ALESSANDRO DEL PUPPO
STORIOGRAFIA LOCALE OTTOCENTESCA. LE POLEMICHE DI ANTONIO
GARDIN
Nel maggio del 1925 "L'Azione", settimanale della diocesi di
Vittorio Veneto, pubblicava il seguente laconico trafiletto:
Maestro Antonio Gardin. 1115 maggio moriva in San Polo. Per 35 anni insegnò
con intelletto d'amore nelle scuole elementari di S. Polo, educando al
Vero, al Bene. Visse per Iddio, per la famiglia, per la gioventù.
Non conobbe gioie nella sua esistenza, ma soltanto doltri che sopportò
evangelicamente. Stampò diversi opuscoli d'indole storico-critica(1).
1) Alquanto vaghe le notizie di Antonio Gardin. Nato a
Castello Roganzuolo il 20 novembre
1854 da famiglia originaria di Ceneda, appartenente alla media borghesia
(il nonno Bortolomeo si distinse nella imprenditoria, ottenendo tra l'altro
un appalto per la tratta ferroviaria Conegliano-Sacile). Rimasto subito
orfano di padre, Antonio dovette compie gli studi nel paese, per poi spostarsi
con la cugina Zaira Gardin. Nella biografia redatta da Michele Cancina
(dattiloscritto, presso l'archivio parrocchiale di Castel Roganzuolo,
busta Famiglie, fascicolo Gardin) si riporta un paragrafo tratto dalle
Memorie d'un ispettore scolastico di G.B. Amorosa, che elogia l'attività
educativa di Gardin e della moglie presso le scuole di Collalbrigo in
Conegliano, dove i coniugi si erano divisi la sezione maschile e quella
femminile. Testimonianza del suo impegno educativo sono le due pubblicazioni
per la Scuola Popolare. Scarse sono le altre notizie: se diamo ascolto
alla notizia de "L'Azione" che riferisce di un trentennio di
insegnamento a San Polo, e che la visita dell'ispettore è datata
all'aprile del 1891, si può ipotizzare che subito dopo Gardin si
trasferì a San Polo di Piave (magari come premio, per le buone
impressioni suscitate dall'ispettore), dove assunse la carica di direttore
didattico. Rimase sempre attivo in zona, svolgendo sia indagini storico
artistiche che archeologiche. Uniche tracce di contatti più allargati,
le due edizioni a Firenze ed altrettante collaborazioni su "Rassegna
Nazionale" (cfr. Scritti di Antonio Gardin, in appendice, n. 13 e
15).
ALESSANDRO DEL PUPPO. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali. Attualmente
frequenta il terzo anno del Corso per dottorato di ricerca in Storia dell'Arte
presso la Scuola Normale di Pisa. Ha pubblicato vari articoli su riviste
d'arte e di cultura.
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È ignoto se quest'ultima attività abbia lenito
i dolori della vita di Antonio Gardin, maestro elementare e direttore
didattico, o piuttosto rientri fra le cause: certo è che in alcuni
suoi scritti la sopportazione non fu propriamente evangelica, e il tono
invero polemico. Lo testimoniano un pugno di operette di argomento artistico
che, redatte con scansione decennale, emergono nella sua produzione più
dispersiva che copiosa.
Non che un qualche tiepido successo abbia arriso al maestro: fino a qualche
decennio addietro, poteva capitare in margine a una bibliografia tizianesca
o del Cima un riferimento piuttosto oscuro al nostro. Si trattava per
lo più di rimandi a quella che fu la sua operetta di maggiore successo,
la confutazione di Cavalcaselle e Crowe in merito al polittico di Castel
Roganzuolo, con la quale esordì nel 1883.
Con gli Errori di G.B. Cavalcaselle e I.A. Crowe nella storia e nella
critica della pala di Tiziano in Castel Roganzuolo (Conegliano) Gardin
mostrava già nel 1883 l'intenzione di puntare in alto, non fosse
altro che per la dedica al principe Giuseppe Giovannelli, all'epoca presidente
benemerito dell'Accademia delle Belle Arti di Venezia, e in seguito munifico
donatore di un gruppo di opere, perlopiù acquisti alle prime Biennali,
che andarono a formare il nucleo della costituenda Galleria d'Arte Moderna
di Palazzo Pesaro. L'inevitabilità di questa scelta era ovviamente
giustificata dall'"eccellenza della causa" così patrocinata;
il che non bastò, da quel che ci risulta, a togliere l'impegno
profuso da un'aura di silenzioso disinteresse.
Al titolo dell'opuscolo, di lunghezza seicentesca, seguitava un proemio
così recitante:
L'incontrastabile originalità della pala che Tiziano dipinse per
la Chiesa parrocchiale di Castel Roganzuolo, vollero tolta, ad ogni costo,
G.B. Cavalcaselle e I.A. Crowe nel libro "Tiziano". Ma in vero
non riuscirono che a tracciare erronea la storia di quelle pitture, a
criticare con fallaci, contraddittorie, insussistenti argomentazioni,
onde noi passiamo a rilevare gli errori nei quali sono essi caduti(2).
Un tale scopo doveva giustificare, nell'opinione di Gardin, il ricorso
a un procedimento basato dapprima sulla minuziosa e approfondita ricerca
di ogni fonte documentaria - possiamo immaginare una facile consuetudine
sugli archivi parrocchiali - e, su questa base, dalla puntuale confutazione
degli incriminati paragrafi del Cavalcaselle.
Dopo averlo riportato in ampio stralcio (si citava il vol. TI dell'edizione
italiana, pp. 31-35, completo delle note), il testo venne dissezionato
e
2) Gardin, Errori di G.B. Cavalcaselle e
lA. Crowe nella pala di Tiziano in Castel
Roganzuolo (Conegliano). Firenze 1883, p. 5. La critica è rivolta
al volume di J.A. Crowe e
G.B. Cavalcaselle, Titian: his life and times with some account on hisfamily,
chi eflyfrom new
and unpublished records, London 1877, che si giovò di una edizione
italiana (Firenze, 1877-
78), Tiziano, la sua vita e i suoi tempi con alcune notizie sulla sua
famiglia.
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sottoposto ad una serrata e scolastica replica antifrastica.
Le quattro paginette di estratto furono così dilatate in due sezioni,
gli Errori storici e gli Errori critici, dove si passano in rassegna i
refusi di Cavalcaselle, risalendo all'erroneità delle fonti - di
terza mano - da lui citate (le trascrizioni archivistiche di Antonio Nicolai
fatte per conto di Taddeo Tacobi, la Storia del popolo cadorino del Ciani,
il Tiziano Vecellio del Beltrame a sua volta rettificante certe imprecisioni
del Ticozzi)(3), e il giudizio del medesimo.
Era gioco agevole, per Gardin, sottoporre al vaglio analitico ogni dato
citato, confrontandolo con gli archivi che aveva sott'occhio: e poichè
da un punto di vista documentario, la sua prassi era ineccepibile, poteva
concludere sin dalle prime righe, sfidando "tutti gli storici del
Tiziano a provarci con documenti alla mano, fra tutte le consegne fatte
dal cadorino una più accertata, più garantita, più
sicura di questa"(4).
Il riporto dal giornale della Fabbriceria di Castel Roganzuolo, relativo
agli anni dal 1543 al 1560, sosteneva la tesi di Gardin con argomenti
irrefutabili, computando oltre un quindicennio di rateazione delle 991lire
venete richieste da Tiziano per la pala. Di questa cifra, al pittore venne
corrisposto un effettivo in contanti di 118 lire, ed il rimanente in più
caserecce forniture di "forrnento per semenar i campi de ms. Tician
depentor", "polastri e colombini" e soprattutto fiumi di
"conzi de vin" per il ristoro dell'artista. Mai! grosso del
pagamento, si deduce, fu stornato nelle forniture di "calzina",
svariate "miara de piere chote", di "tavelle" e di
"copi", con relativi carreggi: il tutto, era destinato alla
costruzione di un'abitazione "in Col de Manza per ms. Tiziano"
che, dobbiamo presumere, rispecchiò le tribolazioni della committenza(5).
In tal proposito, le preoccupazioni di Gardin erano perlopiù rivolge
a sostenere la puntualità e la buona fede dei parrocchiani, in
particolare dopo il saldo che Celso Sanfiori addebitava nel maggio 1555
ai residenti in ragione di 231lire. E la confutazione paleografica, rivolta
agli errori del Nicolai ma estesa alla azzardata fiducia che Cavalcaselle
e Crowe diedero all'incauto curato, poteva essere un argomento sufficientemente
solido. Dimostrando
3) Per le fonti del Tiziano v. D. Levi, Cavalcaselle. Il
pioniere della conservazione dell'arte italiana, Torino, 1988, p. 369-378,
che riporta solo parte delle fonti citate da Gardin. Nello stesso volume
sono ricostruiti gli itinerari di studio che portarono, tra l'altro, il
Cavalcaselle "in lungo ed in largo per tutta l'Italia settentrionale"
tra il 1855 ed il 1856 (p. 109-110) e nel decennio successivo (p. 249-50),
oltre alla rete di corrispondenti locali (p. 259-segg.) che fanno ammettere
all'autrice "l'interesse per la documentazione la più vasta
possibile".
4) Gardin, Errori di G.B. Cavalcaselle cit. p. 11.
5) Ivi, p. 17-24. La trascrizione dei documenti è da ritenersi
più attendibile rispetto ai regesti di Cadorin e Beltrame, cit.
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poco senso della misura, e dei propri limiti, Gardin si
ostinò invece "da darle prove della validità delle
nostre confutazioni con fatti che non ammettono replica", spingendosi
nei territori della critica artistica: ambito non padroneggiato, che doveva
fatalmente cedergli sotto i passi ben calcati di un orgoglio campanilistico
che non poteva dargli ragione di essere, la pala di Roganzuolo, opera
sì documentata di Tiziano, ma con ampi e palesi interventi della
bottega. Tralasciando il problema del gonfalone, che Cavalcaselle credette
di individuare come recuperato nelle due figure degli apostoli (che Gardin
correttamente contesta, sulla base di osservazioni puramente tecniche,
quali il formato e la qualità delle tele, la sagomatura delle cornici
e la collocazione ad hoc sopra l'altare), il nostro cedette clamorosamente
proprio nelle battute finali del testo. Pur concordando che "i quadri
dei Castel Roganzuolo ( Il Tiziano ) li ha lavorati in fretta, senza tante
ripetizioni e li lasciò abbozzi o al più abbozzi avanzati"(6),
Gardin non accolse le critiche, che erano state così avanzate dal
conoscitore:
Il colorito e la tecnica di esecuzione negli Apostoli è di stile
tizianesco, ma della maniera propria de' suoi discepoli (...). Difatti,
i colori mancano di quella vigoria e forza che sono le qualità
del grande pittore, le forme sono modellate debolmente, e così
il disegno è molto trascurato, i panneggiamenti tirati via, la
tecnica di esecuzione molto rilassata, fiacco il tocco del pennello, ed
i colori magri di tinte e d'un tono tristo; ed inoltre difettano le figure
di luce e di ombre e quindi di rilievo, in confronto ai dipinti condotti
dalla mano di Tiziano(7).
La levata di scudi contro questa drastica limitazione è limitata
ad una debole opinione che in mancanza di meglio fa risuonare tutte le
corde del patetico nella difesa della Vergine. "Meno abilmente dipinta"
sentenzia Cavalcaselle in proposito; "questo giudizio mette orrore
nel più meschino conoscitore dell'arte", rilancia un Gardin
invocante: "Oh Tiziano Tiziano, quanto fosti grande in questa piccola
figura! Ella andrà per sempre celebrata accanto al tuo nome immortale"(8).
La critica di Cavalcaselle e Crowe, insomma, è "marcia"
e sta come conferma la breve antologia di citazioni (Federici, Ticozzi,
Crico, Beltrame, Ciani, Gilbert) e la fotografia dell'opera dopo i restauri
del 1881. Non si desidera ora entrare in merito alla disputa(9), tanto
più che i fatti della guerra
6) Gardin, Errori cit., p. 33, punto XIV.
7) Cavalcaselle-Crowe, Tiziano cit. p. 35.
8) Gardin, Errori cit., p. 34-35.
9) Si veda Gronau, Titian, London 1904, che accetta la paternità
tizianesca, di contro ai giudizi
diR. Pallucchini, "Arte Veneta", 1961, e la scheda di F. Valcanover
in L'opera completa di
Tiziano, Milano 1969, n. 325. Va ricordato che lo stesso Valcanoverin
occasione del furto del
1973 sottolineò l'esecuzione di bottega (un giudizio che, nella
circostanza, taluni vollero
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sembrano aver agito nel senso di una ormai perpetua sospensione del giudizio,
per quanto compromessa allora fu la pala. Dapprima, lo scriteriato deposito
nei soppalchi del coro, per sfuggire all'invasione, e poi il restauro
del 1920 che assieme alle muffe e all'umidità ha cancellato quel
poco o quel tanto di attribuibile alla mano del Tiziano.
L'opuscolo del Gardin ebbe scarsa risonanza.
Dopo una parentesi pedagogica in cui si occupò di letture per le
scuole popolari, pubblicando anche una monografia su Castel Roganzuolo,
ove ripropone gli argomenti a favore della paternità tizianesca
del trittico (si vedano gli scritti in appendice, n. 3-6), nel 1894 Gardin
tornò all'attacco difendendo il polittico di San Fior del Cima
dai dubbi espressi sempre da Cavalcaselle e Crowe. Sotto tiro questa volta
era la celebre A History of Painting in North Italy: Venice, Padua, Vicenza,
Verona, Ferrara, Milan, Brescia, from the fourte enth to the sixteenth
century, edita a Londra nel
1871.
L'intervento di Gardin non era sorto dalla conoscenza diretta di questo
testo, quanto piuttosto dal rifiorire di studi attorno alla figura di
Cima da Conegliano. Nel novembre del 1891 veniva infatti costituito a
Conegliano un comitato di studi su Cima, in vista del quarto centenario
della pala del Duomo. Su questo interesse per Cima doveva giovare il riordino
degli archivi comunali della città, da cui erano riemersi importanti
documenti, e sui quali si esercitò la ricostruzione storica di
Botteon ed Aliprandi(10).
La pubblicazione di questo volume rendeva disponibile, con le sue schede,
l'intera fortuna critica del polittico. Gardin apprese così le
opinioni negative in merito all'attribuzione al Cima, da Cavalcaselle
al Morelli e possiamo credere - si infuriò non poco. Armato di
penna e calamaio, si scagliò quindi contro "il moderno evangelio
pittorico", anche perchè fino a
collegare alla polemica sulle responsabilità dei
funzionari: cfr. B. Sartori, Castel Roganzuolo. Storia di un'antica Pieve,
Vittorio Veneto 1978, p. 96-105); cinque anni più tardi il dipinto
venne di nuovo ripulito dai precedenti interventi restituendo una reliquia
poco intelligibile (oggi conservata al Museo Diocesano d'Arte Sacra di
Vittorio Veneto) che è stata estromessa dalla mostra veneziana
su Tiziano del 1990. In quest'ultimo catalogo, il trittico è detto
commissionato nel 1543 e terminato nel 1549, con la bottega; nella bibliografia
nulla vi èregistrato di Gardin.
10) V. Botteon, A. Aliprandi, Ricerche intorno alla vita e alle opere
di Giambattista Cima, Conegliano 1893, ora in ristampa anastatica, Conegliano
1977. Questo lavoro resta fondamentale per il catalogo che, anche se troppo
ampio, mise a disposizione un vasto materiale d'archivio. Menegazzi nota
che la biografia è "la parte meno valida del lavoro, sia per
eccesso di entusiasmo campanilistico, sia perchè l'autore non è
propriamente un critico d'arte" (Cima da Conegliano, Treviso 1981,
p. 60. In questo volume sono ricordate in bibliografia le opere di Gardin
del 1894 e del 1903).
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quel momento egli "viveva tranquillo sull'originalità del
dipinto, sì pel carattere del dipinto, il quale mi è bastato,
senz'altri studi, per poter da me solo conoscere altre pitture del Cima".
Complice l'orgoglio di una certezza "senz'altri studi", si citava
quindi un passo del Botteon-Aliprandi, omettendo però gli autori,
che pur doveva conoscere bene(11) La scheda sul polittico di San Fior
ricordava dapprima la tradizione favorevole (Ridolfi, Federici, Crico)(12),
e poi di seguito: "Il Morelli però la dichiara di mano ignota.
Il Crowe ed il Cavalcaselle pongono questo quadro fra gli spuri, e trovano
che non ha finitezza nel tocco, e che èlavoro di artista posteriore
al Cima, ridipinto in molti luoghi"(13).
Gardin riprese tutti questi contributi - citando di seconda mano, abbiamo
l'obbligo di credere - sentenziando che "restano quindi Crowe e Cavalcaselle
quali primi e veri critici della pala di 5. Fiore", mentre la "gratuita
ed errata asserzione del Morelli" è darigettarsi, "come
cosa condotta sulle orme degli autori della Storia della Pittura nel nord
dell'Italia"(14),
Facendosi paladino dell'esattezza storica, l'autore notò che i
santi attorno al Battista rappresentano ciascuno il patrono delle chiese
dipendenti da San Fior: questione che "passò inosservata a
tutti; io sono il primo che l'ho rilevata". Concediamo questa piccola
gloria all'autore: tanto più che il resto del volumetto scarseggia
di argomentazioni robuste, limitandosi a rivestire di dottrinarismo piagnone
i dati già esposti sobriamente da Botteon. Tanto basterebbe a qualificare
l'intervento i Gardin; un piccolo strillo, insomma, con l'isterismo della
ragione che si somma a non pochi dilettantismi confessati con candore.
Può essere accettabile il confronto proposto fra alcuni dettagli
della predella e delle figure laterali con la pala del Duomo di Conegli
ano (ma cosa ne avrebbe pensato Morelli?). I dubbi però restano,
allorchè l'autore ci fa sapere che non si premurò neppure
di andare a consultare direttamente il libro di Cavalcaselle e Crowe,
accontentandosi di un estratto ("due sole righe", afferma, e
la pagina su Cima) che egli stesso richiese in biblioteca, a Venezia;
e si rafforzano, quando Gardin invoca la memoria di Giuseppe Carpani,
"il più grande critico d'arte che abbia avuto l'Italia"
e di cui
11) Il Botteon, anche lui nativo di Ceneda e parroco a
S. Martino a Conegliano, doveva con
ogni probabilità essere conosciuto da Gardin, che insegnava nella
vicina Collalbrigo.
12) L. Ridolfi, Le meraviglie dell'arte, Venezia, 1648, p. 60 (seconda
ed. ridotta, Padova
1835-37); D.M. Federici, Memorie trevigiane sulle opere didisegno, Venezia
1803; L. Crico,
Lettere sulle Belle Arti Trivigiane, Treviso 1883, p. 226 e segg.
13) Botteon-Aliprandi, op. cit., p. 128-130. Il passo è citato
con grande disinvoltura da Gardin,
p. 4.
14) Ivi, p. 5.
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confessiamo di aver reperito notizie con una certa difficoltà(15).
Non v'è ragione alcuna di dubitare della mano del Cima, ed una
lunga e autorevole tradizione sta oggi ad assicurarlo; ma va detto che
quando Gardin intervenne, forse paventava il timore che la storiografia
si impossessasse delle opinioni errate di Cavalcaselle, così come
fece Morelli. Ancora nel 1905 infatti Burkhardt considerava la pala opera
di un seguace, maldestro e ritardatario; anche se da Berenson in poi l'inclusione
nel catalogo del pittore coneglianese è indiscussa(16).
Ancora con il "madornale errore" riguardo il Cima
di San Fior si apre il volume Intorno alla critica d'arte di Giovanni
Morelli (Oderzo, 1903) che riprese, dopo un decennio interrotto solo da
una pubblicazione occasionale per nozze, il tema prediletto, polemizzando
con l'ormai celebre conoscitore.
Sin dalle prime righe, però, Gardin sembrò far di tutto
per sottolineare la propria superficialità: affermando che conosceva
il lavoro prima della sua edizione italiana, ma "non per averne letta
qualche pagina, bensì per la fama straordinaria che esso godeva":
del tutto inutile era il fatto che il suocero di Gardin si era laureato
in medicina a Vienna, dove si era sposato con una austriaca, e che quindi
la lingua tedesca, in qualche modo, avrebbe potuto essere padroneggiata.
La "fama straordinaria" non convinse poi Gardin a giungere all'acquisto
del libro, limitandosi egli a dare "una scorsa ad alcune pagine del
decantato volume", nella fattispecie datogli da leggere da un cortese
signore, "e non ho che da lodarmi, meco medesimo, dell'acume che
15) Giuseppe Carpani (1775-1857) fu allievo del Panni,
ispettore capo delle scuole elementari ed autore di una geografia ad uso
degli scolari del Lombardo-Veneto; sacerdote e canonico. Scrisse fra l'altro
una Vita di Benvenuto Cellini (Milano, 1806-18 11) e una Raccolta delle
migliori dipinture che si conservano nelle private gallerie milanesi (Milano,
1813). In quest'opera l'autore "scivola involontariamente, per mancanza
di preparazione specifica, in interpretazioni psicologiche più
che tecniche, indulgendo su riferimenti poetici appena l'argomento del
quadro glielo permetta" (E. Vittori, Giuseppe Carpani, in Dizionario
Biografico degli italiani, Roma, 1977, XX, ad vocem). L'importanza attribuitagli
da Gardin poggia su un' indubbia affinità elettiva di toni e di
stile, oltre che da un palese rispecchiamento, per così dire, professionale.
16) R. Burkhardt, Cima da Conegliano, Leipzig 1905, p. 118; B. Berenson,
Pitture italiane del rinascimento, Milano 1936, p. 125; T. Pallucchini,
Cinque secoli di pittura veneta, Venezia 1945, p. 53.54; R. Longhi, Viatico
per cinque secoli di pittura veneziana, Firenze 1946, p. 14; L. Coletti,
Pittura veneta del Quattrocento, Novara 1953; il resto della bibliografia
è in Menegazzi, op. cit., p. 111, da cfr. con P. Humpfrey, Cima
da Conegliano, Cambridge 1983, p. 16-21.
129
ho avuto di proclamare il Morelli un discepolo della critica del Cavalcaselle,
prima di aver letto il suo lavoro"(17),
Sembra che Morelli sia stato condannato a priori unicamente per la continuità
con la famigerata coppia di critici, che già avevano attirato gli
strali del Gardin. Ma i suoi argomenti, più che condotti ad un
approfondimento (ed alla verifica) delle fonti, furono rivolti a pesanti
ironie verso chi aveva il demerito di non aver pubblicato innanzitutto
nella lingua patria(18).
L'argomento di confutazione nelle mani di Gardin è il passo del
Cavalcaselle sui "quadroni di Brescia" in cui veniva criticato
l'esteso intervento della bottega, ipostatizzato a suo parere a un'associazione
a delinquere pittorica, con a capo l'ormai anziano cadorino. La medesima
obiezione venne rivolta alla drastica limitazione della pittura da cavalletto
di Raffaello, che Morelli poneva a partire dal 1516.
Quello che preoccupò l'estensore dell'opuscolo fu di salvaguardare
non solo l'onestà degli artisti, ma anche la buona fede di chi,
come i suoi parrocchiani, erano certi di possedere un'opera interamente
autografa. Non che i suoi richiami ad un maggiore rigore ed alla verifica
sui documenti siano da stigmatizzare, in sè:
E una magagna grave è appunto questa di appoggiarsi alla sola tecnica,
la quale tecnica non è sempre chiara e limpida, ma anzi, spessissime
volte, è suscettibile di discussione. (...) La conoscenza della
tecnica s'impara dopo aver appreso qualche elemento, almeno di storia
d'arte, dopo aver imparato almeno il nome del pittore che si studia. L'apprendimento
della conoscenza della tecnica segue, non precede la
17) A. Gardin, Intorno alla critica d'arte
di Giovanni Morelli, Oderzo 1903, p. 3-4 (il testo viene ricordato di
passaggio da F. Bernabei, Critica, storia e tutela delle arti, in Storia
della cultura veneta, voI. 6, Vicenza 1986, p. 425, n. 83). Il volume
reca una intestazione del Giovanni Carpani già ricordato, che recita
"Le arti belle ebbero ed hanno le loro guerre civili. Questa ne è
una ed ormai tenetela per dichiarata, sarà quel che sarà...
è da trent'anni la mia divisa, la seguo ed avanzo".
18) Gardin si riferiva infatti a G. Morelli, Della pittura italiana. Studi
storico-critici di Giovanni Morelli (Ivan Lemorlieff). Le Galleria Borghese
e Doria Pamphili in Roma, Milano, 1897. L'opera era la prima edizione
italiana, postuma (Morelli muore nel 1891), curata da Giovanni Frizzoni,
del volume Kunstkritische Studien uber italienische Malerei. Die Galerie
Borghese und Doria Pamphili in Rom. Von Ivan Lemorlieff Leipzig, FA. Brockhaus,
1890, che raccoglieva gli scritti attributivi già apparsi dal 1874
al 1876 nello "Zeitschrift fur bildende Kunst", a loro volta
testimonianza di un ventennio di frequentazioni museali delle collezioni
europee (cfr. G. Agosti, Cronologia della vita e delle opere, in La figura
e l'opera di Giovanni Morelli: materiali di ricerca, Bergamo 1987, p.
17-30; sul metodo morelliano v. almeno E. Wind, Arte e anarchia, Milano
1972, p. 55 e segg., C. Ginzburg, Spie, Radici di un paradigma indiziario,
ora in Miti, emblemi e spie, Torino 1986, p. 158 e segg.).
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storia. Sono la storia, all'autorità i documenti quelli che dicono
la prima volta che uno si metta davanti a dei quadri(19).
Ma è vero che nel discorso di Gardin si può intravvedere,
in filigrana, la trama di un interesse fortemente localistico e rivolto
essenzialmente a difendere quel che era considerato senz'altro un proprio
patrimonio. Ci sembra questo il nodo principale, quello più significativo
fra quanti emergono nella lettura, altrimenti scarsamente sollecita di
questioni storiografiche. Il determinismo archivistico e documentario
dell'autore è quindi, innanzitutto, campanilistico sostegno di
una tradizione: rivolto a sancire, attraverso l'autorità dei documenti,
quello che la storiografia artistica era orientata a mettere in dubbio.
È così la tradizione ad avere valore sommo, "mentre
a rovesciare in arte la tradizione colle sole forze dell'intelligenza
artistica, ècosa che conduce tante volte in ereticali bestemmie,
come ne furono condotti il Cavalcaselle ed il suo amico Morelli"(20).
Allo sguardo sfuggente dei conoscitori - che oggi sappiamo responsabile
sì di errori attributivi ma storicamente fecondo di confronti,
raccordi e sintesi - viene opposto l'occhio fisso degli eruditi locali,
abili a frugare negli archivi parrocchiali ma offuscati dalla loro stessa
rigidità.
Il terreno di scontro passa quindi a Vasari, ed ai vari errori imputati
alle Vite: e non interessa qui tanto entrare nel merito delle contestazioni
morelliane
- non lo fa neppure Gardin -' quanto sottolineare la strategia di difesa
del medesimo, che si può così riassumere: Vasari e la critica
classica, "gran-d'onore della patria nostra", non si toccano(21).
Piuttosto, il metodo di Morelli è verificato (c'era motivo di dubitarne?)
sulla pala di Castel Roganzuolo, che a distanza di vent'anni non smette
di costituire il paradigma critico del nostro. Il risultato è paradossale,
perchè nell'intento di negare una qualsiasi validità al
metodo di Morelli, Gardin afferma beffardo che "si dovrebbero affibbiare
i detti quattro santi al pennello di quattro autori diversi"(22):
una conclusione più vicina alla verità di quanto non sia
quella di ritenerli totalmente autografi. Mentre più avanti, ritornando
sulla pala di San Fior, viene ricordato l'opuscolo, "dato alle stampe
dieci anni fa e rimasto senza risposta, come è rimasto senza risposta
l'altro opuscolo che ho stampato nel 1883, intorno alla pala di Tiziano
in Castelroganzuolo".
Non è il caso di accanirsi; Gardin, che abita in provincia ed è
poco aggiornato, lavora essenzialmente sui documenti degli archivi locali,
con
19) Gardin, Intorno alla critica d'arte cit., p. 12-13.
20) Ivi, p. 14.
21) Ivi, p. 20.
22) Ivi, p. 22. Gli altri due santi sono quelli della pala di Serravalle.
131
inevitabili campanilismi, dietro i quali sta comunque la consapevolezza
dei limiti ("Io come ho detto, non posso parlare in questo caso se
non di quadri che ho visti più volte, che più volte ho contemplati")
del proprio dilettantismo.
Resta inteso che anche quello di Morelli-Lemorlieff-Schwarz(23) era un
dilettantismo (se col termine indichiamo una condizione di storico non
professionale o accademica) ma di ben altra statura: poichè le
sue competenze, nate da una cultura tedesca arricchita dagli innumerevoli
viaggi, dovevano procurargli l'ammirazione ed il plauso di un'intera generazione
di storici dell'arte, a partire dalla scuola di Vienna.
Per inquadrare lo scritto nel panorama della storiografia coeva, si tenga
piuttosto a mente che, inaugurando giusto nel 1904 il primo corso di storia
dell'arte presso l'università di Roma, Adolfo Venturi sottolineava
il carattere innanzitutto filologico della ricerca, e quindi una indagine
archivistica e documentaria. Questo lavoro era poi finalizzato, dato il
suo valore educativo, allo sviluppo della civiltà umana(24). In
questo suo indirizzo, le suggestioni del metodo dei conoscitori si assommavano
ad un pedagogismo postunitairo, dall'impianto positivista, che venne peraltro
superato con l'impresa della Storia dell'arte italiana.
Ma più che l'opera di Venturi, Gardin avrà tenuto conto
del testo di Giovanni Ferrieri, Il senatore Giovanni Morelli e la critica
d'arte, edito nell'anno e nel luogo medesimi del volume di Gardin: una
ulteriore conferma, come già nel 1893, di come il nostro autore
intervenga dietro sollecitazioni altrui e sempre in risposta a qualche
tesi già divulgata. Ma in questo particolare orientamento non mancano
le eccezioni.
Una delle ultime tappe del percorso, sin qui seguito, attraverso la perigliosa
pubblicistica di Gardin è il curioso e per certi versi divertente
baedeker del 1922 (Le belle pitture della città di Vittorio per
A. Gardin), scrupolosa e pedagogica guida alle bellezze artistiche della
città, dedicata ampollosamente ai giovani "affinchè
amino questo fiore come merita": e per fugare gli ultimi dubbi sottolinea
premuroso in una avvertenza che
i caratteri principali che fanno conoscere le belle pitture sono: il disegno,
il colorito, l'espressione, il panneggiamento, la prospettiva, la tecnica
di esecuzione, il tocco, la disposizione delle parti, l'effetto. Pur troppo,
tutti questi pregi, non sempre si vedono riuniti neppure nei dipinti classici;
ma anche alcuni di questi caratteri bastano a rendere pregevoli i quadri.
23) Com'è noto, Morelli pubblicò le sue opere
sotto pseudonimo, dietro la doppia copertura
del fantomatico traduttore Johannes Schwarze (anche qui, l'indizio era
il calco tedescofono
del proprio nome) che nasconde l'identità del deputato e senatore
del Regno.
24) A. Venturi, La storia dell'arte italiana. Discorso, Roma 1904.
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L'esposizione viene quindi ripartita, piuttosto arbitrariamente, in due
settori (dipinti a fresco e pale d'altare), secondo un criterio di anarchia
topografia che avrebbe affaticato ogni itinerante in un tour de force
da Ceneda a 5. Augusta a Serravalle a Costa per tornare a Ceneda e poi
a Meschio e così via.
Esenti toni ed argomenti polemici, non mancano comunque gli spunti interessanti:
a cominciare dall'attenzione che il Gardin rivolge allo stato di conservazione
delle opere, sollecitando in svariati luoghi maggiori cure al patrimonio
artistico. Così infatti afferma a proposito degli affreschi a 5.
Pietro in Ceneda ("Peccato che il proprietario non pensi a salvare
dalla rovina il dipinto dell'ultimo gruppo"); e innalzando il tono
della trattazione, fa parlare direttamente i freschi di S. Augusta, "rovinati
dalle ingiurie del tempo e dall'incuria degli uomini" che così
si rivolgerebbero ai cittadini di Vittorio: "Anche noi meritiamo
di essere ricordati da voi per la nostra antichità, per i nostri
colori; anche noi meritiamo di essere da voi conservati"(25). Del
resto non mancano dubbi e incertezze, soprattutto sulle attribuzioni,
che ci restituiscono un Gardin alquanto cauto e circospetto, sinceramente
addolorato per la mancanza di identificazione ma evangelicamente, appunto,
sopportante queste lacune, senza sbilanciarsi nel ricercare una qualche
paternità. Potrebbe questo essere indizio di scarsa perizia storico-artistica,
di poca maneggevolezza, stavolta, con le fonti ed i documenti: ma preferiamo
assumere l'immagine di un Gardin sincero appassionato che preferisce,
di fronte al capolavoro, il silenzio quasi religioso e, questo sì,
molto romantico:
È un gioiello davvero. Non si conosce l'autore. E quante non se
ne sono dette dai critici e dagli amatori d'art!e. Fu attribuito a Giovanni
da Udine, al Mantegna! È un quadro raro davvero (...) E un quadro
antico. E chi sa chi l'ha dipinto. (...) E quanto, non potrei dire del
dipinto di questo pontefice? Anche in mezzo al secco che vi domina, io
non mi stanco mai di ammirare questa tavola.
L'opera cui si riferisce è la pala di Costa (anch'essa ora presso
il Museo Diocesano di Arte Sacra), una tavola che nel corso della sua
storia ha sopportato, come si vede, ogni genere di azzardo: per stabilizzarsi
infine su una attribuzione, quella a Francesco da Milano, che ha il pregio
di un argomento sufficientemente brillante a svettare sugli altri, ma
abbastanza debole da potersi piegare a qualche altra voce, che ancora
oggi è lecito attendersi. In questa occasione, Gardin curiosamente
glissa sulla interpretazione di Cavalcaselle-Crowe (che sanciscono la
mano del da Milano)(26): ma
25) A. Gardin, Le belle pitture della città di Vittorio,
Conegliano 1922, p. 3-4.
26) M. Lucco, Francesco da Milano, schede di G. Mies, Vittorio Veneto
1983, p. 138.
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il suo silenzio potrebbe valere qui come una aperta sconfessione dei conoscitori,
una rimozione - più elegante dei consueti rancori verbali - che
potrebbe essergli stata suggerita dalla sua personale emarginazione critica.
Cosa concludere, da questo percorso attraverso quattro pubblicazioni nell'arco
di quarant' anni? Innanzitutto, la significatività dei decenni
entro i quali si iscrive il nostro episodio, decenni che videro compiersi
la genesi della moderna storia dell'arte italiana: si parte con i conoscitori
ottocenteschi e si arriva a lambire i Venti di Roberto Longhi (anche se
di questi ultimi èinutile cercare una qualsiasi traccia, che non
sia mera concordanza cronologica). Antonio Gardin, che possiede consapevolezza
solo riflessa di quei mutamenti, appare convincente e argomentato quando
esercita l'esegesi sulle fonti d'archivio locali: riesce anche a comprendere
che l'abilità del conoscitore va associata ad una salda conoscenza
degli sviluppi storici della pittura, entro cui collocare i giudizi attributivi
e le conoscenze documentarie. Così, mentre le critiche al metodo
del Morelli tentano di cogliere l'aspetto più superficiale e la
debolezza storica (senza peraltro denunciare quel che si riversò
in dottrina positiva, svalutandone le potenzialità) nella polemica
con Cavalcaselle non riesce a distinguere fra errori documentari - verso
i quali i residenti in loco hanno il vantaggio di lunghe consultazioni
e di verifiche dirette - e capacità di superarli, dal punto di
vista della spassionata analisi stilistica e formale. E questione che
al nostro fa difetto, così come è da registrare un timore
quasi reverenziale verso l'opera, e verso l'aura di tradizione cui è
rivestita, soprattutto. Una critica che tende a conservare opinioni consolidate,
e una passione attenta a conservare l'opera, proprio in quanto bene.
L'esempio che si è riportato si colloca nel novero di quella storiografia
di carattere locale e di toni quasi sempre più o meno apologetici.
Tuttavia, questa copiosa produzione reca come correlato oggettivo la messa
in discussione dell'operato di quelle frange della connoisseurship che
mostravano il logoramento di un approccio critico basato sul colpo d'occhio,
sull'intuizione, sulla felicità congetturale. Entrando in competizione
con la agguerrita storiografia locale, il giudizio dei conoscitori si
prospettava in tutta la sua fragilità, una volta messa a serrato
confronto con le più ampie ricerche documentarie di cui poteva
giovarsi la critica locale. Anche se in realtà, è necessario
qui distinguere fra procedimenti complementari: poiché se da un
lato le ampie trattazione storiche ottocentesche potevano talvolta tradire
un difetto di documentazione sulle fonti, con la loro ampia impostazione
riuscivano a collocare un'opera nel più vasto quadro generico di
un territorio e di un periodo, superando il campanilismo e la tradizione
esasperata a superstizione. Quella stessa tradizione, che sta alla base
sia dei primi passi verso le minuziose e rigorose indagini filologiche
locali, come del tradimento che sulle stesse fonti, in nome di un generico
orgoglio, fu spesso consumato.
Appendice
Scritti di Antonio Gardin
1) Scritti Vari - Arte e Storia, Firenze,
1883.
2) Errori di G.B. Cavalcaselle e I.A. Crowe nella storia e nella critica
della pala di Tiziano
in Castel Roganzuolo (Conegliano), Firenze 1883.
Bibliografia: L'opera completa di Tiziano, a cura di F. Valcanover, Milano
1968; B. Sartori,
Castel Roganzuolo. Storia di un 'antica Pieve, Vittorio Veneto, 1978,
p. 91-93 e ristampa
completa in appendice, p. 223-244.
3) Discorso sulla Storia d'Italia da Silla a Bonaparte, Conegliano, 1886.
4) Monografia di Castel Roganzuolo, Conegliano, 1886; - seconda edizione
ampliata, a cura della Cassa Rurale, Conegliano, 1898.
5) Vettore da Brusaporco. Lettura per la scuola popolare, Treviso, 1889.
6) Collaibrigo. Lettura per la scuola popolare, Treviso, 1891.
7) La palma del Cima nella chiesa di 5. Fiore in risposta alla critica
di Crowe a Cavalcaselle,
Oderzo 1894.
Bibliografia: Cima da Conegliano, catalogo della mostra (Treviso, 1962),
p. 35-36; L.
Menegazzi, Cima da Conegliano, Treviso 1981, p. 111.
8) Il censo di 5. Polo del 1545, Oderzo 1900.
9) Intorno alla critica d'arte di Giovanni Morelli, Oderzo 1903.
Bibliografia: L. Menegazzi, ibid.
F. Bernabei, Critica storia e tutela delle arti, in Storia della cultura
veneta, voI. 6, Vicenza
1986, p. 425, n. 83.
10) Dell'Ufficio di direttore didattico, Oderzo 1907.
Il) Annotazioni al pensiero politico di Cesare Cantù, manoscritto,
volI. 2, 1918.
Nel regesto delle opere di Gardin stilato dal Cancian (cit.) è
annotato che i volumi "vennero
distrutti dall'invasione tedesca a S. Polo".
12) Antichità romana, chiesetta primigenia, castello medievale
in 5. Polo di Piave
"Scritto dall'autore dopo il 1919", annota Cancian. E così
Adolfo Vital, in Tracce di romanità
nel territorio di Conegliano, Venezia 1931, p. 24, nota 1: "Ci riuscì
di grande aiuto un breve
lavoro rimasto inedito del compianto direttore didattico di San Polo di
Piave, Antonio Gardin,
Antichità romane, chiesetta primigenia, castello medievale in 5.
Polo di Piave, scritto
dall'autore dopo il 1919, e gentilmente favoritomi per visione dalla famiglia
dell'estinto. Il
Gardin fu veramente un modesto, ma benemerito figlio della sua terra,
e per un ventennio
studiò costantemente il sottosuolo del paese e dintorni, formulando
anche la mappa,
sventuratamente perduta, assieme al piccolo museo della scuola durante
l'invasione straniera". Negli appunti di Cancian, infine risulta
che "La direzione generale delle antichità e belle
arti del Ministero della PI. nella edizione archeologica della Carta d'ltalia
al 100.000 (Foglio
38 - Conegliano) - si è valsa degli studi di A. Gardin per le notizie
delle seguenti località:
Castello Roganzuolo (San Fior); Spiridiona, Cornadella, Camminada (San
Polo di Piave);
Ormelle Centro, Rovarè (San Biagio di Callalta)".
13) La più bella concezione d'arte della Maternità di Maria
SS. in "Rassegna Nazionale",
1 settembre 1921.
14) Le Belle Pitture della Città di Vittorio, per Antonio Gardin,
Conegliano, 1922.
15) Verde della Scala, in "Rassegna Nazionale", luglio 1924.
A questo elenco Cancian aggiunge una "cartolina con disegno e notizie
sulla Lapide Euganea
trovata a Castello Roganzuolo nel 1843, ora nel Museo Correr di Venezia",
edita a San Polo
nel 1924. Infine la testimonianza de "L'Azione", già
citata in apertura, ricorda che "ultimamente Vita di Gesù
- I fioretti di maggio innestati nel
Vangelo".
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