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       MARIO ULLIANA  
      
      
      
      IL PAESAGGIO VITTORIESE NEGLI SCRITTI DI TITO ANTONIO SPAGNOL 
      
      
       
        Il paesaggio vittoriese entra di prepotenza all'inizio di uno di quei 
        romanzi thriller che hanno reso famoso T.A. Spagnol, un giallo Mondadori 
        del 1935: La bambola insanguinata. 
        C'è un medico convalescente, che arriva in treno dalla capitale, 
        accolto dallo zio, don Poldo (una specie di Padre Brown di Chesterton, 
        trapiantato nella quiete della provincia italiana): "Mentre uscivamo 
        dalla stazione, gli raccontai della mia malattia. "Bene, bene, ora 
        ti rimetterai presto. Senti che aria? Qui si respira, altro che a Roma!" 
        e mi trascinò ad una balaustrata in fondo al breve piazzale della 
        stazione: "Guarda che bellezza! ". 
        Così, tra l'ironico e l'affettuoso, il nostro scrittore approfitta 
        per fare un pò di propaganda turistica a favore della città 
        natale. "Sotto di noi si spiegavano magnifici giardini e una piazza 
        armoniosa. (E la fotografia-standard, la cartolina illustrata del centro 
        di Vittorio). Tutto intorno si innalza vano le colline verdi e dietro, 
        le montagne azzurre ed aspre dai nudi dorsi. "Prima della guerra 
        - continua don Paolo - c'era gente che veniva qui perfino dall 'Egitto 
        a villeggiare e a fare le acque. A te che sei medico interesserà 
        sapere che qui abbiamo delle fonti termali eccellenti..." (Continua 
        il cliché pubblicitario). 
        Quel ritorno, per Spagnol, è quasi autobiografico: per lui, irrequieto 
        e avventuroso, abituato a girare il modo, per lui che è stato a 
        Parigi e poi negli States, ad Hollywood, dove ha lavorato come sceneggiatore, 
        a fianco del 
      
       
      MARIO ULLIANA. Già Sindaco di Vittorio Veneto e Assessore Regionale 
      all'Urbanistica, attualmente Presidente dell'Istituto per la Storia della 
      Resistenza e della Società Contemporanea della Marca Trevigiana, 
      è autore di varie pubblicazioni di argomento vittoriese.
 
       
       
      
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        grande Frank Capra, e poi in Messico, in Canadà ... Anche quando 
        si èfermato in Italia, idealmente ha continuato a viaggiare, grazie 
        all'ottima conoscenza di molte lingue - da giovane aveva snobbato gli 
        studi regolari e non aveva neppure un diploma di scuola media superiore 
        - spaziando nel campo della letteratura internazionale con pregiate traduzioni 
        di opere di autori stranieri (vedi "Gerusalemme, Gerusalemme !"di 
        Dominique Lapierre e Lany Collins). Si era affermato come romanziere con 
        "La griffe du lion" nelle prestigiose edizioni Gallimard ed 
        i suoi gialli più famosi erano tradotti in molte lingue ed edizioni. 
        Un po' il complesso dell'emigrante ce l'aveva. E lo stato d'animo di chi, 
        spinto dalla nostalgia, torna al proprio paese, lo si avverte in un racconto 
        di Bassa marea, intitolato appunto L'emigrante, che - guarda caso - gli 
        offre lo spunto per un rapido, ma efficace appunto ambientale su quel 
        Montaner, che tra pochi anni diverrà la prima base della Resistenza 
        del vittoriese dopo l'8 settembre. 
        "Serafino non era nato a Sarmede, dove aveva costruito la sua casa, 
        ma in una frazione di Sarmede, Montaner. Come lo lascia intendere il nome, 
        Montaner è aggrappato alle ultime zolle di terra nera che riescono 
        a tenere i crepacci di una montagna aspra e nuda. La gente di Montaner 
        contende alle rocce la sua vita, che è dura e difficile. I suoi 
        uomini fanno i contadini in paese, ipastori nelle maighe e i carbonai 
        nei boschi che rivestono la vetta e l'altro versante della montagna, e 
        cacciano difrodo il tasso e la volpe per le balze scoscese. Essi amano 
        i loro luoghi, ma guardano con invidia alle terre più grasse delle 
        colline e del piano, e il loro sogno è di scendervi e di stabilirvisi. 
        Perciò emigrano per il mondo, e così decise di fare Serafino, 
        quando ebbe finito difare il soldato..." 
        L'emigrante che ritorna! Quante volte è tornato, realmente o col 
        pensiero, T.A. Spagnol alla sua "odiosamata" Vittorio! È 
        tornato da amare esperienze, dalla guerra, da esaltanti avventure giocate 
        sull'assurdo e sulla temerarietà, è tornato da importanti 
        successi nell'attività di pubblicista, di narratore, di critico, 
        di inviato speciale. E sempre lo accoglieva la sua Vittorio. Anche per 
        lui, appena passato il Piave e man mano che il baluardo delle Prealpi 
        si avvicinava, si ripeteva la sensazione di entrare in un anfiteatro accogliente, 
        nel quale la città - come un fiore che si gode il sole contro un 
        muro rivolto a mezzogiorno - si adagia serenamente, quasi usufruendo di 
        una protezione, nel grande abbraccio delle colline che la cingono da ogni 
        parte; un abbraccio rafforzato - quasi per maggior sicurezza- dagli spalti 
        possenti del Visentin e del Pizzoc, i quali, a ricordo di lontane vicente 
        geologiche, continuano ad affrontarsi, come pachidermi preistorici caduti. 
        Dalle linee sinuose della vasta plaga coltivata si passa ai rilievi più 
        a diretto contatto con l'insediamento urbano: groppe di colli rinconentisi, 
        con affioramenti di creste e di corde e caratteri di ruvida scontrosità. 
        (Per inciso: quante volte Tiziano Vecellio, che di qua transitava nei 
        suoi 
      
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        viaggi tra il Cadore e Venezia, ha dipinto questo paesaggio e lo ha posto 
        a sfondo delle tele destinate ai grandi della terra! 
        Per goderselo si era fatta costruire, in cospetto di esso, una casa in 
        quel di Castel Roganzuolo, sul Col di Manza. Di là poteva guardare 
        il profilo dei monti che gli nascondevano le sue Marmarole, aperti solo 
        dalla breccia attraverso cui si apriva la sua strada il fiume Meschio, 
        e il grande arco delle colline, punteggiate da torri barbariche su cui 
        l'uomo aveva gradatamente sovrapposto le chiese cristiane. Il paesaggio 
        di Vittorio Veneto, anche per questi contrastanti aspetti di lotta e di 
        pace, comunica un senso di segreta orgogliosa bellezza). 
        T.A. Spagnol, vittoriese purosangue, anche se sovente 'prestato' all'estero, 
        tutte le volte che può, esalta la pecularietà e il fascino 
        di questo ambiente, e al tempo stesso mette in evidenza, lui che ha al 
        suo attivo tante esperienze metropolitane, i vantaggi di vivere in una 
        città, - talvolta la ridimensiona a paese - a misura d'uomo, la 
        quale, pur con tutti i limiti e le angustie dei piccoli centri, possiede 
        la grandissima prerogativa di avere la natura a portata di mano, in godimento 
        diretto. È un privilegio da non poco. 
        Scrive ne Il ramarro, un racconto del 1968: "... Chi non abita in 
        città smisurate, ma in piccoli centri ha la natura, si può 
        dire, fuori della porta di casa. Io vivo in uno di questi luoghi, fortunatissimo 
        perchè giace tra colli dolci e aspri, sotto alti monti. Dorsi, 
        pendii, valli e vallette, fratte, macchie e boschi, ruscelli e prati, 
        tutti a due passi. (Anche se nessuno più li compie quei due passi)". 
        La parentesi è sua. 
        Ne La bambola insanguinata è presente questo contatto della città 
        con l'immediata collina: "La strada, appena fuori della città, 
        costeggia il piede delle colline, poi si addentra principiando a salire 
        tra siepi di gelsi e di acacie, su per i fianchi delle brevi vallate coperte 
        di vigneti, di macchie di noccioli e di prati. Le colline non sono alte, 
        ma erte... ". 
        Tale sistema collinare, nel periodo tra il '43 e il '45, faciliterà 
        la guerriglia e sarà teatro di tanti scontri che qui si consumarono. 
        Anche la casa, che divenne la sede clandestina del Comitato di Liberazione 
        Nazionale, la casa di Gandin, fruiva di questa collocazione: "... 
        giorni caldi, anzi roventi, racconta in Memoriette marziali e veneree 
        - con morti e sparamenti perfino fuori dell'uscio di casa sua, che sorgeva 
        in una strada al limite della città vecchia, donde con un balzo 
        s'era sui viottoli delle colline e da qui sui sentieri per la montagna 
        ". 
        Anche le notazioni meteorologiche sono intonate all'ambiente e ritraggono 
        fedelmente la situazione climatica. Ne La bambola insanguinata: "La 
        giornata si preannunciava afosa. Masse di vapori leggeri coprivano i monti 
        vicini e si distendevanofilacciosi nel cielo torbido e velato ". 
        Ne abbiamo un altro esempio in un elzeviro, comparso su "Il Corriere 
        della sera" nel febbraio 1941, col titolo Sul campanile di roccia. 
        È qui di scena il Pian delle lastre, una zona di malghe sotto il 
        Monte Cavallo, uno 
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        degli epicentri delle imminente vicenda partigiana del Cansiglio: "... 
        le nubi gonfiarono su dalle valli quasi all'improvviso, avvolgendoci nelle 
        loro filaccefumose efredde. Poi tra tuoni e saette grandinò per 
        mezz 'ora, e infine un vento gagliardo disperse le nuvole .... al di sotto 
        di noi erano le pareti lucide e nere della montagna, e la conca verdissima 
        dell'Alpago o lo specchio celeste del lago che spiendevano". E più 
        avanti: "... il lago incastonato nella conca verde duemila metri 
        più sotto... 
        In Memoriette, egli ci spiega il perché della sua familiarità 
        con la zona, perché era così pratico del Cansiglio: "In 
        fanciullezza vi avevo trascorse lunghe stagioni percorrendo la selva per 
        ogni verso in compagnia di mio padre che era un gran cacciatore, e la 
        amavo legato ancora ai ricordi dei miei primi contatti con la natura selvaggia 
        e misteriosa. Vi avevamo anche una specie di villa a qualche chilometro 
        dal passo della Crocetta, sulla fascia esterna dell'altipiano coperta 
        dal ceduo che precede la foresta d'alto fusto: è da qui che muovevamo 
        andando a caccia ". 
        La costruzione esiste ancora ed è nota come Villa Natalia: "Quella 
        casa era annidata in una valletta della macchia nelle cuiforre ci era 
        concesso di aggirarci" ci informa in un altro racconto Andar per 
        funghi su "Il Gazzettino" del marzo 1964- ma solo in compagnia 
        del vecchio pastore Toni del Col delle Stelle, la cui malga era sulla 
        vetta della collina dal bel nome (in realtà è Pian de le 
        Stele, che è un' altra cosa n.d.r.) che sovrastava la nostra dimora 
        che egli custodiva durante l'inverno, abitandola col compito di mantenervi 
        la giusta temperatura al semebachi che mio padre gli affidava per l 'ibernazione 
        ". 
        Per comprendere il passo citato, bisogna sapere che, in assenza dei frigoriferi, 
        al fine di ottenere la schiusura del semebachi al momento desiderato, 
        si soleva farlo ibernare in qualche sito di montagna. Il padre di Spagnol, 
        Girolamo, aveva lo stabilimento bacologico in via Bella Venezia (ora via 
        Beniamino Labbi) e col fratello Giuseppe ne possedeva un altro in via 
        Garibaldi, angolo con via Rivetta. 
        In Andar per funghi: "Avevamo lasciata la casa avanti l'alba e raggiunto 
        il Passo della Crocetta c'eravamo inolt rati per la foresta, risalendo 
        la oscura Valle dell'Orso fra i grandi fusti degli abeti e dei faggi ..." 
        Nei racconti dello Spagnol c'è questa specialità: con rapidi, 
        indovinati tocchi, che non disturbano l'andamento del racconto, egli sa 
        darci informazioni, anche sotto l'aspetto socio-antropico, sull'ambiente 
        in cui si svolge l'azione. 
        Ecco sul Cansiglio alcune note essenziali, panoramiche (in Memoriette). 
        "Il Cansiglio è una vasta conca che si invasa entro un perimetro 
        di una trentina di miglia, costituito dai crinali dei monti che la cingono. 
        L'interno della conca è ricoperto dalla foresta, tranne nella sua 
        parte più bassa che forma un 'ampia zona prativa, lievemente ondulata, 
        costellata di malghe, ove con la buona stagione vi monticano un migliaio 
        di vacche: il Pian del 
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        Cansiglio, come è chiamato, al cui centro, in vetta alla maggiore 
        elevazione, sorge un albe rghetto, il 'Palazzo' e una villa, residenza 
        estiva dell 'Ispettorato della foresta. 
        L 'altipiano si raggiunge da Vittorio Veneto lungo una tortuosa rotabile 
        che per il passo della Crocetta lo attraversa, sboccando in un 'altra 
        grande conca alpestre, quella dell'Alpago, che divalla verso il lago di 
        Santa Croce. Pochi altri sentieri, sovente impervii e malagevoli, lo raggiungono. 
        L'acqua sorgiva vi manca, poiché la struttura geologica dell'altipiano 
        è di tipo carsico con foibe e inghiottitoi che smaltiscono le nevi 
        e le piogge, tuttavia la foresta è lussureggiante, grazie alle 
        frequenti precipitazioni e alle condense notturne, che nella stagione 
        asciutta coprono con uno strato di nebbia la conca del piano. 
        Nel suo insieme i 'altipiano costituisce una specie difortezza naturale, 
        di accesso difficile, facilmente difendibile. Il paesaggio, col suo manto 
        oscuro di abeti, di faggi, di lanci è imponente e severo, quasi 
        nordico ". 
        La natura, selvaggia e misteriosa, sedimentata nei ricordi della fanciullezza, 
        diventa prepotentemente teatro di lotta: "La guerra partigiana prese 
        ad accendersi anche nel mio paese che sorge ai piedi delle Prealpi e prossimo 
        all'altipiano del Cansiglio, che si protende con le pendici verso la pianura 
        tra il confine della Marca Trevigiana e il Friuli. L'altipiano è 
        una specie di grande conca guardata ali 'in giro da una fila di monti 
        che dalla pianura appaiono nudi, ma la conca è rivestita da una 
        grande foresta, il 'Bosco da remi di San Marco' della Repubblica di Venezia 
        che ha una estensione di oltre seimila ettari e che è, se non sbaglio, 
        la maggiore foresta demaniale italiana ". 
        Circa l'estensione della foresta è giustificato l'inciso dubitativo, 
        perché il Cansiglio non è sicuramente la maggiore foresta 
        demaniale italiana, superata com'è dai 18.000 ettari di quella 
        di Tarvisio e anche da quella della Sila. Quanto alla qualità del 
        prodotto e alla bellezza, si può discutere. 
        Egli trova modo di accennare anche ai Cimbri, i radi abitanti dell'altipiano, 
        gente di ceppo ladino (doveva dire 'germanico') emigrativi nel 1700 dai 
        Sette Comuni e ridotti ormai a poche famiglie. 
        Citando l'attività degli indigeni, descrive la gial (andrebbe scritto 
        jal), lo spazio rotondo dei vecchi carbonili, una delle poche risorse 
        della grama economia della zona (la troviamo anche ne L'aviatore americano), 
        un racconto uscito nel dicembre del 1948 su "Il Ponte" di Pietro 
        Calamandrei, dove si sofferma ancora sulla natura carsica dell'altipiano 
        e sul Bus de la Lum. 
        "Tra le forre del Cansiglio trovarono rifugio i primi sbandati che 
        si davano alla macchia, e i soldati caduti nelle mani dei repubblichini 
        e dei tedeschi che riuscivano a saltare dai treni avviati in Germania 
        per la linea Venezia Tarvisio ". 
        Presto corse voce della presenza di costoro, le cui file andavano progres57 
        sivamente infoltendosi; ma i partigiani erano pur presenti in forze sull'opposto 
        Col Visentin, le cui estreme propaggini vanno, una trentina di chilometri 
        oltre, a formare una spalla della stretta di Quero, attraverso la quale 
        scende il Piave; e il movimento si salda così con lo scacchiere 
        bellunese. 
        Mentre la tracotanza nazista, con sovrano disprezzo verso l'alleato di 
        Salò, proclama l'annessione dell'Alpenvorland, la Resistenza trevigiana 
        e bellunese realizza un'unità funzionale tattica e strategica, 
        confermata dalle missioni alleate, a cavallo delle Prealpi. 
        Si attua così un'integrazione-scambio tra le due province: tanto 
        da far deplorare oggi che la collaborazione non sia continuata nel dopoguerra, 
        tali erano le esigenze e i problemi comuni che avrebbero potuto essere 
        affrontati più proficuamente insieme. Ma questo è un altro 
        discorso. 
        Tito A. Spagnol, che stava progettando di tornare a Milano, dove suoi 
        amici già lavoravano nella Resistenza, entra nel Comitato di Liberazione 
        Nazionale vittoriese (avvicinato da Celante; di lui gli ha parlato Guggino), 
        prende contatto con Giovanni Gandin, che, dal suo seggiolone di miastenico, 
        con sprezzo del pericolo, tira le fila della cospirazione. Con lui dividerà 
        il carcere nelle prigioni veneziane. 
        Dal fascismo Spagnol era stato fuori, anzi tenuto a vista. In famiglia 
        aveva avuto uno zio paterno, l'avvocato Luigi, originale figura di politicante, 
        democratico, strenuo difensore dei poveri (le filandiere cantavano: "Viva 
        Spagnol, Viva Spagnol, via Luvigi il nostro protetòr! "), 
        sempre in lotta con i clerico-moderati e regolarmente battuto in tre successive 
        elezioni alla Camera. 
        Ora, col nome di battaglia 'Tommasi', Spagnol opera nel C.L.N., che ha 
        il compito di sostenere le formazioni che gravitano sulla città, 
        in special modo il Gruppo Brigate Cansiglio, mentre le altre formazioni 
        possono attingere a Belluno e a Conegliano. Situazione non facile, se 
        si pensa che Vittorio Veneto, con due caserme e numerosi altri accantonamenti, 
        è sede di Brigate Nere e poi della X Mas, di comandi tedeschi, 
        tra cui l'Intendenza della Luttwaffe. Spagnol accredita la notizia che 
        qui avrebbe trovato sede anche l'Ufficio Cartografico della Whermacht 
        in Italia (notizia che sarebbe oltremodo interessante anche per questo 
        nostro convegno imperniato sulla Geografia della Resistenza, ma che non 
        ha trovato riscontro in alcuna altra fonte consultata). 
        Lui salirà in Cansiglio per accompagnare il Battaglione territoriale 
        "Trentin" e lì i suoi capelli bianchi e il bastone fecero 
        una certa impressione: era uno dei partigiani più anziani (a conti 
        fatti aveva quarantotto anni!). 
        Ci arriva nel momento peggiore, perché è già nell'aria 
        il grande rastrellamento. E sarà protagonista di un singolare episodio. 
        La situazione sta precipitando. Già si delinea l'attacco concentrico, 
        da più direttrici, di consistenti forze nemiche. I tedeschi hanno 
        fatto un colpo di mano alle Prese, fino alle malghe, sfruttando la sorpresa. 
        "Era una maledetta 
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        montagna, con quella sua costiera boscosa e intersecata da innumerevoli 
        valioni sul versante tra Santa Croce e Farra, lungo i quali ci si poteva 
        inerpicare senza esser visti e uditifino al margine dei prati. Qualche 
        giorno di poi una voce minacciosa e nuova si fece udire: i cannoni da 
        149 che i tedeschi ave vano piazzato sulle colline vittoriesi che formano 
        l'antemurale ai dossi del Pizzoc. Altre batterie di minor calibro, dal 
        fondo della vallata del Fadalto battevano le creste del Millifret e di 
        Monte Prese. A sera tutte le macchie di ceduo che pezzano i dorsali esterni 
        di questo lato dell'altipiano erano in fiamme e i loro riflessi illuminavano 
        sinistramente il Piano del Cansiglio. Di notte il cannone non smetteva 
        di tuonare, le vampe delle granate sprizzavano sulle cime del Pizzoc ". 
        Ormai la situazione è insostenibile: i tedeschi avanzano e premono 
        da tutte le parti. E allora viene ordinato il ripiegamento: nel più 
        grande silenzio le brigate avrebbero abbandonato le posizioni fino allora 
        tenute, prendendo la via di Candaglia e di qui per Pian Cavallo e la Val 
        Cellina a ricongiungersi con le formazioni friulane della Osoppo. L'unica 
        via per sottrarsi ll'accerchiamento. 
        Secondo le tabelle di marcia: partenza alle tre del mattino. 
        Nella notte ci dovrebbe essere un lancio, ma gli aerei sorvolano due volte 
        e se ne vanno, forse disorientati dagli incendi. 
        Affranto, con le gambe che lo reggono a stento, Spagnol si sdraia in un 
        giaciglio nella 'dependance' dell'albergo e cade in un sonno di piombo. 
        Si sveglia alle sei. Non c'è nessuno. Sente crepitare mitragliatrici 
        tedesche. Che era avvenuto? L'alpino che doveva svegliarlo, lo ha scosso, 
        ha avuto risposta, ha preso il suo sacco e se ne è andato, convinto 
        che l'altro lo avrebbe seguito. Ora si trova solo, unico topo in una così 
        grande trappola. 
        E comincia un'allucinante odissea. Muove verso Candaglia, ma viene a sapere 
        da due partigiani sbandati che c'è stato un contrordine: non più 
        verso Candaglia; gli uomini hanno avuto l'ordine di scendere alla spicciolata 
        in pianura, cercando di filtrare tra le maglie dell'accerchiamento. Coi 
        due, che sono di Nove, decide di cambiare direzione, puntare a destra 
        verso Vallorch, salire verso l'orlo del Millifret, tra Pian de la Pita 
        e Col delle Fede. Una salita sfibrante, durissima. 
        L'aspetto della natura, fino ad allora descritta da lontano, ora attanaglia 
        in presa diretta: "... tutto un seguito diforre, di vailoni scoscesi, 
        di gobbe, di ertipendii che si intersecavano caoticamente. Il fusteto 
        era altissimo, senza una radura". 
        E poi la scelta della discesa vertiginosa per il Fafon. "Mi feci 
        spiegare cosa era il Fafon. Era un burrone che smaltiva le acque di Pian 
        de la Pita, svasandosi poi in un amplissimo conoide che finiva sopra la 
        strada di Ailemagna, nel punto in cui si immette quella che scende dalle 
        centrali idroelettriche di Basso Fadalto, sulle rive del Lago Morto.., 
        quasi a picco sotto di noi... come un vassoio opaco di peltro, 1200 metri 
        più in basso ". 
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        Al buio, per un sentiero a perpendicolo lungo le pareti del canalone, 
        senza sapere dove si posava i piedi, e poi il ghiaione con le continue 
        frane di sassi e i tedeschi allarmati che dal basso sparavano a casaccio. 
        Finito il ghiaione, cominciò l'altro tormento, quello dell'intrico 
        dei rovi e della sterpaglia, la prova più stressante, finché 
        riescono ad arrivare alla nazionale. "Tolteci le scarpe, in fila 
        rasente al muraglione, iniziammo quella che si riteneva la parte più 
        rischiosa della nostra impresa, ma che invece si svolse nel modo più 
        tranquillo. La strada era deserta, di notte i tedeschi amavano poco muoversi, 
        così senza incontri arrivammo alle prime case di Nove, ove presso 
        il cavalcavia c'era una fontana: erano dodici ore che non toccavamo acqua 
        ". 
        Dopo una cena improvvisata in una casa amica di un minuscolo borgo che 
        sorge più in là (Borgo Piccino Borgo Simoi), e un sonno 
        ristoratore, il Nostro torna a Vittorio in bicicletta, ben vestito. Al 
        posto di blocco i tedeschi guardano appena la carta di identità: 
        i capelli bianchi e le rughe sono il miglior lasciapassare. 
        In Cansiglio ci si accinge a ricostituire le formazioni disperse. Anche 
        se non c'è più un fabbricato, una casera, una baita in piedi 
        (così riferiscono le staffette), resta il Comando della Divisione 
        e del Gruppo Brigate, resta l'ospedale con cinquanta feriti intrasportabili 
        e un gruppo di ex prigionieri alleati, celati in un recesso della foresta, 
        dove i tedeschi si sono ben guardati dal penetrare. 
        Per ricostituire le formazioni occorrono mezzi di ogni sorta e il C.L.N. 
        si accinge alla nuova fatica, raccogliendo aiuti più abbondanti 
        di prima. 
        Fin qui le Memoriette. 
        T.A. Spagnol, dopo la guerra, è intervenuto con altri scritti a 
        commento della Resistenza, ha detto la sua anche polemicamente, ha partecipato 
        all'ampio dibattito che si è sviluppato sulle scelte e sui modi 
        della guerra partigiana. 
        Ma quest'ultimo scritto, quello che lui ha chiamato Memoriette del tempo 
        nero e che noi abbiamo abbondantemente citato, resta il tributo più 
        bello che egli ha rivolto a quella stagione di eroismi oscuri, scritto 
        con uno stile realistico senza enfatizzazioni, da "buon artigiano 
        della scrittura", come amava definirsi, forse con un pizzico di civetteria. 
        Il paesaggio del vittoriese e del Cansiglio sembra assumere in queste 
        pagine una particolare valenza: quasi un ruolo di coprotagonista, accanto 
        agli uomini, alla loro dura vita, alle fatiche, ai rischi, ai sacrifici 
        anche supremi. 
        Essi lottavano per la libertà della loro terra. E il paesaggio, 
        da insieme visivo di profili, di rilievi, di alberatura, di coltivi, assume 
        valore metafisico, sintesi di natura, di storia, di fedeltà e di 
        fierezza. 
        E la 'propria terra', il 'proprio paese' per quegli uomini. Diventa una 
        forza. Rappresenta per i volontari della libertà l'immagine viva 
        degli ideali per i quali combattevano e morivano.  
       
      NOTA 
      Memoriette marziali e veneree è stato 
        stampato in Vicenza - Arti Grafiche delle Venezie nel dicembre del 1970, 
        editore Mario Spagnol. 
        T.A. Spagnol avverte in premessa: "Queste pagine, pubblicate per 
        la prima volta da Leo Longanesi su 'L'italiano' e 'Omnibus', e da Mario 
        Fannunzio su 'il Mondo', sono state qui raccolte secondo l'ordine temporale 
        dei fatti e degli avvenimenti narrati 
       
        L'autore del presente testo ringrazia il signor Nino Roman per l'aiuto 
        fomitogli nella ricerca dei brani citati di T.A. Spagnol. 
       
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