane o vendemone?
Nella maggior parte dei casi tale fenomeno fonico-ritmico tende comunque
a confluire in quello della rima: te i mesi co la ère mai senta
rse su lepiere oppure agosto menarosto.
L'anafora
Nell'ambito dei proverbi a versetto si può tentare
di inquadrare anche questo fenomeno retorico, pure non molto diffuso,
e che comunque rinforza attraverso la concatenazione ripetitiva, il senso
di necessità del concetto
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esplicitato:
sposa bagnada, sposa fortunada chi fortuna, chi fortaia
on maridà, on rovinà
na òlta cor ai can, na òlta cor al gévero
L'ossimoro
Figura retorica per cui si accostano parole o situazioni
di senso opposto che sembrano escludersi l'una l'altra.
E' un fenomeno assai raro nel parlare comune come nei proverbi ed ècomunque
incrostato di ironia. Un caso evidente è nella prima parte del
proverbio sangue de s-cios, àgreme de preti, sudor de stradini,
nel quale a sorreggere l'impianto comunicativo è appunto il primo
sintagma, che fa da base a quanto evidentemente si vuole dimostrare, nella
coesistenza di due aspetti che sono o si suppongono contraddittori.
Il correlativo oggettivo
Questa operazione retorica, che consiste nell 'esprimere
lo stato d'animo
non direttamente ma attraverso la sua proiezione su oggetti, eventi e
situazioni che vengono così a rappresentare l'equivalente dell'emozione,
è
tanto ardita quanto rara in campo paremiologico.
Se ne coglie qui un colorito esempio nel proverbio proferito da una donna
anziana che una tetra situazione familiare induceva a mangiare da sola:
mèjo 'n govo ridant che 'n polastro piandant.
La vocazione comparativa
Si può forse dire che tutti i proverbi e i modi di
dire, al di là della loro intrinseca struttura, postulano un'operazione
comparativa. Se già la considerazione del mero assetto formale
porta a rilevare che molti sono quelli che presentano la comparazione
interna in modo sintatticamente esplicito, si può affermare che
la vocazione dei proverbi è generalmente comparativa, al di là
della presenza della specifica struttura sintattica e quindi ben oltre
il piano formale, quale si può riscontrare in parecchie formulazioni
del tipo èsserfa
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na brinzhia oppure mèjo cèn e ben conpì che grant
e insemenì.
L'operazione comparativa ha già luogo implicitamente prima del
proferimento del proverbio, in sede di selezione: esso deve infatti andare
in combinazione logica con una situazione od un discorso; è l'epifonema
che va a sovrapporsi ad essi e non senza enfasi, dato che di vera e propria
sentenziosità qui si tratta.
Talvolta la comparazione ha luogo per sollecitazione di un campo semantico
contiguo, talvolta alieno rispetto al movente della formulazione, con
conseguente alone connotativo.
Ma la comparazione è spesso nella struttura stessa dell'enunciato
che accosta campi semantici diversi, fatto che ne rende oltre tutto problematica
la classificazione per temi.
Si può ad ogni modo ipotizzare che la comparazione - sia quella
interna sia quella d'uso - si estrinsechi a supporto di un pensiero che
non nasce sistematizzato secondo una specifica visione del mondo, ma che
ne fonda, attraverso più bandoli, molte di natura diversa; e il
riferimento all' agglomerato indigesto di definizione gramsciana diviene
qui d'obbligo.
Espressioni ad uso direttamente metaforico
Quando la metafora non compare direttamente nei proverbi,
metaforica risulta spesso la loro applicazione: l'affiancamento della
sentenza a una situazione contingente, in chiave, come già detto,
culminativa, fa sì che l'operazione comparativa connoti l'aspetto
del paragone; si pensi qui a detti come le razhe le ghe va drio a l'aqua
o cior su i archet e canbiar zhiesa, pronunciati al di fuori del loro
originario campo semantico.
E la comparsa della metafora in luogo del paragone segna ad ogni modo,
attraverso i meccanismi dello spostamento o della contiguità semantici,
una prevalenza dell'atteggiamento allusivo e quindi dell'ironia; e 1'
atteggiamento sconfina spesso nell'ilarità sull'abbrivio della
lapalissianità o del tenore paradossale della constatazione:
o pena o schena
tronba de cul, sanità de corpo
an talpon no 'lfa zha rese
l'aqua la ghe va drio al so ghèbo
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Nei proverbi a doppio senso l'uso metaforico è sempre degli interi.
enunciati e non di singoli termini: tale situazione, verificabile anche
in:
alcune massime immediatamente precedenti, è particolarmente evidente
negli esempi seguenti, nei quali la superficie denotativa, di sapore bacchico,
agricolo o economica si connota di un implicito senso sessuale:
mèdo no lo ol gnanca lefemene (detto del bicchiere
che qualcuno vuole gli si riempia solo a metà)
drio la ganba (la cana) l 'é anca la panoja
pan efan ghe n 'é dapartut
no resta carne in becaria che can o gat no i la porte via
Ma non mancano passaggi dal senso naturalistico a quello
politico:
torno la crose del canpanil gira i sbiri;
o da quello religioso a quello politico: senzha santi no
se va in paradiso.
Nel campo dei proverbi a doppio senso si può altresì individuare
una significazione di feedback, che sembra qui possibile chiamare sulla
scia del tema in oggetto "significazione a gambero", procedimento
peraltro affine a in certi casi quello della litote. Valgano ad esempio:
de riva in do ogni santo 'i juta, massima che è spesso
usata per far intendere che "de riva in su" non ci sono santi
che intervengano, in allusivo contrasto col dettato provvidenziale della
catechesi cattolica.
Allo stesso modo: l'aqua la marzhis ipai non si propone di comunicare
quello che denotativamente significa, ma che è meglio ingurgitare
altro tipo di liquido.
Si registra altresì con una certa frequenza l'uso in chiave metaforica
degli, animali, già tipico della favola classica, ma qui direttamente
riferibile 'all'ambito socioeconomico della civiltà contadina:
così come can no magna'. can, al can de tuti al morda fan, e se
tu ghe scanpa al bò e la vaca te tra, le, 'razhe no le va su par
i talpon (anche se in quest'ultima massima, che compare' anche nella versione
al singolare "la razha", il termine soggetto vale anche.' semanticamente,
oltre che "anatra", "razza", "specie", "discendenza").
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L'antitesi
Figura di carattere logico che consiste nell'accostamento
di frasi o parole di senso opposto, non compare con particolare frequenza
ma è comunque d'obbligo quando si tratta di fare i conti con aspetti
non condivisi di culture sentite come aliene o rispetto alle quali si
sente di essere in rapporto di subalternità. Vedansi per quest'ultimo
caso i già citati la lèje la é conpagna par tuti
ma se no tu a la onbrèla tu ciapa lapiova e volere è potere
ma 'lporét che vol esser sior l'é 'n mona. Ma eccone alcuni
altri esempi:
onora la canpagna ma tégnete la montagna
pi bisogno manco aiuto
na òlta cor al can, na òlta cor al gévero
scarpe grose, zhervèlfin
L'ironia
Nel filone ironico si inscrivono oltre a quelli scopertamente
ironici - e in questa chiave ha particolare vigore l'assetto metaforico
-' tutti i proverbi e i modi di dire a senso connotato o a doppio senso,
alcuni dei quali già in precedenza citati, molti altri che si citeranno
più avanti. L'ironia sembra essere usata, come anche spesso nelle
espressioni letterarie più alte, quale mezzo di distacco "filosofico"
dalle situazioni e quindi quale forma di difesa.
Scopertamente ironico è il seguente proverbio:
la tos la é sana, i 'é i polmon che i é marzhi.
Implicitamente ironici, in quanto a doppio senso, sono i seguenti modi
di dire: l'aqua la marzhis ipai, bartoèl rebàltete che 'i
martorèl l'é entro, (l'é propio vera che) al Signor
ghefa végner le zhuche a chi che no à iporzhèi.
E in questo ambito, fra le molte altre, si inscrivono "d'autorità"
le sentenze di ambito bacchico e sessuale.
Enunciazioni e funzioni linguistiche
Sulla scia del modello classico di Jakobson, si possono
individuare numerose formulazioni apertamente imperative (ad esempio su
la zhinquantina assa lafemena e bùtete a la cantina oppure onora
la canpagna ma tégnete la montagna) ma anche quando, come più
di frequente, la formulazione, per la sua stessa vocazione culminativa,
si presenta in super52
ficie meramente constatativa e sembra quindi denotare la prevalenza della
funzione referenziale, vi rimane sempre sottesa la funzione esortativa.
Si pensi al proverbio classico le razhe no le va su par i talpon o a l'aqua
la ghe va drio al so ghèbo: sotto l'elementarità della constatazione
si impone pur sempre la funzione esortativa esplicitabile, seppur meno
coloritamente in formulazioni quali: "data la natura", "non
stupirti se certe cose accadono" oppure anche "non tentare di
fare ciò che non sei capace di fare" o "non sperare da
parte di chi non ne è in grado, alti risultati" e quindi,
di concerto, "accetta che le cose vadano come vanno, pena guai peggiori".
E' da dire che la forma direttamente imperativa compare assai di rado
e forse anche per non togliere alla massima i crismi di un'oggettività
perseguita: come dire "questo non è che lo pensi io che lo
sto dicendo, lo hanno pensato chissà quanti prima di me ed è
quindi idiota (nel senso etimologico di "privato", "personale")
metterlo in discussione"; oltre tutto poiché una situazione
in atto lo ha culminativamente richiamato (ma questo rimane ancor più
sottinteso per ovvietà).
Si impone pertanto nettamente anche la forma impersonale, ottenuta senza
l'emergenza delle voci verbali in massime a struttura nominale (fata la
lèje, catà l 'inbrojo) o attraverso il chi (chi che no à
'l gòs a la gòba) o, eccezionalmente, attraverso il "tu
impersonale": co tu te sé incort i te àmagnà
anca ipedòci che tu à su la tèsta o ancora tu ghe
scanpa al bò e la vaca te tra.
Assai di rado compare la forma dialogica e non comunque con intenti dubitativamente
dialettici. Eccone un esempio: miseria, vutu panada ?... se tu me dà
'l cuciar.
Compaiono altresì, seppur raramente, dei casi di metalinguismo
paremiologico nei proverbi che fanno i conti ad altri proverbi o modi
di dire, già citati nella parte introduttiva in relazione al confronto
fra culture: verde speranzha, chi che no ghe n 'à se grate la panzha,
la lèje la é conpagna par tuti ma se no tu à la onbrèla
tu ciapa la piova...
La struttura logica
I proverbi appaiono come la voce immediata della semplicità
ma nella loro molteplicità fanno registrare delle diversità
di struttura logica. Essi si possono inscrivere per buona parte, seppur
con qualche forzatura, negli schemi generali categorizzati dal paremiologo
russo G. L. Permjakov.
Se ne riportano qui alcuni dei più ricorrenti, a seguito delle
formulazioni algebriche dedotte dallo studioso. Andando dalle strutture
più semplici alle più complesse:
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P(x)->P(y)
(se P ha la proprietà x, allora ha anche la proprietà
y)
chi che à 'l cor pien parla depi sposa bagnada, sposa
fortunada an bissèst, an malsest al can de tuti al mor da fan
P-> Q
(se P allora Q)
tenpesta de majo, secagna de agosto tronba de cui, sanità
de corpo scarpe grosse, zervèlfin cadiga fina, bona da lat maridà,
castigà basabanchi, ciavassanti malatie vèce, penitenza
nova messa scoitada, jornada guadagnada vestìssete talpon, despojete
poltron
(P->x)e(Q->x)->(P>Q)
(se P ha la qualità x e Q ha la proprietà
contraria, allora meglio P che Q)
mèjo 'n govo ridant che 'n polastro piandant mèjo
paron de na sèssola che secondo su na nave mèjo cen e ben
conpì che grant e insemenì
(P->Q)->~(P(x)->.Q(x)]
(se è funzione di P e se P ha la proprietà
x anche Q ha la proprietà x)
chi che vapian va san e va lontan
chi che no se contènta de l'onesto perde 'i manego e anca 'l zhesto
54
L'ellissi paratattica per asindeto
Risulta essere la formulazione di gran lunga prevalente.
E va detto che probabilmente la ragione è che il sistema paratattico
ad abolizione dei legamenti sintattici si presenta più lapidario
nella stessa rapidità enunciativa, rapidità che si fa sentire
come necessità fenomenica. Esso mette di fronte all'allineamento
di più sintagmi, scanditi da brevi pause, ciascuno dei quali cela
il fattore che con gli altri lo mette in relazione o la categoria che
agli altri lo accomuna. Come in questo caso quella dell'uguaglianza: fruti
fòra stajon, ciàcole senza rason.
Sempre in tema di proverbi paratattici per asindeto e a
comune denominatore sottinteso, in certi casi ci si trova di fronte a
forme implicitative che fanno simili i proverbi ad indovinelli a soluzione
lampante, veicolanti altresì un certo senso del comico, come nel
già citato:
sangue de s-cios, sudor de stradini, àgreme de preti
Si tratta di tre sintagmi costruiti sul paradosso (sono
stati definiti antecedentemente ossimorici dato che contenuti considerati
di impossibile coesistenza vi sono fatti convivere) fra i quali il sintagma
a paradosso portante, perché come tale più evidente in relazione
alla categoria sottesa dell'impossibilità, è il primo, per
cui si può dire che all'interno dell'enunciato paratattico sussiste
un rapporto gerarchico di tipo semantico; dal punto di vista formale un
posto di primato spetta al primo sintagma, anche in regime di paratassi,
proprio per il fatto che è collocato prima degli altri due.
Dalla categoria dell'impossibilità a quella della gradevolezza:
pan de 'n dì, formai de 'n an, tose de vintiun an
a quella "necessaria" dell'allungamento del tempo
diurno in una combinazione che presenta membri a doppio sintagma:
a Nadal al pas de 'n gal, da Pasqueta meda oreta, da San Biasi do ore
squasi
In altri proverbi, sempre costruiti per asindeto ma sul rapporto di contiguità
causa-effetto, la categoria implicitata è più evidentemente
quella della necessità:
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tenpesta de majo, secagna de agosto
alta de gamba, suta de panzha, bona da lat doven vizhi oso, vècio
cencioso
fardei cortèi, cugnade spade
mesa scoltada, jornada guadagnada
sposa bagnada, sposa fortunada
La correlazione sintattica
Nel vasto campo paremiologico locale se ne contano numerosi
casi. Eccone alcuni esempi:
co lejornada le se slonga, alfret al se sgranda
se 'l piof a la Sènsa, pur quaranta dì no
se sta sènzha
pitost che spànder vin, l 'é mèjo che
more 'l prete
Ma si impone una constatazione: negli enunciati dei proverbi la struttura
paratattica prevale nettamente su quella sintattica. E su tale constatazione
si innesta spontanea un'osservazione, da circoscrivere certo entro i confini
dell'opinabilità: contro l'elasticità della coordinazione
e le gerarchie rovesciabili dell' ipotassi, la paratas si si configura
come necessità constatativa, quasi ritmo di una coazione "metafisica"
a nominare qualcosa di irrevocabilmente stabilito.
Tale senso della pronuncia dell'irrevocabile è poi spesso rinforzato
dall'innesto della rima sull'icasticità dell'enunciato.
NOTA
I proverbi analizzati, al di là di quelli direttamenti
raccolti nella Vallata delle Prealpi Trevigiane (denominazione che vuol
qui geograficamente riferirsi alla valle che va da Longhere a Combai),
sono stati tratti da:
Peruch Paolo, Contributo allo studio dei proverbi del Veneto
con particolare riguardo al Comune di Vittorio (tesi di laurea), Padova,
A. A. 1963-64
Marson Luigi, Proverbi di Vittorio e in uso a Vittorio,
De Bastiani, Vittorio Veneto 1980
BIBLIOGRAFIA
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C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore
1971
F. Remotti, Lévi-Strauss: storia e struttura, Torino, Einaudi 1970
G. P. Caprettini, Aspetti della semiotica, Torino, Einaudi 1980
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G. B. Pellegrini, Studi di dialettologia efilologia veneta, Pisa, Pacini
1977
A. Zamboni, Profilo dei dialetti italiani, Veneto, Pisa, Pacini 1974
E. Zanette, Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto, De Bastiani 1980
E. Migliorini - G. B. Pellegrini, Dizionario del feltrino rustico, Padova,
Liviana 1971
G. Tomasi, Dizionario del dialetto di Revine, Istituto Bellunese di Ricerche
Sociali e
Culturali, Belluno 1983
Giunta Regionale del Veneto (a cura della), Grafia Veneta Unitaria, Editrice
La Galiverna, Venezia 1995
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